17
Nuova Terra
LXXIV
«Quattro pianeti» mormorò Trevize. «Tutti piccoli, più una scia di asteroidi. Nessun gigante gassoso.»
«Qualcosa che non quadra?» si informò Pelorat.
«Non proprio, era prevedibile. Le binarie in orbita reciproca a breve distanza non possono avere pianeti in orbita intorno a sé. Al massimo, i pianeti ruoteranno intorno al centro di gravità delle due stelle, ma data la distanza non dovrebbero essere abitabili.
«D’altro canto, se le binarie sono sufficientemente lontane, possono esserci pianeti in orbita intorno a ciascuna stella. Sempre che siano abbastanza vicini all’una o all’altra. Stando ai dati del computer, queste due stelle hanno una distanza media di 3,5 miliardi di chilometri e al periastro, il punto in cui sono più vicine, distano 1,7 miliardi di chilometri. Un pianeta in orbita a meno di duecento milioni di chilometri da una delle due stelle si troverebbe in posizione stabile, ma non può esserci alcun pianeta con un’orbita superiore. Quindi niente giganti gassosi, dal momento che un gigante dovrebbe essere situato a una distanza molto maggiore. Che importa? Tanto i giganti gassosi non sono abitabili.»
«Può darsi che uno di quei pianeti lo sia.»
«Solo il secondo. Se non altro, perché è abbastanza grande da avere un’atmosfera.»
Si avvicinarono al secondo pianeta rapidamente. Nell’arco di due giorni la sua immagine si dilatò, prima ingrandendosi in modo misurato e maestoso e poi, visto che nessuna astronave arrivava a intercettarli, a una velocità sempre crescente, quasi spaventosa.
La Stella lontana seguiva un’orbita provvisoria a un migliaio di chilometri dallo strato di nubi, quando Trevize commentò arcigno: «Adesso capisco la presenza del punto interrogativo nella memoria del computer. Non c’è traccia di radiazioni: nessuna luce nell’emisfero notturno, niente onde radio».
«Lo strato di nubi sembra piuttosto spesso» fece notare Pelorat.
«Ma le onde radio dovrebbero attraversarlo.»
Osservarono il pianeta che ruotava sotto di loro, un vortice maestoso di nuvole bianche che attraverso qualche squarcio lasciava intravedere lo sciabordio bluastro di un oceano.
«La massa nuvolosa è piuttosto elevata per un mondo abitato» disse Trevize. «Dovrebbe essere un mondo abbastanza tetro. Quello che mi preoccupa maggiormente» aggiunse, mentre si tuffavano ancora una volta nell’ombra notturna «è che non abbiamo ricevuto segnalazioni da eventuali stazioni spaziali.»
«Com’è successo su Comporellen?» chiese Pelorat.
«Come sarebbe successo su qualsiasi mondo abitato. Avrebbero dovuto fermarci per il solito controllo dei documenti, del carico e via dicendo.»
Bliss intervenne: «Forse, per qualche motivo non abbiamo sentito il messaggio».
«Il computer avrebbe captato qualsiasi trasmissione su qualsiasi frequenza. E poi, noi stessi abbiamo inviato segnali, ma non c’è stata la minima reazione. Scendere sotto lo strato di nubi senza mettersi in contatto con le autorità spaziali di un mondo non è un gesto molto cortese, ma non vedo che altro possiamo fare.»
La Stella lontana rallentò e si mantenne in quota incrementando la spinta antigravitazionale. Sbucò di nuovo sul lato diurno e rallentò ulteriormente. Trevize, collegato al computer, trovò uno squarcio adeguato nello strato di nubi. L’astronave si abbassò penetrandovi. Sotto di loro, mosso da una lieve brezza, si agitava l’oceano, parecchi chilometri più in basso e striato di schiuma candida.
Abbandonarono l’area illuminata dal sole, portandosi sotto una volta nuvolosa. La distesa d’acqua sottostante diventò subito grigia e la temperatura scese sensibilmente.
Fallom, fissando lo schermo, parlò per alcuni istanti nella sua lingua ricca di consonanti, poi passò al galattico. «Cos’è quello che vediamo sotto?»
«È un oceano» rispose Bliss con voce carezzevole. «È una grande massa d’acqua.»
«Perché non asciuga?»
Bliss guardò Trevize, che rispose: «C’è troppa acqua perché possa asciugarsi».
Fallom gemette: «Non voglio tutta quell’acqua. Andiamo via». E cominciò a piagnucolare, mentre la Stella lontana attraversava un ammasso di nuvole temporalesche e lo schermo diventava una macchia lattiginosa striata di gocce di pioggia.
Le luci della sala comando si abbassarono e l’astronave prese a sobbalzare leggermente.
Trevize sollevò lo sguardo sorpreso e gridò: «Bliss, la tua cara Fallom è abbastanza adulta da saper usare la trasduzione. Sta servendosi dell’energia elettrica per cercare di manipolare i comandi. Fermala!».
Bliss abbracciò Fallom e la strinse. «Va tutto bene, Fallom. Non c’è niente di cui aver paura. È solo un altro mondo, tutto qui. Ne esistono molti come questo.»
Fallom si rilassò un po’, ma continuò a tremare.
Bliss si rivolse a Trevize. «Non ha mai visto un oceano e può darsi che non sappia neppure cosa siano la pioggia e la nebbia. Non puoi essere un po’ comprensivo?»
«No, se manomette l’astronave. È un pericolo per tutti. Portala di là e calmala.»
Bliss annuì.
«Vengo con te, Bliss» disse Pelorat.
«No, no, Pel. Resta qui. Io calmo Fallom e tu cerca di calmare Trevize.» Dopo di che Bliss uscì.
«Non ho bisogno che qualcuno mi calmi» sbottò Trevize. «Mi spiace di aver perso il controllo, ma non possiamo permettere che una bambina giochi coi comandi, no?»
«Certo» convenne Pelorat. «Ma Bliss è stata colta di sorpresa ed è in grado di controllare Fallom, che tra l’altro si comporta molto bene se si considera che è stata strappata al suo mondo e al suo robot e, volente o nolente, è stata gettata in una vita che non capisce.»
«Lo so, ma non sono stato io a volerla portare con noi. L’idea è di Bliss.»
«Già, ma se non l’avessimo portata, Fallom sarebbe stata uccisa.»
«Be’, chiederò scusa a Bliss più tardi. E anche alla bambina.»
Ma Trevize era ancora cupo in viso e Pelorat gli domandò garbatamente: «Golan, amico mio, c’è qualcos’altro che ti preoccupa?».
«L’oceano» rispose Trevize. Erano usciti ormai da un pezzo dal temporale e le nubi non accennavano a diminuire.
«Cos’ha che non va?»
«Ce n’è troppo.»
Pelorat sembrò non capire, al che Trevize disse a bruciapelo: «Niente terra. Non abbiamo visto nessun lembo di terra emersa. L’atmosfera è perfettamente normale, ossigeno e azoto in percentuale giusta, dunque deve trattarsi di un pianeta modificato e devono esserci delle forme di vita vegetale per mantenere un livello adeguato di ossigeno. In natura atmosfere del genere non esistono, tranne sulla Terra a quanto si crede, dove si è formata chissà come. Ma sui pianeti modificati ci sono sempre quantità ragionevoli di terraferma, fino a un terzo della superficie complessiva e mai meno di un quinto. Allora, come è possibile che questo sia un pianeta modificato e manchi la terraferma?».
«Forse, dato che appartiene a un sistema binario, è un pianeta atipico. Forse non è stato modificato e la sua atmosfera si è formata in modo diverso da quanto avviene sui pianeti delle stelle singole. Forse qui la vita si è evoluta in maniera indipendente, come sulla Terra ma in forme acquatiche.»
«Anche se fosse così, noi non ne ricaveremmo niente. Dalla vita marina non può nascere una tecnologia. La tecnologia si basa sempre sul fuoco, il che è impossibile in acqua. Un pianeta vivo ma privo di tecnologia non è quello che stiamo cercando.»
«Capisco, ma io mi limitavo a fare delle riflessioni. Dopotutto, per quel che ne sappiamo, la tecnologia è stata creata una sola volta, sulla Terra. Per il resto, i coloni l’hanno portata con sé. Non puoi dire che nasca sempre in un determinato modo, se hai un solo caso da studiare.»
«Lo spostamento in acqua richiede forme aerodinamiche affusolate. Non possono esserci profili irregolari, né appendici come le mani.»
«I calamari hanno i tentacoli.»
«D’accordo, discutiamo pure, ma se pensi a una specie di calamari intelligenti evolutisi indipendentemente in qualche angolo della galassia e in possesso di una tecnologia non basata sul fuoco, be’, ti rispondo che a mio avviso è assai improbabile.»
«A tuo avviso, certo...»
Trevize scoppiò a ridere. «Molto bene, Janov. Vedo che ricorri alla logica e vuoi punirmi per come ho trattato Bliss prima. Ammetto che stai facendo un buon lavoro e ti prometto che, se non troveremo la terraferma, esploreremo il mare al nostro meglio, in cerca della tua civiltà di calamari.»
Mentre parlava, l’astronave entrò di nuovo nel lato notturno e lo schermo diventò nero.
Pelorat sussultò. «Ma è sicuro? Continuo a chiedermelo.»
«Cosa, Janov?»
«Viaggiare così, al buio. Potremmo perdere quota, precipitare nell’oceano e disintegrarci all’istante.»
«Impossibile, davvero! Il computer ci mantiene su una linea gravitazionale di forza. In altre parole, rimane sempre a un’intensità gravitazionale costante rispetto al pianeta, il che significa che siamo sempre a un’altezza costante, o quasi, sopra il livello del mare.»
«A che altezza?»
«Cinque chilometri circa.»
«Questo non mi consola, Golan. E se raggiungessimo la terraferma e ci schiantassimo contro una montagna senza vederla?»
«Noi non vediamo, ma il radar dell’astronave vede tutto e il computer, se ci fosse una montagna, ci guiderebbe intorno a essa o sopra di essa.»
«E se ci fosse una distesa di terra piatta? Al buio non la individueremmo.»
«No, Janov, la individueremmo ugualmente. Le onde radar riflesse dall’acqua sono diverse da quelle riflesse dal terreno. L’acqua è sostanzialmente uniforme, il terreno invece è scabro: per questo motivo le onde riflesse dalla terra sono molto più confuse di quelle riflesse dall’acqua. Il computer noterà la differenza e, se ci sarà terraferma, in vista ce lo farà sapere.»
Rimasero in silenzio e un paio d’ore più tardi raggiunsero di nuovo il lato diurno, mentre l’oceano scorreva monotono sotto di loro, oscurato di tanto in tanto da qualche formazione temporalesca. In mezzo a una di queste perturbazioni, il vento fece uscire di rotta la Stella lontana. Il computer lasciò fare per evitare un inutile spreco di energia e per minimizzare la possibilità di danni fisici, spiegò Trevize. Poi, superata la perturbazione, riportò l’astronave in rotta progressivamente.
«Probabilmente era il margine di un uragano» osservò Trevize.
Pelorat aggiunse: «Ascolta, amico mio, ci stiamo solo spostando da ovest a est o da est a ovest. In pratica stiamo esaminando l’equatore e nient’altro».
«Il che sarebbe stupido, vero? No, stiamo seguendo una rotta circolare nordovest-sudest. In questo modo sorvoliamo sia i tropici sia le regioni temperate e ogni volta che ripetiamo il giro la rotta si sposta verso ovest in quanto il pianeta ruota sul suo asse sotto di noi. Stiamo intersecando questo mondo in lungo e in largo, come vedi. E dato che finora non abbiamo avvistato la terraferma, le probabilità di trovare un continente di una certa estensione sono scese sotto il dieci per cento, secondo il computer; le probabilità di avvistare un’isola di una certa estensione sono scese sotto il venticinque per cento e diminuiscono a ogni giro».
«Sai cosa avrei fatto?» disse Pelorat lentamente, mentre l’emisfero notturno li risucchiava per l’ennesima volta. «Sarei rimasto ben lontano dal pianeta e avrei sondato l’emisfero rivolto verso di me con il radar.»
«Già. Poi saresti passato sull’emisfero opposto e avresti fatto la stessa cosa. O avresti aspettato che ruotasse il pianeta. Questo si chiama senno di poi, Janov. Non ci aspettavamo di avvicinarci a un pianeta abitabile senza fermarci a una stazione d’ingresso dove ci avrebbero assegnato una rotta o ci avrebbero rifiutato l’accesso. E una volta superato lo strato di nubi, ci aspettavamo di trovare quasi subito la terraferma. I pianeti abitabili sono... terraferma!»
«Be’, solo in parte.»
«Non intendevo questo» disse Trevize in preda a un’eccitazione improvvisa. «Sto dicendo che abbiamo trovato la terraferma! Zitto.»
Cercando di controllarsi, Trevize appoggiò le mani sulla scrivania e si fuse con il computer. Un attimo dopo annunciò: «È un’isola lunga circa duecentocinquanta chilometri e larga circa sessantacinque, per un’area approssimativa di quindicimila chilometri quadrati. Non è grandissima ma è rispettabile, più che un semplice puntino sulla mappa. Aspetta».
Le luci della sala comandi si spensero.
«Cosa facciamo?» mormorò Pelorat, come se l’oscurità fosse qualcosa di fragile che si potesse infrangere.
«Aspettiamo che i nostri occhi si abituino al buio. L’astronave è sull’isola, guarda. Vedi qualcosa?»
«No. Forse qualche piccola chiazza di luce, ma non ne sono sicuro.»
«Anch’io le vedo. Ora inserisco il telescopio.»
Adesso la luce era visibilissima. Chiazze irregolari.
«È abitato» disse Trevize. «Forse è l’unica parte abitata del pianeta.»
«Che facciamo?»
«Aspettiamo che sia giorno, così avremo alcune ore di riposo.»
«E se ci attaccassero?»
«Con cosa? Non rilevo in pratica alcuna radiazione, a parte i raggi luminosi visibili e un po’ di infrarossi. È un pianeta abitato e gli abitanti sono certo intelligenti. Possiedono una tecnologia, ma è ovvio che si tratta di tecnologia pre-elettronica, quindi non credo che ci sia nulla da temere. Se dovessi sbagliarmi, il computer ci avvertirebbe in tempo.»
«E quando sarà giorno?»
«Atterreremo, naturalmente.»
LXXV
Quando scesero, i primi raggi mattutini del sole splendevano attraverso uno squarcio tra le nuvole, rivelando una parte dell’isola verdeggiante con l’interno segnato da una catena di colline basse e ondulate che si perdeva in lontananza, in un alone color porpora.
Mentre si abbassavano videro boschetti isolati e qualche frutteto, ma la maggior parte erano fattorie ben curate. Immediatamente sotto di loro, lungo la costa sudorientale dell’isola, c’era una spiaggia di sabbia argentea fiancheggiata sul retro da una fila irregolare di massi, oltre la quale si estendeva un prato. Di tanto in tanto si scorgeva una casa, ma gli edifici non erano raggruppati in maniera tale da formare un centro abitato vero e proprio.
Infine videro una rete di strade fiancheggiate da abitazioni sparse e poi, nell’aria fresca del mattino, un veicolo aereo in lontananza. Capirono che si trattava di un aereo e non di un uccello dal modo in cui solcava l’aria. Era il primo segno indubitabile di una presenza evoluta fino a quel momento.
«Potrebbe essere un veicolo automatico, sempre che siano in grado di costruirne uno senza ricorrere all’elettronica» disse Trevize.
«E infatti è probabile che lo sia» intervenne Bliss. «Se ai comandi ci fosse un essere umano si dirigerebbe verso di noi, non credi? Immagino che siamo uno spettacolo insolito: un apparecchio che si posa in superficie senza l’ausilio di razzi frenanti che eruttano fuoco.»
«Uno spettacolo insolito su qualsiasi pianeta» annuì Trevize meditabondo. «Non possono essere molti i mondi che hanno assistito alla discesa di un veicolo spaziale gravitazionale. La spiaggia sarebbe un posto ideale per l’atterraggio, ma non voglio che il vento faccia inondare l’astronave. Scenderemo su quel tratto erboso dietro i massi.»
«Almeno» commentò Pelorat «un’astronave gravitazionale non brucia il terreno altrui, quando atterra.»
Si posarono dolcemente sui quattro cuscinetti ammortizzatori usciti dallo scafo durante la fase finale. I cuscinetti affondarono nel terreno sotto il peso dell’astronave.
«Ho paura che lasceremo dei segni» disse Pelorat.
«Per fortuna, il clima sembra ragionevole» disse Bliss un po’ circospetta. «Caldo, oserei dire.»
Sul prato c’era una donna che osservava la discesa dell’astronave senza mostrare alcun timore né sorpresa. La sua espressione era di estremo interesse.
Non indossava granché e questo confermava la bontà della valutazione climatica di Bliss. I sandali sembravano di tela e avvolta intorno ai fianchi portava una gonna con un motivo floreale. Le gambe erano nude e non indossava indumenti sopra la cintola.
Aveva lunghi capelli di un nero lucente che le arrivavano quasi alla vita, la pelle di un colorito marrone chiaro, gli occhi stretti.
Trevize si guardò intorno e vide che nei paraggi non c’erano altri esseri umani. Stringendosi nelle spalle, disse: «Be’, è prima mattina e può darsi che gli abitanti per lo più siano in casa, o dormano ancora. Comunque, non mi pare un’area densamente popolata. Andrò a parlare con quella donna, sempre che si esprima in modo comprensibile. Voialtri...».
«Credo che possiamo scendere benissimo anche noi» replicò Bliss decisa. «La donna mi sembra completamente innocua e in ogni caso voglio sgranchirmi le gambe, respirare un po’ d’aria vera e magari cercare un po’ di cibo locale. Voglio che Fallom si ambienti di nuovo su un pianeta e penso che a Pel piacerebbe esaminare la donna più da vicino.»
«Chi? Io?» Pelorat arrossì leggermente. «Niente affatto, Bliss, comunque sono il linguista del nostro gruppetto.»
Trevize fece spallucce. «D’accordo, allora, venite tutti. Ma anche se la donna ha un’aria innocua, porterò le mie armi.»
«Non credo che avrai occasione di usarle con lei, né che sarai tentato di farlo» disse Bliss.
Trevize sorrise. «È attraente, vero?»
Lasciò l’astronave per primo, poi fu la volta di Bliss e di Fallom, che scese cauta dalla rampa. Pelorat fu l’ultimo.
La donna continuò a osservare interessata, senza spostarsi di un millimetro.
«Be’, proviamo» borbottò Trevize.
Staccò bene le mani dalle armi e disse: «Salute a te».
La giovane rifletté per un istante, quindi rispose: «E io saluto te e i di te compagni».
Pelorat esclamò esultante: «Meraviglioso! Parla il galattico classico e con un buon accento».
«La capisco anch’io» disse Trevize facendo oscillare una mano per indicare che la sua comprensione non era perfetta. «Spero che lei mi capisca.»
Sorridendo con un’espressione amichevole, continuò: «Veniamo dallo spazio. Veniamo da un altro mondo».
«Questo è bene» disse la giovane con una voce squillante da soprano. «Viene codesta astronave dall’impero?»
«Viene da una stella molto lontana e si chiama Stella lontana.»
La giovane guardò la scritta sull’astronave. «È quello che è scritto là? Se sì e se la prima lettera è una “S”, allora, vi dico, è impressa rovesciata.»
Trevize stava per obiettare ma Pelorat intervenne estasiato. «Ha ragione. La lettera “S” si è invertita circa duemila anni fa. Che occasione meravigliosa per approfondire il galattico classico e come lingua viva!»
Trevize osservò attentamente la giovane donna. Non superava di molto il metro e mezzo di altezza e i seni, per quanto ben fatti, erano piccoli. Eppure non sembrava acerba: i capezzoli erano grandi, le areole scure, anche se questo dipendeva probabilmente dal colorito bruno della pelle.
«Mi chiamo Golan Trevize; il mio amico è Janov Pelorat; la donna è Bliss e la bambina si chiama Fallom.»
«Dunque, sulla stella remota da cui provenite, è usanza che agli uomini due nomi tocchino? Io sono Hiroko figlia di Hiroko.»
«E tuo padre?» chiese Pelorat.
Al che lei alzò le spalle, indifferente. «Il nome suo, così dice mia madre, è Smool, ma non ha importanza. Non lo conosco.»
«Dove sono gli altri?» domandò Trevize. «A quanto pare sei l’unica ad accoglierci.»
«Molti uomini sono a bordo dei pescherecci. Molte donne, nei campi. Io presi una vacanza negli ultimi due giorni, così ora ho avuto la fortuna di vedere questo grande avvenimento. Ma la gente è curiosa e l’astronave sarà stata vista scendere in lontananza. Presto, altri saranno qui.»
«Ci sono molte altre persone su quest’isola?»
«Più di venticinque migliaia» rispose Hiroko molto orgogliosa.
«Ci sono altre isole nell’oceano?»
«Altre isole, buon signore?» fece la giovane piuttosto perplessa.
Per Trevize fu una risposta sufficiente. Quello era l’unico punto del pianeta abitato da esseri umani.
«Qual è il nome del vostro mondo?» domandò Trevize.
«È Alpha, buon signore. Ci insegnano che l’intero nome è Alpha Centauri, se ciò ha significato maggiore per te, ma noi lo chiamiamo Alpha soltanto e, vedi, è un mondo dal volto ridente.»
«Un mondo che?» Trevize si rivolse a Pelorat con aria interrogativa.
«Intende dire un mondo bello» spiegò Pelorat.
«Lo è» annuì Trevize. «Almeno, qui e in questo momento.» Guardò il cielo azzurro del mattino, con le nubi che si rincorrevano. «Una bella giornata di sole, Hiroko. Ma immagino che non ci siano molte giornate come questa su Alpha.»
La ragazza si irrigidì. «Quante ne vogliamo, signore. Le nubi vengono quando ci occorre pioggia, ma in molti giorni sembra bello che il cielo lassù sia limpido. Invero, un cielo favorevole e un vento calmo sono augurabili nei giorni in cui i pescherecci sono in mare.»
«Dunque la tua gente controlla il clima, Hiroko?»
«Non lo facessimo, Golan Trevize, saremmo zuppi di pioggia.»
«Ma come fate?»
«Non essendo un ingegnere, signore, non posso dirtelo.»
«E quale sarebbe il nome dell’isola su cui vivete tu e la tua gente?»
«L’isola celestiale in mezzo al vasto mare di acque è da noi chiamata Nuova Terra.»
Al che Trevize e Pelorat si fissarono strabiliati.
LXXVI
Non vi fu il tempo di approfondire. Stavano arrivando altre persone, decine di persone. Probabilmente, pensò Trevize, quelle che non erano in mare o nei campi e che non si trovavano troppo lontane. Per la maggior parte arrivarono a piedi, anche se si vedevano due terramobili piuttosto goffe e antiquate.
Sì, era una società a basso livello tecnologico che controllava i fenomeni atmosferici.
Si sapeva che la tecnologia non procedeva necessariamente in modo compatto; che l’arretratezza in un settore non escludeva necessariamente un progresso considerevole in altri, ma gli esempi di sviluppo non uniforme erano insoliti.
Almeno metà delle persone che osservava l’astronave era anziana, uomini e donne; c’erano tre o quattro bambini e per il resto le donne erano in maggioranza rispetto agli uomini. Nessuno sembrava incerto o spaventato.
Trevize mormorò a Bliss: «Li stai influenzando? Sembrano sereni».
«Non li influenzo affatto» rispose Bliss. «Non tocco le menti, se proprio non devo. È Fallom che mi preoccupa.»
Per quanto i nuovi venuti fossero pochi, almeno per chi si fosse imbattuto nelle normali folle di curiosi che si trovavano su qualsiasi mondo della galassia, per Fallom rappresentavano una moltitudine. Del resto, aveva stentato ad abituarsi alla presenza dei tre adulti a bordo della Stella lontana e ora aveva il respiro affannoso, gli occhi socchiusi, come se fosse in stato di shock.
Bliss l’accarezzava con gesti ritmici e delicati, mormorando una specie di nenia per calmarla e sicuramente intervenendo con delicatezza sulle fibre mentali della bambina.
D’un tratto Fallom inspirò a fondo, ebbe un sussulto violento e si scosse. Drizzò la testa, guardò i presenti con un’aria non più stranita come prima e infilò la testa sotto il braccio di Bliss.
Pelorat sembrava in preda a un timore reverenziale e il suo sguardo si spostava continuamente da un alphano all’altro. «Golan, sono tutti diversi tra loro.»
Anche Trevize l’aveva notato. C’era un campionario assortito di colori, sia per quanto riguardava la carnagione sia i capelli, compreso un tipo dai capelli rossi, gli occhi azzurri e le lentiggini. Alcuni adulti (almeno sembravano tali) erano bassi come Hiroko, un paio erano più alti di Trevize. Un certo numero di maschi e di femmine aveva il taglio degli occhi uguale a quello di Hiroko e Trevize rammentò che sui popolosi pianeti commerciali del settore di Fili gli occhi a mandorla erano la caratteristica della popolazione, ma lui non ci era mai stato.
Gli alphani erano nudi sopra la cintola e i seni delle donne sembravano piccoli. Era la particolarità fisica più uniforme che Trevize potesse notare.
Bliss disse all’improvviso: «Hiroko, la mia piccola non è abituata ai viaggi spaziali e si trova di fronte a troppe novità in una volta sola. Non sarebbe possibile farla sedere e magari darle da mangiare o da bere qualcosa?».
Hiroko sembrò perplessa e Pelorat ripeté la richiesta di Bliss nel galattico più elaborato del periodo mediano dell’impero.
Hiroko portò una mano alla bocca e si inginocchiò con movimenti aggraziati. «Imploro da te perdono, stimata signora. Non ho considerato i bisogni di codesta bambina, né i tuoi. La stranezza di tale avvenimento mi ha troppo distolta. Vorresti tu... vorreste voi tutti, come visitatori e ospiti, entrare nel refettorio per il pasto mattutino? Possiamo unirci a voi e fungere da vostri anfitrioni?»
Bliss rispose lentamente, scandendo bene le parole e sperando che questo facilitasse la comprensione. «Siete davvero gentili, ma sarebbe meglio se solo tu facessi da anfitrione, per il bene della bambina che non è abituata a stare con molte persone.»
Hiroko si alzò. «Sarà fatto come hai richiesto.»
Li guidò tranquilla attraverso il prato, mentre gli altri alphani sembravano soprattutto interessarsi agli abiti degli stranieri. Trevize si tolse la giacca e la porse a un uomo che gli si era accostato e l’aveva toccata con aria interrogativa.
«Ecco,» disse Trevize «guardala bene, ma restituiscila.» Poi, rivolto a Hiroko: «Fai in modo che la riabbia indietro, Hiroko».
«Oh, di certo sarà di nuovo in mano tua, stimato signore» annuì la giovane seria.
Trevize sorrise e proseguì. Si sentiva più a proprio agio senza giacca in quella brezza carezzevole.
Non aveva visto armi addosso a chi lo attorniava e constatò con interesse che gli alphani non mostravano alcun timore né alcun disagio per quelle che portava. Non sembravano nemmeno incuriositi, forse non sapevano che si trattava di armi. Da quanto aveva potuto osservare finora, Alpha aveva tutta l’aria di essere un mondo pacifico.
Una donna, portandosi di fronte a Bliss, si girò a esaminare meticolosamente la sua camicetta, quindi chiese: «Hai seni, stimata signora?».
Poi, come se fosse incapace di attendere una risposta, posò adagio una mano sul petto di Bliss.
Bliss sorrise. «Li ho, come hai appena scoperto. Probabilmente non sono belli come i tuoi, ma non li nascondo per questo motivo. Sul mio mondo è sconveniente che siano esibiti.»
E aggiunse sottovoce rivolta a Pelorat: «Che te ne pare del mio galattico classico?».
«Sei stata bravissima, Bliss.»
La sala da pranzo era spaziosa, con lunghi tavoli ai quali su entrambi i lati erano fissate delle panche. Chiaramente, gli alphani consumavano pasti comunitari.
Trevize si sentiva un po’ in colpa. In seguito alla richiesta di Bliss, tutto quello spazio era stato destinato adesso ad appena cinque persone e gli altri alphani erano stati relegati all’esterno. Alcuni si erano fermati in prossimità delle finestre (che erano semplici aperture nelle pareti, prive di qualsiasi protezione), presumibilmente per osservare gli stranieri a tavola.
Involontariamente, Trevize si chiese cosa sarebbe successo in caso di pioggia. Di sicuro sarebbe arrivata solo in caso di necessità e sarebbe stata una pioggia lieve, senza raffiche di vento, pronta a cessare non appena ne fosse venuto meno il bisogno. Ergo, non sarebbe arrivata all’improvviso e gli alphani non sarebbero stati impreparati.
La finestra di fronte a Trevize si affacciava sul mare e in lontananza, all’orizzonte, gli sembrò di scorgere un banco di nubi simili a quelli che oscuravano gran parte del cielo, fatta eccezione per quel piccolo paradiso.
Il controllo meteorologico presentava dei vantaggi.
Furono serviti da una giovane che si muoveva in punta di piedi. Nessuno chiese agli ospiti cosa desiderassero; vennero serviti e basta. C’erano tre bicchieri: uno piccolo di latte, uno medio di succo d’uva, uno grande di acqua. Ogni commensale ricevette due uova in camicia con pezzettini di formaggio e un piatto di pesce alla griglia e di patate arrosto accompagnate da foglie di lattuga.
Bliss guardò scoraggiata la quantità di cibo che aveva di fronte, non sapendo da dove iniziare. Fallom non aveva problemi del genere. Bevve avidamente il succo d’uva, quindi si lanciò sul pesce e le patate. Stava per usare le dita, ma Bliss le porse un grosso cucchiaio con l’estremità a rebbio che fungeva anche da forchetta e Fallom l’accettò.
Pelorat sorrise soddisfatto e si dedicò subito alle uova.
Trevize lo imitò dicendo: «Tanto per ricordare che gusto hanno le uova vere».
Hiroko, trascurando la propria colazione e osservando deliziata con quanto appetito mangiavano gli ospiti (perché anche Bliss finalmente si era messa all’opera con lo stesso slancio dei compagni), infine chiese: «È di vostro gradimento?».
«Tutto ottimo» annuì Trevize con voce un po’ soffocata. «Su quest’isola il cibo non scarseggia. O ci offrite un pasto così abbondante per cortesia?»
Hiroko ascoltò assorta ed evidentemente comprese il significato della domanda, in quanto rispose: «No, stimato signore, la nostra terra è generosa, il mare ancora di più. Le anatre danno uova, le capre latte e formaggio. E abbiamo i nostri grani. Ma, soprattutto, il mare è colmo di innumerevoli varietà di pesci, in copiosissima quantità. Tutto l’impero potrebbe mangiare alle nostre tavole senza esaurire il mare pescoso».
Trevize sorrise tra sé. Evidentemente, la giovane alphana non immaginava quanto fosse grande la galassia.
«Quest’isola è chiamata Nuova Terra, Hiroko» disse Trevize. «Dove può essere la Vecchia?»
Lei lo fissò confusa. «Vecchia Terra, hai detto? Imploro perdono, stimato signore, non riesco a comprendere.»
«Prima che ci fosse una Nuova Terra,» spiegò Trevize «il tuo popolo deve aver vissuto altrove. Dov’è il posto da cui proviene il tuo popolo?»
«Di questo non so nulla, stimato signore» rispose Hiroko, l’espressione solenne e turbata. «Da una vita questa è la mia terra, e di mia madre e della di lei madre e delle madri venute prima. Di un’altra terra, non so nulla.»
«Ma» insistette Trevize con garbo «perché chiamate questo posto Nuova Terra?»
«Perché, stimato signore,» rispose Hiroko altrettanto garbatamente «è da tutti chiamato così, da che mente di donna ha raziocinio.»
«Ma è una Nuova Terra, quindi una Terra venuta in seguito. Deve esserci una Vecchia Terra, un mondo precedente, da cui questa ha preso il nome. Ogni mattina c’è un nuovo giorno, il che significa che prima c’è stato un vecchio giorno. Non capisci che non può essere diversamente?»
«No, stimato signore. So soltanto come questa terra è chiamata. Null’altro io so, né seguo questo tuo ragionare, che noi qui chiameremmo astruso. Senza offesa.»
Trevize scosse il capo, frustrato.
LXXVII
Trevize mormorò a Pelorat: «Ovunque andiamo, qualsiasi cosa facciamo, non otteniamo alcuna informazione».
«Sappiamo dov’è la Terra, quindi che importa?» disse Pelorat muovendo appena le labbra.
«Voglio prima saperne qualcosa.»
«Hiroko è giovanissima. Non può essere un pozzo di informazioni.»
Trevize rifletté per un istante, poi annuì. «Giusto, Janov.»
Rivolgendosi alla ragazza, disse: «Hiroko, non ci hai chiesto perché siamo venuti sul vostro mondo».
Lei abbassò gli occhi. «Sarebbe scortese chiedere prima che abbiate mangiato e riposato, stimato signore.»
«Ma adesso abbiamo mangiato o quasi e ci siamo riposati di recente, quindi ti dirò perché siamo qui. Il mio amico, il dottor Pelorat, è uno studioso del nostro mondo, un dotto. È un mitologo. Sai cosa significa?»
«No, stimato signore.»
«Il mio amico studia le vecchie storie che si raccontano su ogni mondo. Queste storie si chiamano anche miti e leggende ed è di questo che si interessa il dottor Pelorat. Su Nuova Terra ci sono dei dotti che conoscono le vecchie storie di questo mondo?»
Hiroko si concentrò corrugando leggermente la fronte. «Non è una materia di mia conoscenza. Abbiamo nei dintorni un vecchio che ama parlare dei giorni antichi. Dove possa avere appreso queste cose, non so e ritengo possa averle inventate di sana pianta, o che le abbia udite da qualcuno che a sua volta le abbia inventate così. Forse è questa la materia di cui il tuo dotto compagno gradirebbe sentir parlare, ma non intendo fuorviarvi. È mio parere» e si guardò intorno come se volesse assicurarsi che nessuno la sentisse «che il vecchio sia solo un gran chiacchierone, quantunque in molti lo ascoltino volentieri.»
Trevize annuì. «A noi interessano proprio questi chiacchieroni. Non sarebbe possibile portare il mio amico dal vecchio?»
«Monolee è il suo nome.»
«Da Monolee, allora? Pensi che sia disposto a parlare con il mio amico?»
«Disposto a parlare? Dovresti chiedere, se mai, se sarà disposto a smettere di parlare. È solo un uomo e dunque, potendo, parlerà senza pausa per mezzo mese. Senza offesa, stimato signore.»
«Assolutamente. Adesso vorresti accompagnare il mio amico da Monolee?»
«È sempre possibile farlo. Il vecchio passa tutto il tempo a casa ed è sempre ben disposto a salutare orecchie attente.»
Trevize suggerì: «E forse una donna anziana potrebbe essere disposta a venire a sedersi con Bliss. Lei deve badare alla bambina e non può muoversi troppo ma le farebbe piacere un po’ di compagnia, perché si sa, alle donne piace».
«Blaterare?» disse Hiroko divertita. «Così dicono gli uomini, quantunque io abbia notato che gli uomini sono sempre i più grandi chiacchieroni. Quando tornano dalla pesca, fanno a gara l’un l’altro per vedere chi ingigantisce di più con la fantasia le proprie imprese o le prede. E pur se nessuno bada loro, pur se non sono creduti, non cessano. Ma, basta, io stessa sto blaterando. Chiamerò un’amica di mia madre, una donna che ora scorgo attraverso la finestra, perché resti con la signora e la bambina dopo aver guidato il tuo amico, lo stimato dottore, dal vecchio Monolee. Se il tuo amico sarà avido d’ascolto come Monolee lo è di parola, faticherai a separarli. Vogliate perdonare la mia momentanea assenza, ora.»
Quando Hiroko fu uscita, Trevize si rivolse a Pelorat. «Senti, cerca di scoprire il più possibile da quel vecchio e tu, Bliss, cerca di sapere il più possibile dalla donna che verrà qui. Ci occorrono informazioni sulla Terra.»
«E tu cosa farai?» domandò Bliss.
«Io rimarrò con Hiroko e vedrò di trovare una terza fonte di informazioni.»
Bliss sorrise. «Ah, certo. Pel sarà con il vecchio, io con una vecchia. Tu ti sacrificherai e rimarrai con questa giovane seducente e seminuda. Mi sembra un’equa suddivisione dei compiti.»
«Guarda caso, Bliss, è equa.»
«Già, dal tuo punto di vista, di sicuro.»
Hiroko rientrò e si sedette di nuovo. «È tutto approntato. Lo stimato dottor Pelorat verrà condotto da Monolee e la stimata signora Bliss, insieme alla bambina, avrà compagnia. Mi vuoi dunque concedere, stimato signor Trevize, l’onore di proseguire con te la conversazione, forse riguardo a questa Vecchia Terra di cui...»
«... blatero?» concluse Trevize.
«No» rispose Hiroko ridendo. «Ma è stato giusto burlarmi. Finora ho mostrato solo scortesia nel rispondere alla tua domanda. Mi aggraderebbe far ammenda.»
Trevize chiese a Pelorat: «Aggraderebbe?».
«Le piacerebbe molto, vuol dire» mormorò Pelorat.
«Non c’è stata scortesia, Hiroko,» disse Trevize «ma se servirà a tranquillizzarti, parlerò volentieri con te.»
«Ti ringrazio per la tua bontà» disse Hiroko alzandosi.
Anche Trevize si alzò. «Bliss, controlla che Janov non si trovi in pericolo.»
«Ci penso io. Tu invece hai le tue...» E indicò con un cenno le fondine.
«Non credo che ne avrò bisogno» rispose Trevize impacciato.
Seguì Hiroko all’esterno. Il sole era alto nel cielo e c’era ancora più caldo. Come sempre, nell’aria si avvertiva un profumo strano. Trevize ricordava quello debole di Comporellen, l’odore leggermente muschiato su Aurora e quello delizioso di Solaria. (Su Melpomenia indossavano le tute spaziali, all’interno delle quali si sentiva solo l’odore del proprio corpo.) In ogni caso, il profumo scompariva in poche ore per la saturazione dei centri olfattivi del naso.
Su Alpha si sentiva una calda fragranza di erba e Trevize provò un certo disappunto al pensiero che sarebbe durata così poco.
Si stavano avvicinando a una piccola costruzione che sembrava fatta di malta rosa chiaro.
«È la mia casa. Apparteneva un tempo alla sorella minore di mia madre.»
Entrò, invitando Trevize a seguirla. La porta era aperta o meglio, notò lui, non c’era alcuna porta.
«Cosa fate quando piove?»
«Siamo preparati. La pioggia dura sempre due giorni, fino a tre ore avanti l’alba, quando è maggiore il fresco e il terreno si bagna meglio. Quando piove, mi basta tirare attraverso la soglia questa tenda robusta e impermeabile.»
Mentre parlava, Hiroko tirò la tenda. Sembrava fatta di una specie di tela spessa.
«La lascerò così, adesso» proseguì Hiroko. «Tutti così sapranno che sono in casa ma non a disposizione, in quanto addormentata o impegnata in cose di importanza.»
«Non sembra granché come mezzo per proteggere la propria intimità.»
«È un’ottima protezione. Vedi, l’entrata è coperta.»
«Ma chiunque potrebbe scostarla.»
«In spregio ai desideri dell’occupante?» fece Hiroko confusa. «Si fanno cose simili sul tuo mondo? Sarebbe barbaro.»
Trevize sorrise. «Chiedevo soltanto.»
Hiroko lo condusse nella seconda delle due stanze e lo invitò ad accomodarsi su una sedia imbottita. Erano stanze anguste e spoglie che trasmettevano un lieve senso di claustrofobia e quest’ultima sembrava destinata a essere solo un luogo dove appartarsi e riposare. Le aperture delle finestre erano piccole e vicine al soffitto, ma disposte con cura lungo le pareti alcune strisce di materiale speculare diffondevano la luce. Da delle fessure nel pavimento si alzava una corrente lieve e fresca. Non c’era traccia di illuminazione artificiale e Trevize si chiese se gli alphani dovessero alzarsi all’alba e andare a letto al tramonto.
Stava per domandarlo, quando Hiroko lo precedette chiedendo: «La signora Bliss è la tua compagna?».
Trevize rispose cauto: «Mi chiedi, cioè, se è la mia compagna sessuale?».
Hiroko arrossì. «Ti scongiuro, abbi riguardo per le convenienze della conversazione educata. Comunque sì, mi riferivo alle piacevolezze private.»
«No, è la compagna del mio amico studioso.»
«Eppure sei tu il più giovane e il più piacente.»
«Be’, grazie, ma lei è di un altro avviso. Preferisce di gran lunga il dottor Pelorat.»
«Ciò mi sorprende molto. Lui non ti rende partecipe?»
«Non gli ho mai fatto una richiesta del genere, ma sono certo che risponderebbe di no. Né vorrei una risposta diversa.»
Hiroko annuì. «Capisco. È il suo deretano.»
«Il suo deretano?»
«Sai. Questo.» E Hiroko si batté una mano sul grazioso posteriore.
«Ah, quello! Capisco. Sì, Bliss ha proporzioni generose nella regione pelvica.» Trevize tracciò una curva con le mani e strizzò l’occhio. (E Hiroko rise.)
«Comunque, a molti uomini piace quel genere di abbondanza fisica» aggiunse lui.
«Stento a crederlo. È da ingordi desiderare in eccesso ciò che è piacevole se preso con moderazione. Mi preferiresti, tu, se avessi seni grossi e penzolanti, coi capezzoli rivolti ai piedi? In verità, ho visto seni simili, ma non ho visto frotte di uomini accorrere. Le poverette afflitte da tale sventura devono coprire le loro mostruosità, come la signora Bliss.»
«Le dimensioni eccessive non attraggono nemmeno me, comunque sono sicuro che se Bliss copre i seni non lo fa per nascondere qualche imperfezione.»
«Dunque, tu non disapprovi il mio aspetto e la mia forma?»
«Sarei un pazzo se lo facessi. Sei molto bella.»
«E sull’astronave, andando di mondo in mondo, cosa fai per procurarti piacere... essendo a te negata la signora Bliss?»
«Nulla, Hiroko. Non c’è nulla che possa fare. Di tanto in tanto penso al piacere e questo crea dei disagi, ma chi viaggia nello spazio sa benissimo che certe volte bisogna fare delle rinunce. Ci ripaghiamo dei disagi in altre occasioni.»
«Se è un disagio, in che modo è possibile rimediare?»
«Ora che ne parli, il disagio che avverto è aumentato. Ma non credo che sarebbe cortese suggerire quale potrebbe essere per me la cura migliore.»
«Sarebbe scortese se a suggerirla fossi io?»
«Dipende dal suggerimento.»
«Io suggerirei di procurarci piacere a vicenda.»
«Hiroko, mi hai portato qui perché arrivassimo a questo?»
Hiroko sorrise. «Sì. È il mio dovere di padrona di casa ed è anche ciò che desidero.»
«In tal caso, ammetto che anch’io lo desidero. Anzi, mi “aggraderebbe” molto.»