18

Lo spettacolo musicale

LXXVIII

Pranzarono nella medesima sala in cui avevano fatto colazione. Era piena di alphani e con loro c’erano Trevize e Pelorat, graditi ospiti. Bliss e Fallom mangiavano separate, più o meno in privato, in un piccola dépendance.

C’erano parecchi tipi di pesce e una zuppa in cui galleggiavano pezzetti di carne, forse capretto bollito. C’erano pagnotte da affettare, burro e marmellata; un’insalata abbondante; niente dessert e un’infinità di brocche di succhi di frutta. Trevize e Pelorat, dopo la sostanziosa colazione, si limitarono a un pasto frugale, a differenza di tutti gli altri.

«Come faranno a non ingrassare?» si chiese Pelorat a mezza voce.

Trevize fece spallucce. «Molti lavori pesanti, forse.»

Era un società in cui il decoro a tavola non aveva molto valore. C’era un frastuono di grida, risate, tazze battute con forza sul tavolo: tazze solide, evidentemente infrangibili. E le donne erano chiassose quanto gli uomini, per quanto in modo più stridulo.

Pelorat era frastornato ma Trevize, che almeno per ora non avvertiva la benché minima traccia del disagio di cui aveva parlato con Hiroko, si sentiva rilassato e di ottimo umore.

«Niente male, quest’ambiente» disse Trevize. «Sembra che la gente si goda la vita e non abbia eccessive preoccupazioni. Controllano il tempo, hanno cibo a volontà. Una specie di età dell’oro che non finisce mai.»

Dovette gridare per farsi sentire e Pelorat gli urlò di rimando: «Ma tutto questo baccano!».

«Ci sono abituati.»

«Non vedo come facciano a capirsi in mezzo a tanto chiasso.»

Certo i due ospiti non capivano nulla. A un volume così alto, la strana pronuncia, la grammatica arcaica e l’ordine delle parole della lingua alphana formavano un miscuglio incomprensibile. Per Trevize e Pelorat era come ascoltare i rumori di uno zoo spaventato.

Solo dopo il pranzo si riunirono a Bliss in una piccola costruzione che a Trevize parve quasi identica alla casa di Hiroko e che era stata assegnata agli ospiti come alloggio provvisorio. Fallom era nella seconda stanza, finalmente sola, e cercava di fare un sonnellino, spiegò Bliss.

Pelorat guardò l’apertura murale che fungeva da porta e disse incerto: «Non c’è molta privacy, qui. Come possiamo parlare liberamente?».

«Ti assicuro che, una volta tirata la tenda,» disse Trevize «non saremo disturbati da nessuno. La tenda è una barriera impenetrabile che ha la solidità di una consuetudine sociale.»

Pelorat sollevò lo sguardo verso le finestre aperte. «Possono sentirci.»

«Non c’è bisogno che gridiamo. Gli alphani non staranno a origliare. Anche quando erano fuori dalle finestre della sala da pranzo a colazione, si mantenevano a rispettosa distanza.»

Bliss sorrise. «Nel tempo che hai trascorso con la piccola Hiroko hai imparato moltissimo sulle usanze alphane e sembri sicuro del loro rispetto per l’intimità altrui. Cosa è successo?»

«Se hai capito che la mia situazione psicologica è cambiata in meglio e immagini il motivo, posso solo chiederti di lasciare in pace la mia mente.»

«Sai benissimo che Gaia non toccherà la tua mente in alcuna circostanza, a meno che non si tratti di un’emergenza vitale. Comunque, non sono mentalmente cieca. Ho percepito quel che è successo a un chilometro di distanza. È un’abitudine cui non puoi rinunciare quando viaggi nello spazio, mio caro erotomane?»

«Erotomane? Via, Bliss, due sole volte in tutto il viaggio. Due volte!»

«Siamo stati solo su due mondi abitati da femmine umane funzionanti. Due su due, e in entrambi i casi è successo quasi subito dopo il nostro arrivo.»

«Sai benissimo che su Comporellen non avevo scelta.»

«Hai ragione. Ricordo che tipo era quella» disse Bliss. «Eppure non credo che Hiroko ti abbia bloccato nella sua morsa d’acciaio, né abbia piegato il tuo povero corpo con la sua irresistibile forza di volontà.»

«Certo che no. Ero perfettamente consenziente. Comunque, la proposta è partita da lei.»

Con una punta di invidia nella voce Pelorat chiese: «Ti capita sempre così, Golan?».

«Certo, Pel» disse Bliss. «Le donne sono impotenti di fronte al suo fascino.»

«Magari» disse Trevize. «Ma non è così, e sono contento; ho altri interessi nella vita. Comunque, in questo caso sono stato irresistibile. In fin dei conti, siamo le prime persone provenienti da un altro mondo che lei abbia visto. Forse, che gli alphani delle ultime generazioni abbiano visto. Da certe cose che Hiroko si è lasciata sfuggire, da certe osservazioni, ho capito che era abbastanza eccitata all’idea che potessi essere diverso dagli alphani, anatomicamente o in quanto a tecnica. Poverina, temo che sia rimasta delusa.»

«Oh?» fece Bliss. «E anche tu sei rimasto deluso?»

«No» rispose Trevize. «Sono stato su parecchi mondi e l’esperienza non mi manca. E ho scoperto che la gente è sempre la stessa e che il sesso è sempre lo stesso. Se ci sono differenze apprezzabili, di solito si tratta di cose banali e spiacevoli. I profumi che ho incontrato in vita mia! Ricordo che una ragazza non riusciva a combinare nulla se non c’era della musica suonata a tutto volume, musica che era un’accozzaglia di suoni stridenti. Così lei suonava questa musica e allora ero io a non riuscire a combinare nulla. Ve lo assicuro, il vecchio sistema tradizionale mi va benissimo.»

«A proposito di musica» disse Bliss. «Siamo stati invitati a uno spettacolo musicale dopo cena. Una manifestazione molto formale, pare, in nostro onore. Mi è parso di capire che gli alphani siano molto orgogliosi della loro musica.»

Trevize fece una smorfia. «Il loro orgoglio non renderà la musica più piacevole alle nostre orecchie.»

«Ascolta» disse Bliss. «Sono orgogliosi perché pare che suonino con maestria degli strumenti estremamente arcaici. Estremamente, capito? Può darsi che grazie a essi riusciamo a ottenere qualche informazione sulla Terra.»

Trevize inarcò di colpo le sopracciglia. «Un’idea interessante. E a proposito, forse voi due avete già qualche informazione. Janov, hai visto quel tale Monolee?»

«Certo» rispose Pelorat. «Sono rimasto con lui per tre ore e Hiroko non esagerava. Si è trattato di un monologo continuo da parte sua e, quando mi sono allontanato per venire a pranzare, Monolee si è aggrappato a me e non mi ha lasciato andare finché non gli ho promesso che sarei tornato quanto prima ad ascoltarlo.»

«E non ti ha raccontato nulla di interessante?»

«Be’, anche lui, come chiunque altro, ha insistito sulla radioattività letale della Terra; ha detto che gli antenati degli alphani furono gli ultimi a lasciare il pianeta e che, se non fossero partiti, sarebbero morti. E, Golan, la sua enfasi è stata tale che ho dovuto credergli per forza. Ne sono convinto. La Terra è morta e la nostra ricerca a conti fatti è inutile.»

LXXIX

Dalla sua sedia Trevize fissò l’amico seduto su una branda. Bliss, che sedeva accanto a Pelorat, si alzò e guardò i due uomini.

Infine Trevize disse: «Lascia che sia io a giudicare l’utilità della nostra ricerca, Janov. Riferiscimi quello che ti ha raccontato quel vecchio chiacchierone. In modo conciso, naturalmente».

Pelorat cominciò: «Mentre Monolee parlava, ho preso appunti. È servito ad aumentare la credibilità del mio ruolo di studioso, ma non c’è bisogno che li consulti. Monolee parlava a ruota libera. Ogni cosa che diceva gli ricordava qualcos’altro, ma naturalmente, è da una vita che cerco di sistemare in modo organico le informazioni per ricavarne i dati rilevanti e significativi, quindi per me è quasi un fatto istintivo riuscire a condensare un discorso lungo e incoerente, trasformandolo».

Trevize intervenne garbato: «In qualcosa di altrettanto lungo e incoerente? Vieni al punto, Janov».

Imbarazzato, Pelorat si schiarì la voce. «Sì, certo, amico mio. Cercherò di presentare un resoconto organico e cronologicamente ordinato. La Terra era la patria d’origine dell’umanità e di milioni di specie di piante e animali. Continuò a esserlo per innumerevoli anni, fino all’invenzione del volo iperspaziale. Poi furono fondati i Mondi spaziali che si staccarono dalla Terra, crearono culture indipendenti e giunsero a disprezzare e a opprimere il pianeta madre.

«Dopo un paio di secoli di questa situazione, la Terra riuscì a riguadagnare la propria libertà, anche se Monolee non mi ha spiegato di preciso come avvenne. Non ho osato fargli delle domande, anche se mi avesse lasciato la possibilità di interromperlo, perché così lo avrei fatto divagare ulteriormente. In effetti, ha accennato a un eroe terrestre di nome Elijah Baley, ma i riferimenti a quel personaggio erano così caratteristici dell’abitudine di attribuire a una singola figura le imprese di intere generazioni che francamente sarebbe stato inutile cercare di...»

«Pel, caro,» disse Bliss «ti abbiamo capito perfettamente.»

Pelorat si fermò nuovamente a riflettere. «Oh, certo. Scusate. La Terra avviò una seconda ondata di colonizzazione, fondando molti nuovi mondi. Il nuovo gruppo di coloni si dimostrò più forte degli spaziali, li sconfisse e alla fine fondò l’impero galattico. Durante le guerre tra coloni e spaziali... no, non guerre, perché Monolee ha utilizzato il termine “conflitto” e lo ha ribadito. Durante il conflitto, la Terra diventò radioattiva.»

Trevize osservò seccato: «Che assurdità, Janov. Come può un mondo diventare radioattivo? Tutti i mondi lo sono leggermente al momento della formazione, poi la radioattività decade lentamente. Un mondo non può diventarlo».

Pelorat alzò le spalle. «Sto solo riferendoti le parole di Monolee. E lui mi ha raccontato qualcosa che qualcun altro gli aveva raccontato dopo averla sentita da un altro ancora e via dicendo. È la storia popolare, tramandata da chissà quante generazioni, con chissà quante distorsioni a ogni passaggio.»

«Capisco, ma non esistono libri, documenti primitivi in grado di fornirci una versione più precisa del racconto di Monolee?»

«In effetti sono riuscito a chiederglielo e la risposta è stata: no. Monolee ha detto in modo vago che nell’antichità c’erano sì dei testi sull’argomento, libri andati smarriti da un pezzo, ma che lui mi aveva raccontato il loro esatto contenuto.»

«Già, travisato e distorto. Sempre la stessa storia. Su qualsiasi mondo andiamo, in un modo o nell’altro i documenti riguardanti la Terra sono scomparsi. Be’, secondo lui, come si sarebbe verificata la radioattività?»

«Non me ne ha parlato dettagliatamente. Ha solo accennato alla responsabilità degli spaziali, ma ho capito che gli spaziali erano i demoni ai quali i terrestri attribuivano la colpa di qualsiasi sventura.»

Una voce squillante lo interruppe. «Bliss, io sono spaziale?»

Fallom era ferma sulla soglia tra le due stanze, i capelli arruffati, la camicia da notte (destinata in origine a dimensioni maggiori del suo corpo) scivolata su una spalla a rivelare un seno non sviluppato.

«Ci preoccupiamo di chi può origliare da fuori e ci siamo scordati di chi origlia dentro» disse Bliss. «Fallom, perché dici così?» Si alzò dirigendosi verso la solariana.

«Non ho quello che hanno loro,» rispose Fallom e indicò i due uomini «né quello che hai tu, Bliss. Sono diversa. È perché sono una spaziale?»

«Lo sei, Fallom» disse Bliss in tono carezzevole. «Ma certe piccole differenze non hanno importanza. Vieni, a letto.»

Fallom divenne docile, come accadeva sempre quando interveniva Bliss. Si girò e disse: «Sono un demone? Che cos’è un demone?».

Bliss disse girando la testa: «Aspettatemi. Torno subito».

Rientrò dopo alcuni minuti, scuotendo la testa. «Dormirà finché non la sveglierò io. Avrei dovuto farlo prima, immagino, ma qualsiasi modificazione mentale deve essere giustificata da un’effettiva necessità.» E aggiunse, quasi volesse difendersi: «Non posso permettere che cominci a rimuginare sulle differenze tra il suo corredo genitale e il nostro».

«Un giorno dovrà sapere di essere un ermafrodita» osservò Pelorat.

«Un giorno» annuì Bliss. «Non ora. Continua a raccontare, Pel.»

«Be’, la Terra diventò radioattiva, o almeno la sua crosta. All’epoca, la Terra aveva una popolazione incredibilmente numerosa, concentrata in enormi città situate per lo più sottoterra.»

«Questo è certamente falso» intervenne Trevize. «Deve essere l’effetto del patriottismo locale, che glorifica l’età aurea di un pianeta paragonandolo a Trantor, quando la capitale imperiale governava un sistema di mondi esteso per tutta la galassia.»

Pelorat esitò un istante, quindi disse: «Golan, credimi, non devi insegnarmi il mio mestiere. Noi mitologi sappiamo benissimo che miti e leggende contengono elementi plagiati da altre fonti, lezioni morali, cicli naturali e cento altre distorsioni, e ci sforziamo di eliminarle per arrivare al fondo di verità che può esserci. La stessa tecnica va usata anche con le storie più credibili, perché nessuno scrive la verità pura e semplice... sempre ammesso che esista. Mi limito a riferirti più o meno quello che mi ha detto Monolee, anche se è probabile che anch’io aggiunga delle distorsioni, per quanto cerchi di essere obiettivo».

«D’accordo. Continua, Janov» disse Trevize. «Non intendevo offenderti.»

«E io non mi sono offeso. Le immense città, sempre che esistessero, crollarono con il progressivo aumento della radioattività e la popolazione diminuì drammaticamente, trasferendosi nelle regioni relativamente prive di radiazioni. Per bloccare un nuovo aumento demografico si ricorse a un severo controllo delle nascite e all’eutanasia per le persone oltre i sessant’anni.»

«Orribile» commentò Bliss indignata.

«Indubbiamente» convenne Pelorat. «Ma è quel che facevano, stando a Monolee. Può darsi che sia vero, trattandosi di una cosa che non fa onore ai terrestri ed essendo poco probabili l’invenzione e l’aggiunta di particolari tanto poco lusinghieri. Dopo il disprezzo e l’oppressione da parte degli spaziali, ora i terrestri erano disprezzati e oppressi dall’impero. Questa potrebbe essere un’esagerazione dovuta ad autocommiserazione, un sentimento molto amato. Per esempio, c’è quel caso...»

«Sì, sì, Pelorat, un’altra volta. Continua con la Terra.»

«Chiedo scusa. L’impero, in uno slancio di generosità, accettò di portare via il terreno contaminato e di sostituirlo importando del terreno non radioattivo. Va da sé che si rivelò un’impresa colossale di cui l’impero si stancò ben presto, soprattutto perché il periodo dovrebbe coincidere con la caduta di Kandar V. In seguito, l’impero ebbe cose assai più gravi di cui preoccuparsi.

«La radioattività continuò ad aumentare, la popolazione a diminuire e infine l’impero, in un nuovo slancio di generosità, si offrì di trasferire quel che restava della popolazione su un mondo nuovo e tutto per i superstiti. Qui, in definitiva.

«Pare che una spedizione precedente, molti anni prima, avesse fornito l’oceano di forme di vita, in modo che quando si misero a punto i piani per il trasferimento dei terrestri, su Alpha c’erano già un’atmosfera d’ossigeno e ampie risorse alimentari. All’impero galattico Alpha non interessava troppo, perché esiste una certa avversione naturale per i pianeti appartenenti a un sistema binario. I mondi abitabili nei sistemi binari sono rarissimi e a mio avviso anche quei pochi vengono rifiutati perché si teme che abbiano qualcosa che non va. È una forma di pensiero ricorrente, c’è un caso notissimo...»

«Del caso notissimo ce ne parlerai dopo, Janov» disse Trevize. «Continua a parlare del trasferimento.»

Pelorat ubbidì accelerando leggermente il ritmo del discorso. «A questo punto, bisognava provvedere alla creazione del territorio vero e proprio. Nella parte meno profonda dell’oceano si cominciò ad accumulare il materiale scavato dagli abissi, fino a formare l’isola di Nuova Terra. Vennero aggiunti massi e banchi corallini e seminate piante da superficie, in modo che il sistema di radici contribuisse alla stabilità del terreno. L’impero si era di nuovo imbarcato in un’impresa colossale. Forse all’inizio i piani prevedevano la formazione di continenti, ma una volta allestita quest’unica isola la fase della generosità imperiale era terminata.

«I terrestri superstiti furono portati qui. Le flotte imperiali trasferirono su Alpha uomini e attrezzature e non tornarono mai più. I terrestri di Nuova Terra si ritrovarono in un isolamento totale.»

«Totale? Monolee ha detto che prima di noi non era mai venuto nessuno?» chiese Trevize.

«Quasi totale. Anche accantonando la ripugnanza di carattere superstizioso verso i sistemi binari, a che scopo venirci? Occasionalmente, a volte, arrivava un’astronave come la nostra, ma una volta partita, chiuso. Nessun altro contatto.»

«Hai chiesto a Monolee la posizione della Terra?» domandò Trevize.

«Certo, ma insiste nel dire che non la conosce.»

«Se sa tante cose di storia terrestre, come fa a non conoscerne la posizione?»

«Per la precisione, Golan, gli ho domandato se la stella a un parsec da Alpha non potesse essere il sole intorno a cui ruota la Terra. Monolee non sapeva cosa fosse un parsec e io gli ho spiegato che è una breve distanza astronomica. Breve o lunga, lui non sapeva dove fosse la Terra, ha detto. E ha detto di non conoscere nessuno che lo sappia e che secondo lui è sbagliato cercare di trovarla, perché bisogna lasciare che continui a muoversi nello spazio in pace, per sempre.»

«Sei d’accordo con lui?» chiese Trevize.

Pelorat scosse il capo mestamente. «Non proprio, ma Monolee ha affermato che, dato il continuo aumento della radioattività, il pianeta dev’essere diventato completamente inabitabile poco dopo il trasferimento su Alpha. Ormai dovrebbe essere talmente radioattivo da non essere più avvicinabile.»

«Sciocchezze» sbottò Trevize deciso. «Un pianeta non può diventare radioattivo e continuare a incrementarne il livello. La radioattività può solo diminuire.»

«Ma Monolee è così sicuro... Sono tante le persone incontrate su altri mondi che concordano sulla radioattività della Terra. Mi sembra inutile proseguire.»

LXXX

Trevize inspirò profondamente e, controllando poi il proprio tono di voce, disse: «Sciocchezze, Janov. Non è vero».

«Be’, amico mio, non devi credere a qualcosa solo perché vuoi crederci.»

«Quello che voglio non c’entra. Su tutti i mondi che visitiamo ci accorgiamo che qualsiasi documento riguardante la Terra è sparito. Perché sarebbero spariti se non ci fosse nulla da nascondere, se quello fosse un pianeta radioattivo, morto e inavvicinabile?»

«Non saprei, Golan.»

«Lo sai, invece. Quando ci stavamo avvicinando a Melpomenia hai detto che la radioattività potrebbe essere l’altra faccia della medaglia. Distruggere i documenti per eliminare le informazioni precise; divulgare la storia delle radiazioni per fornire informazioni imprecise. Due sistemi per scoraggiare qualsiasi tentativo di ricerca della Terra. Non dobbiamo lasciarci ingannare e scoraggiarci.»

«Se non sbaglio,» disse Bliss «tu pensi che la stella più vicina sia il sole della Terra. Che senso ha continuare a discutere dell’ipotetica radioattività? Perché non raggiungiamo la stella e controlliamo se c’è davvero la Terra e com’è?»

«Perché i terrestri» rispose Trevize «devono essere straordinariamente potenti e preferirei andarci disponendo di qualche dato sul pianeta e i suoi abitanti. Dal momento che continuo a non sapere nulla, avvicinarsi alla Terra rappresenta un pericolo. Sto pensando di lasciarvi qui su Alpha e proseguire da solo. Mettere a repentaglio una vita è più che sufficiente.»

«No, Golan» disse Pelorat infervorandosi. «Bliss e Fallom possono restare qui, ma io devo venire con te. Cerco la Terra da prima che tu nascessi e non posso fermarmi quando la meta è così vicina, quali che siano i pericoli davanti a noi.»

«Bliss e Fallom non vi aspetteranno qui» disse Bliss. «Io sono Gaia e Gaia può proteggerci perfino dalla Terra.»

«Lo spero,» osservò Trevize cupo «ma vi ricordo che Gaia non ha potuto impedire l’eliminazione dei vecchi documenti sul ruolo svolto dalla Terra nella sua fondazione.»

«È successo agli albori della storia, quando Gaia non era ancora ben organizzata e non rappresentava un organismo perfetto. Adesso le cose sono diverse.»

«Lo spero, ma non è che tu abbia informazioni che noi non abbiamo? Stamattina ti ho chiesto di parlare con la vecchia che sarebbe venuta a farti compagnia.»

«Ci ho parlato.»

«E cosa hai scoperto?»

«Sulla Terra, nulla. Vuoto assoluto.»

«Ah.»

«Ma gli alphani sono dei biotecnologi molto progrediti.»

«E cioè?»

«Su questa piccola isola hanno fatto crescere e sperimentato moltissime varietà di piante e animali, creando un equilibrio ecologico ideale. Malgrado il numero ridotto di specie di cui disponevano all’inizio, hanno costruito un ambiente stabile e indipendente, migliorando le forme di vita oceaniche che avevano trovato al loro arrivo. Nell’arco di alcuni millenni hanno aumentato il loro potere nutritivo, migliorandone il gusto. Con la biotecnologia di cui dispongono, hanno trasformato questo mondo in un paradiso dell’abbondanza. E hanno dei progetti per se stessi.»

«Ovvero?»

«Sanno benissimo di non poter progredire oltre certi limiti, dal momento che sono confinati sull’unico lembo di terra esistente sul loro mondo, ma sognano di diventare anfibi.»

«Cosa?»

«Diventare anfibi. Vogliono farsi crescere le branchie, oltre ai polmoni. Sognano di poter passare sott’acqua lunghi periodi di tempo, di trovare zone poco profonde e costruire nuove strutture sul fondo dell’oceano. Mentre me ne parlava la vecchia era raggiante, ma ha ammesso che gli alphani lavorano a questo progetto da ormai parecchi secoli e che i progressi sono stati scarsi.»

«Il controllo meteorologico e la biotecnologia» disse Trevize «sono due campi in cui potrebbero essere più avanti di noi. Chissà che tecniche usano...»

«Dovremmo rivolgerci ai loro specialisti» disse Bliss. «E non è detto che quelli siano disposti a discuterne.»

«Il nostro interesse primario è un altro,» disse Trevize «ma non sarebbe tempo sprecato se la Fondazione cercasse di imparare qualcosa da questo mondo in miniatura.»

«Su Terminus riusciamo a controllare le condizioni meteorologiche piuttosto bene» osservò Pelorat.

«Il controllo è discreto su molti mondi» acconsentì Trevize. «Ma si tratta sempre di un fenomeno che interessa tutto il pianeta. Gli alphani, invece, controllano le condizioni meteorologiche di una piccola parte del loro mondo e devono adottare tecniche che a noi mancano. Nient’altro, Bliss?»

«Siamo stati invitati. A quanto pare, quando non si dedica all’agricoltura e alla pesca questa gente ama festeggiare. Dopo cena, stasera, ci sarà lo spettacolo musicale di cui vi ho già parlato. Domani ci sarà una festa sulla spiaggia. Lungo l’intera costa, pare, si riuniranno tutti quelli che non saranno impegnati nei campi e festeggeranno il mare e il sole, dato che nei due giorni successivi pioverà. La mattina dopo, prima che cominci a piovere, tornerà la flotta da pesca e verso sera ci sarà una festa alimentare con assaggi del pesce pescato.»

Pelorat gemette. «I pasti sono già più che abbondanti, chissà come sarà una festa alimentare.»

«Sarà imperniata sulla varietà, non sulla quantità se ho ben capito. Comunque, noi quattro siamo invitati a partecipare a ogni festa, soprattutto allo spettacolo musicale di stasera.»

«Lo spettacolo con gli strumenti antichi?» chiese Trevize.

«Esattamente.»

«Tra parentesi, antichi in che senso? Sono computer primitivi?»

«No, no. È questo il punto. Non si tratta di musica elettronica ma meccanica. Mi hanno descritto com’è: sfregano delle cose, soffiano dentro certi tubi e percuotono delle superfici.»

«È tutto per scherzo, mi auguro?» disse Trevize allibito.

«Niente affatto, la tua Hiroko suonerà uno dei tubi di cui ora non ricordo il nome. Se non altro, dovresti riuscire a sopportare il concerto.»

«L’idea mi affascina» disse Pelorat. «Non so quasi nulla della musica primitiva e mi piacerebbe sentirla.»

«Non è la “mia Hiroko”» replicò gelido Trevize. «Ma secondo te useranno strumenti di origine terrestre?»

«Credo proprio di sì» rispose Bliss. «Almeno, le donne alphane dicono che sono strumenti che esistevano già molto tempo prima che i loro antenati venissero qui.»

«In tal caso, può darsi che valga la pena di sentire tutti quegli sfregamenti, quei soffi e quei colpi» riconobbe Trevize. «Forse ci forniranno qualche indizio utile riguardo alla Terra.»

LXXXI

Stranamente, la più eccitata alla prospettiva della serata musicale era Fallom. Si era lavata insieme a Bliss nella latrina esterna dietro l’alloggio, che comprendeva un bagno con acqua corrente calda e fredda (o meglio, tiepida e fresca), un lavabo e un water. La latrina era pulitissima e nel sole del tardo pomeriggio perfino bene illuminata e accogliente.

Come sempre, Fallom era affascinata dal seno di Bliss e Bliss (ora che Fallom capiva il galattico) non poté fare a meno di spiegarle che sul suo mondo la gente era fatta così. Al che, inevitabilmente, Fallom chiese: «Perché?» e Bliss, dopo aver riflettuto un po’, dovette ricorrere alla risposta universale dicendo: «Perché sì!».

Terminato il bagno, Bliss aiutò Fallom a indossare l’indumento intimo e la gonna fornite dagli alphani, ma le sembrò abbastanza ragionevole lasciarla nuda dalla vita in su. Bliss invece, pur indossando gli indumenti alphani nella parte inferiore del corpo (capi un po’ stretti sui fianchi), mise la propria camicetta. Era puerile fare troppo l’inibita e non voler mostrare i seni in una società dove tutte le donne lo facevano, soprattutto se si considerava che il suo seno non era né grosso né cadente, ma ben fatto come quelli che si vedevano su Alpha; eppure, non se la sentiva proprio.

Poi toccò ai due uomini ritirarsi nella latrina. In modo tipicamente maschile Trevize si lagnò del tempo eccessivo trascorso dalle donne in bagno.

Bliss fece girare Fallom per accertarsi che la gonna cadesse a pennello sulla figuretta acerba di lei. «È una gonna molto graziosa, Fallom. Ti piace?»

La ragazzina si guardò in uno specchio e rispose: «Sì, mi piace. Ma non avrò freddo con niente addosso?». E si passò le mani sul petto nudo.

«Non credo, Fallom. È un mondo abbastanza caldo, questo.»

«Ma tu porti qualcosa!»

«Certo, si usa così sul mio mondo. Ascolta, Fallom, durante la cena e dopo staremo con molti alphani. Credi di riuscire a resistere?»

Fallom sembrò turbata e Bliss continuò: «Io sarò seduta alla tua destra e ti stringerò. Pel siederà a sinistra e Trevize di fronte a te. Non permetteremo a nessuno di parlarti e tu non dovrai parlare a nessuno».

«Proverò, Bliss.»

«E poi, alcuni alphani suoneranno per noi della musica, in modo speciale. Sai cos’è la musica?» Bliss cominciò a canticchiare imitando come meglio poteva un brano di musica elettronica.

Il viso di Fallom si illuminò. «Vuoi dire...» L’ultima parola era in solariano. Fallom cominciò a cantare.

Bliss spalancò gli occhi. Era una melodia splendida, anche se un po’ irruenta e ricca di trilli. «Esatto. Musica.»

Fallom raccontò eccitata: «Jemby suonava musica di continuo. Suonava musica su un...». Di nuovo una parola nella sua lingua.

Bliss ripeté la parola, dubbiosa. «Su un fliuto?»

Fallom rise. «Non fliuto. Si dice...»

Sentendole confrontare direttamente, Bliss capì la differenza tra le due parole, ma capì anche che non sarebbe riuscita a pronunciare la seconda. «Com’è fatto?»

Il vocabolario di galattico ancora limitato di Fallom non era sufficiente per una descrizione accurata e i suoi gesti non evocarono alcuna forma chiara nella mente di Bliss.

«Jemby mi ha insegnato a usarlo» disse Fallom orgogliosa. «Sai, usavo le dita come faceva Jemby, ma lui ha detto che presto l’avrei suonato senza.»

«È meraviglioso, cara» disse Bliss. «Dopo cena, vedremo se gli alphani sono bravi come lo era il tuo Jemby.»

Gli occhi di Fallom luccicavano e pregustando l’avvenimento musicale riuscì a superare l’abbondante banchetto malgrado la folla, il baccano e i cori di risate che echeggiavano intorno a lei. Solo una volta, quando venne rovesciato accidentalmente un piatto e si levarono grida divertite, la ragazzina parve spaventata e Bliss l’attirò subito a sé in un abbraccio protettivo.

«Dovremmo chiedere se è possibile mangiare da soli, d’ora in poi» mormorò Bliss a Pelorat. «Altrimenti dovremo andarcene da questo pianeta. E già abbastanza duro mangiare tante proteine animali isolate, vorrei almeno poterlo fare in pace.»

«È solo un eccesso di buon umore» disse Pelorat, che avrebbe sopportato qualunque cosa, a patto che fosse classificabile come comportamento e cultura primitiva.

Poi la cena terminò e annunciarono l’inizio imminente dello spettacolo musicale.

LXXXII

La sala in cui si sarebbe svolto era grande quasi quanto la sala da pranzo e c’erano sedili pieghevoli (piuttosto scomodi, constatò Trevize) per circa centocinquanta persone.

In qualità di ospiti, i visitatori vennero guidati in prima fila e molti alphani fecero commenti educati e lusinghieri sul loro abbigliamento.

I due uomini erano a torso nudo e Trevize tendeva i muscoli addominali ogni volta che si ricordava di farlo e di tanto in tanto ammirava compiaciuto il proprio torace villoso. Pelorat, intento a osservare tutto quel che aveva intorno, se ne infischiava del proprio aspetto. La camicetta di Bliss attirò occhiate furtive di perplessità, ma non suscitò alcun commento.

Trevize notò che la sala era piena solo a metà e che il pubblico era formato per lo più da donne, probabilmente perché gran parte degli uomini erano in mare.

Pelorat richiamò la sua attenzione con un colpetto di gomito. «Hanno l’elettricità.»

Trevize guardò i tubi verticali sulle pareti e quelli sul soffitto. Erano debolmente luminosi.

«Fluorescenza» commentò. «Un sistema primitivo.»

«Già, ma funziona. E nelle nostre stanze e nella latrina ci sono questi oggetti. Credevo che fossero solo decorativi. Se scopriremo come farli funzionare, non dovremo più stare al buio.»

«Avrebbero potuto dircelo» commentò Bliss seccata.

«Pensavano che lo sapessimo, che fosse una cosa risaputa» disse Pelorat.

Quattro donne uscirono da dietro un divisorio e si sedettero in gruppo nello spazio all’estremità della sala. Ognuna aveva uno strumento di legno lucido dalla forma identica e piuttosto strana. Le dimensioni cambiavano notevolmente: uno era piccolo, due leggermente più grossi, il quarto molto più grande. Inoltre, ogni donna reggeva una lunga bacchetta nell’altra mano.

Il pubblico fischiò sommessamente al loro ingresso e le quattro donne si inchinarono. Ognuna aveva un nastro legato sui seni in modo abbastanza stretto, quasi a impedire che intralciassero l’esecuzione.

Trevize interpretò i fischi come un segno di approvazione e garbatamente aggiunse il proprio. Al che Fallom si produsse in un trillo ben più lacerante di un fischio e Bliss dovette zittirla posandole la mano sulla spalla prima che attirasse troppo l’attenzione.

Tre donne infilarono lo strumento sotto il mento, mentre lo strumento più grande restò sul pavimento tra le gambe della quarta donna. La lunga bacchetta nella destra del musicista veniva fatta scorrere sulle corde tese che attraversavano lo strumento per quasi tutta la lunghezza, mentre le dita della sinistra si muovevano rapide e schiacciavano le corde su e giù.

Quello era lo “sfregamento” che si era aspettato, rifletté Trevize, ma non produceva affatto un rumore molesto. Si susseguivano una serie di note dolci e melodiosi; ogni strumento forniva il proprio apporto e il tutto si fondeva in un piacevole amalgama.

Non possedeva l’infinita complessità della musica elettronica (la “vera musica” a giudizio di Trevize) ed era qualcosa di abbastanza ripetitivo. Eppure, via via che l’orecchio si abituava allo strano sistema sonoro Trevize cominciò a cogliere certe sfumature. Era necessario uno sforzo, e Trevize pensò con rimpianto alla precisione matematica e alla purezza timbrica della “vera musica”. Alla fine riconobbe che, se avesse ascoltato spesso la musica di quei semplici oggetti di legno, probabilmente alla fine gli sarebbe piaciuta.

A tre quarti d’ora dall’inizio del concerto entrò in scena anche Hiroko. Notò subito Trevize in prima fila e sorrise. Trevize si unì di buon grado al saluto del pubblico. Hiroko era splendida: portava una lunga gonna elaborata, un fiore tra i capelli ed era a seno scoperto perché questo non avrebbe ostacolato l’uso dello strumento.

Suonava un tubo di legno scuro lungo oltre mezzo metro e spesso un paio di centimetri. Hiroko accostò lo strumento alle labbra e soffiò in un’apertura vicino a un’estremità, ricavandone una nota esile, dolce, che cambiò ripetutamente via via che le sue dita toccavano gli oggetti metallici posti lungo il tubo.

Alla prima nota, Fallom strinse il braccio di Bliss e disse: «Bliss, quello è un...» e a lei sembrò che la parola fosse “fliuto”.

Bliss scosse il capo e Fallom sottovoce insistette: «È proprio lui!».

Nel pubblico, alcune teste si girarono. Bliss coprì la bocca di Fallom con la mano e si chinò a mormorare con una certa severità: «Taci!».

Dopo di che Fallom ascoltò Hiroko in silenzio ma muovendo spasmodicamente le dita, come se toccasse lei stessa gli oggetti sullo strumento.

L’ultimo a esibirsi nel concerto fu un uomo anziano che aveva appeso alle spalle uno strumento scanalato ai lati. Lo spingeva e tirava, mentre una mano guizzava velocissima su una serie di oggetti bianchi e neri premendoli a gruppi.

Trevize trovò quel suono fastidioso e barbaro, spiacevolmente simile al latrato dei cani di Aurora. Non che il suono in sé fosse un latrato, ma le emozioni che suscitava erano le stesse. Bliss fu sul punto di coprirsi le orecchie e Pelorat aveva un’espressione corrucciata. Solo Fallom sembrava divertirsi perché batteva piano un piede; quando se ne accorse, Trevize si rese conto stupito che il ritmo della musica era in perfetto sincronismo col piede della solariana.

Finalmente il concerto terminò e in sala scoppiò un uragano di fischi, sovrastati nettamente dai gorgheggi di Fallom.

Il pubblico si divise in tanti gruppetti e la gente cominciò a chiacchierare, o meglio a schiamazzare come facevano sempre gli alphani quando si riunivano pubblicamente. I concertisti erano in fondo alla sala e parlavano con le persone che si avvicinavano per congratularsi dell’esibizione.

Fallom sfuggì alla stretta di Bliss e corse da Hiroko.

«Hiroko» strillò ansante. «Lasciami vedere il...»

«Cosa, cara?» chiese l’alfana.

«Quello con cui hai suonato.»

«Ah.» Hiroko rise. «Vuoi dire il flauto, piccolina.»

«Posso vederlo?»

Hiroko aprì un astuccio ed estrasse lo strumento. Era separato in tre parti, ma lei lo montò svelta, lo tese a Fallom accostandole un’estremità alle labbra e le disse: «Ecco, soffia qui».

«Lo so, lo so» disse Fallom e fece per prendere il flauto.

Hiroko si ritrasse di scatto. «Soffia, bambina ma non toccare.»

Fallom sembrò delusa. «Posso guardare, almeno? Non lo toccherò.»

«Certamente, cara.»

Hiroko tornò a mostrare il flauto e Fallom lo fissò.

Poi l’illuminazione fluorescente della sala si affievolì e risuonò una nota di flauto, un po’ incerta e tremula.

Hiroko, sorpresa, per poco non lasciò cadere lo strumento e Fallom strillò: «L’ho fatto. L’ho fatto. Jemby aveva detto che un giorno sarei riuscita a farlo».

Hiroko chiese: «Sei stata tu a suonare?».

«Sì, io, io!»

«Ma come hai fatto, bambina?»

Rossa per l’imbarazzo, Bliss rispose: «Mi spiace, Hiroko. Ora la porto via».

«No, voglio che lo faccia ancora» ribatté Hiroko.

Alcuni alphani si erano raccolti a osservare. Fallom corrugò la fronte, come se facesse uno sforzo. Le luci si affievolirono e si udì un’altra nota di flauto, stavolta limpida e ferma. Poi i suoni si rincorsero in modo bizzarro, mentre gli oggetti metallici lungo il flauto si muovevano da soli.

«È un po’ diverso dal...» disse Fallom ansimando, come se il fiato che aveva prodotto il suono fosse stato il suo e non un movimento guidato dell’aria.

Pelorat disse a Trevize: «Probabilmente prende l’energia dalla corrente elettrica che alimenta le luci a fluorescenza».

«Prova ancora» la esortò Hiroko con voce strozzata.

Fallom chiuse gli occhi. Le note adesso erano più lievi, più sicure. Il flauto suonava da solo, senza dita che lo manovrassero, animato dall’energia trasdotta dai lobi ancora immaturi di Fallom. Le note, dopo un inizio quasi a caso, si disposero in una sequenza armoniosa. Tutti si erano raccolti intorno a Hiroko e a Fallom. La prima reggeva delicatamente le estremità dello strumento col pollice e l’indice, mentre la bambina a occhi chiusi dirigeva la corrente d’aria e il movimento dei tasti.

«È il brano che ho suonato!» mormorò Hiroko.

«Lo ricordo» annuì Fallom cercando di non perdere la concentrazione.

«Non hai sbagliato una sola nota» disse Hiroko al termine del pezzo.

«Ma non è giusto, Hiroko. Non l’hai suonato giusto.»

Bliss intervenne: «Fallom, non è cortese! Non devi...».

«Ti prego» disse Hiroko perentoria. «Non interloquire. Perché non è giusto, bambina?»

«Perché io lo suonerei diversamente.»

«Mostrami, dunque.»

Il flauto riprese a suonare in modo più complesso, perché le forze che premevano i tasti agivano più rapidamente e creavano combinazioni più elaborate di prima. La musica era infinitamente più viva, coinvolgente, vibrante. Hiroko sembrava pietrificata e nella sala regnava un silenzio assoluto.

Il silenzio continuò anche dopo che Fallom ebbe terminato il brano, finché Hiroko respirando a fondo disse: «Piccola, non avevi mai suonato uno strumento come questo?».

«No» rispose Fallom. «Prima riuscivo a usare solo le dita e con quelle è impossibile. Nessuno potrebbe farlo» aggiunse senza avere l’aria di vantarsi.

«Puoi suonare qualcos’altro?»

«Posso inventare, sì.»

«Vuoi dire improvvisare?»

A quella parola Fallom corrugò la fronte e guardò Bliss. Lei annuì e la solariana rispose: «Sì».

«Ti prego, fallo» la incitò Hiroko.

Fallom rifletté per un paio di minuti, poi cominciò lentamente, con una successione di note molto semplice e sognante. Le luci fluorescenti andavano e venivano a seconda dell’energia necessaria, ma pareva che nessuno se ne accorgesse perché sembrava un effetto della musica e non viceversa; come se uno spirito elettrico obbedisse ai dettami delle onde sonore.

La combinazione di note si ripeté con un lieve aumento di volume, poi un po’ più complessa e in variazioni che senza perdere di vista il motivo di base diventavano sempre più trascinanti, mozzafiato. Infine, dopo la progressiva ascesa, le note scesero vorticosamente, come in una picchiata che riportò gli ascoltatori a terra, pur lasciando in tutti un senso di euforia e leggerezza.

Seguì un vero pandemonio di acclamazioni e perfino Trevize, abituato a un tipo di musica completamente diverso, pensò con rammarico: “Ecco, non sentirò mai più una cosa del genere”.

Quando tornò la calma, Hiroko porse il flauto a Fallom. «Prendilo, è tuo.»

Lei si protese in avanti smaniosa, ma Bliss la fermò. «Non possiamo accettare, Hiroko. È uno strumento prezioso.»

«Ne ho un altro, Bliss. Non buono come questo, ma è giusto così; uno strumento appartiene a chi meglio lo suona. Non ho mai sentito musica come la sua, sarebbe assurdo che avessi un flauto che non so usare come si deve. Ah, se sapessi suonarlo senza toccarlo!»

Fallom prese il flauto e, con un’espressione di gioia intensa, lo strinse al petto.

LXXXIII

Le due stanze dell’alloggio erano illuminate da una lampada fluorescente ciascuna, come la latrina. Erano fioche e volendo leggere non sarebbero state sufficienti, ma per lo meno gli ospiti non erano al buio.

Adesso, comunque, indugiavano all’aperto. Il cielo era pieno di stelle, un fenomeno che era sempre affascinante per un nativo di Terminus, dove il cielo notturno era quasi privo di stelle a parte lo scorcio sfocato della nube galattica.

Hiroko li aveva accompagnati, temendo che si smarrissero o inciampassero. Durante il tragitto aveva tenuto per mano Fallom e dopo aver acceso le luci dell’alloggio rimase fuori con loro, continuando a stringere la ragazzina.

Bliss fece un altro tentativo, perché aveva percepito benissimo che Hiroko era in preda a sentimenti contrastanti. «Davvero, Hiroko, non possiamo prendere il tuo flauto.»

«No, a Fallom deve restare.» Ma malgrado tutto Hiroko era ancora molto scossa.

Trevize contemplava il cielo. La notte era particolarmente buia, un’oscurità appena scalfita dalla luce che filtrava dalle loro stanze e dalle scintille quasi invisibili delle case in lontananza.

«Hiroko, vedi quella stella luminosa? Come si chiama?» chiese Trevize.

Hiroko sollevò lo sguardo e, senza mostrare alcun interesse, rispose: «Quella stella è il Compagno».

«Perché viene chiamata così?»

«Attornia il nostro sole ogni ottanta anni standard. In questa parte dell’anno è una stella della sera. È visibile anche di giorno, quando è sopra l’orizzonte.»

“Bene,” pensò Trevize, “non è del tutto ignorante in astronomia.” «Sai che Alpha ha un altro compagno, molto più piccolo, molto più lontano di quella stella brillante? Non si può vederlo senza un telescopio.» (Nemmeno lui l’aveva visto, non si era preso la briga di cercarlo, ma il computer di bordo conteneva quell’informazione nella memoria.)

Hiroko rispose indifferente: «Ci è stato insegnato a scuola».

«E cosa mi dici di quella? Vedi sei stelle che formano una linea a zigzag?»

«È Cassiopea.»

«Davvero?» sussultò Trevize. «Quale?»

«Tutte, l’intera linea a zigzag. Cassiopea.»

«Perché la chiamate così?»

«Non so. Non so nulla di astronomia, stimato Trevize.»

«Vedi la stella più bassa della linea a zigzag, quella più brillante delle altre? Come si chiama?»

«Una stella, non conosco il nome.»

«Ma se si escludono le due compagne, è quella la più vicina ad Alpha. È a un solo parsec di distanza.»

«Tu lo dici?» disse Hiroko. «Io questo non so.»

«Non potrebbe essere la stella intorno alla quale ruota la Terra?»

Hiroko la osservò con un guizzo di interesse. «Non so. Da nessuno ho mai sentito dire questo.»

«Non credi che potrebbe esserlo?»

«Come posso rispondere? Nessuno sa dove sia la Terra. Ora devo lasciarvi, riprenderò il mio lavoro nei campi domani mattina prima della festa sulla spiaggia. Vi rivedrò là, dopo il pranzo. Bene?»

«Certo, Hiroko.»

Lei si allontanò improvvisamente, mettendosi quasi a correre nell’oscurità. Trevize la seguì con lo sguardo, quindi raggiunse gli altri nell’alloggio.

«Secondo te mentiva a proposito della Terra, Bliss?» chiese Trevize.

La ragazza scosse il capo. «Non credo. È in preda a un’enorme tensione, qualcosa che ho notato solo dopo il concerto, ma prima che tu facessi quelle domande sulle stelle.»

«È perché si è privata del flauto?»

«Forse, non posso dirlo di preciso.» Bliss si rivolse quindi a Fallom. «Ora andrai nella tua stanza. Quando sarai pronta per coricarti, andrai alla latrina, userai il vasino e poi ti laverai le mani, la faccia e i denti.»

«Vorrei suonare, Bliss.»

«Solo un po’ e piano, capito Fallom? E quando te lo dirò, dovrai smettere.»

«Sì.»

Adesso erano finalmente soli; Bliss sull’unica sedia e gli uomini seduti sulle rispettive brande.

«A questo punto, mi pare inutile fermarsi ancora su questo pianeta» disse Bliss.

Trevize alzò le spalle. «Non abbiamo ancora discusso l’origine terrestre degli antichi strumenti e potremmo scoprire qualche indizio interessante. Inoltre, ci conviene attendere il ritorno della flotta di pescherecci. Forse gli uomini sanno qualcosa che chi rimane a casa non sa.»

«Poco probabile, secondo me» disse Bliss. «Sicuro che non siano gli occhi scuri di Hiroko a trattenerti?»

Trevize sbottò spazientito: «Non capisco, che c’entri tu con le mie relazioni? Chi ti dà il diritto di giudicarmi dal punto di vista morale?».

«La tua moralità non mi preoccupa, penso alla nostra spedizione. Vuoi trovare la Terra per poter decidere finalmente se sia giusta la tua scelta di Galaxia a scapito dei Mondi isolati. Io voglio che tu raggiunga una conclusione. Dici che per prenderla dovrai visitare la Terra, sei convinto che ruoti intorno alla stella luminosa lassù in cielo: andiamoci, allora! D’accordo, sarebbe utile disporre di qualche informazione in più, ma mi sembra evidente che qui non ne otterremo. Non voglio rimanere solo perché ti piace Hiroko.»

«Forse partiremo» disse Trevize. «Lasciami riflettere e ti assicuro che lei non influenzerà la mia decisione.»

Intervenne Pelorat: «Secondo me dovremmo dirigerci sulla Terra, se non altro per scoprire se è radioattiva o no. Mi pare superfluo aspettare».

«Sicuro che non siano gli occhi scuri di Bliss a stimolarti?» chiese Trevize con una punta d’astio. E un istante dopo: «No, ritiro quel che ho detto, Janov. Una reazione infantile. Eppure questo è un mondo incantevole, Hiroko a parte, ammetto che in altre circostanze sarei tentato di restare qui per sempre. Bliss, non credi che Alpha demolisca la tua teoria sugli isolati?».

«In che senso?» chiese Bliss.

«Hai sostenuto che ogni mondo veramente isolato diventi pericoloso e ostile.»

«Perfino Comporellen» confermò impassibile Bliss «che è abbastanza al di fuori della rete principale di attività galattica, e nonostante sia, nominalmente, una Potenza alleata della Federazione della Fondazione.»

«Ma non Gaia. Questo mondo è completamente isolato, eppure non possiamo certo lamentarci della loro amicizia e ospitalità! Ci nutrono, ci vestono, ci offrono un tetto, organizzano spettacoli in nostro onore e ci invitano a prolungare il nostro soggiorno. Che difetto hanno?»

«Nessuno, a quanto pare. Hiroko ti offre addirittura il suo corpo.»

Trevize scattò rabbioso: «Bliss, perché questo fatto ti disturba tanto? Hiroko non mi ha offerto il suo corpo. È stato uno scambio reciproco, del tutto appagante. E mi sembra che tu stessa non esiti a offrire il tuo corpo quando vuoi».

«Per favore, Bliss» intervenne Pelorat. «Golan ha ragione. Non c’è motivo di criticare i suoi piaceri privati.»

«A patto che non abbiano ripercussioni su di noi» replicò Bliss ostinata.

«Non hanno alcuna ripercussione» disse Trevize. «Partiremo, te lo assicuro. La sosta per cercare qualche informazione non sarà lunga.»

«Comunque, io non mi fido degli isolati nemmeno quando offrono doni.»

Trevize alzò le braccia al cielo. «Raggiungere una conclusione e alterare le prove perché si adattino a questa conclusione è tipico di...»

«Non dirlo» l’interruppe Bliss minacciosa. «Non sono una donna. Sono Gaia. Non sono io a essere inquieta, è Gaia!»

«Ma è assurdo essere...» In quel mentre si udì un raspare alla porta.

Trevize raggelò. «Cos’è?» chiese sottovoce.

Bliss fece spallucce. «Apri e guarda. Sei tu a dire che è un mondo amico e senza pericoli, no?»

Ma Trevize esitò, finché una voce sommessa all’esterno chiamò: «Per favore, sono io».

Era la voce di Hiroko. Trevize spalancò la tenda.

La ragazza si affrettò a entrare. Aveva le gote bagnate.

«Chiudi» ansimò.

«Che c’è?» domandò Bliss.

Hiroko si aggrappò a Trevize. «Non ho potuto stare lontana. Ho provato, ma era insopportabile. Andate, tutti voi. Portate la bambina con voi, presto. Allontanate l’astronave da Alpha finché è ancora buio.»

«Ma perché?» chiese Trevize.

«Perché altrimenti morirete tutti.»

LXXXIV

Per alcuni istanti i tre la fissarono pietrificati, poi Trevize domandò: «Vorresti dire che la tua gente ci ucciderà?».

Mentre le lacrime scorrevano lungo le guance, Hiroko rispose: «Tu già sei avviato sulla strada che conduce alla morte, stimato Trevize. E con te gli altri. Tempo addietro, i dotti crearono un virus per noi innocuo ma letale per gli esterni. Noi siamo immuni». Gli scuoté il braccio disperata. «Sei infetto!»

«Com’è successo?»

«Quando abbiamo soddisfatto il piacere. È un modo di spargere il contagio.»

Trevize protestò: «Ma io sto benissimo».

«Il virus è ancora inattivo. Verrà reso attivo al ritorno della flotta da pesca. Secondo le nostre leggi tutti devono decidere, perfino gli uomini. Decideranno senz’altro che bisogna farlo e vi tratterremo qui fino a quel momento, due mattine da ora. Partite senza indugio, mentre è ancora buio e nessuno sospetta!»

«Perché lo fate?» chiese Bliss brusca.

«Per la nostra salvezza. Pochi siamo e abbiamo molto. Non vogliamo l’intrusione di esterni. Se uno arriva e diffonde la notizia, altri ne verranno. Così, quando di tanto in tanto un’astronave atterra, dobbiamo fare in modo che non riparta.»

«Allora come mai ci metti in guardia?» domandò Trevize.

«Non chiedere la ragione. Anzi la dirò, poiché lo sento ancora. Ascoltate.»

Dalla stanza attigua giungevano le note sommesse e dolcissime del flauto suonato da Fallom.

«Non sopporto la distruzione di quella musica, perché anche la bambina morirebbe» disse Hiroko.

«È per questo che hai dato il flauto a Fallom? Perché sapevi che lo avresti riavuto quando lei fosse morta?» domandò Trevize arcigno.

Hiroko inorridì. «No, questo non avevo in mente. Partite con la bambina e portate il flauto e che io più non lo veda. Nello spazio sarete salvi e il virus che hai in corpo, lasciato inattivo, morirà dopo poco. In cambio vi chiedo di non parlare di questo mondo, così che nessuno mai sappia che esiste.»

«Non ne parleremo» la assicurò Trevize.

Hiroko sollevò lo sguardo. Sottovoce chiese: «Posso baciarti un’ultima volta prima che tu vada?».

«No, sono già stato contagiato una volta e mi pare più che sufficiente» rispose Trevize. Poi, in tono meno rude, aggiunse: «Non piangere, altrimenti ti chiederanno perché e tu non saprai cosa rispondere. Ti perdono, malgrado quello che mi hai fatto, per il gesto che compi nel salvarci».

Hiroko si drizzò, si asciugò il viso, respirò a fondo e disse: «Ti ringrazio». E uscì in fretta.

«Spegneremo la luce, aspetteremo un po’, poi ce ne andremo» disse Trevize. «Bliss, di’ a Fallom di smettere di suonare. Ricordati di portare il flauto, naturalmente. Usciremo e raggiungeremo l’astronave, sempre che riusciamo a trovarla al buio.»

«La troverò» disse Bliss. «A bordo ci sono i miei indumenti e, anche se con intensità minore, fanno parte di Gaia come me. Per Gaia è facilissimo trovare Gaia.» Poi andò nell’altra stanza a prendere Fallom.

«Credi che siano riusciti a danneggiare l’astronave per bloccarci sul pianeta?» chiese Pelorat.

«Non possiedono la tecnologia necessaria» rispose Trevize accigliato. Quando Bliss rientrò tenendo per mano la piccola solariana, Trevize spense la luce.

Rimasero seduti in silenzio nell’oscurità per un periodo di tempo in apparenza interminabile. Poi Trevize aprì la porta lentamente. Il cielo sembrava un po’ più nuvoloso, ma c’erano ancora le stelle. Adesso Cassiopea era alta nel cielo e all’estremità inferiore brillava la stella che avrebbe potuto essere il sole della Terra.

Trevize uscì, guardingo, facendo segno agli altri di seguirlo e abbassando automaticamente la mano sul calcio della frusta neuronica. Era sicuro che non avrebbe dovuto usarla, ma...

Bliss passò alla testa del gruppo tenendo per mano Pelorat, che a sua volta teneva per mano Trevize. L’altra mano della donna era intrecciata a quella di Fallom, che aveva con sé il flauto. Tastando adagio il terreno nell’oscurità pressoché assoluta, Bliss condusse gli altri verso il punto da cui giungevano debolissime le vibrazioni gaiane dei suoi abiti sulla Stella lontana.

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