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Quando l’immagine del principe Lefkin apparve sul teleschermo, negli appartamenti di Wienis calò un silenzio assoluto. Il reggente aveva sussultato nel vedere il figlio con l’uniforme lacera e gli occhi dilatati dal terrore, poi era crollato su una poltrona, con la faccia contratta dalla sorpresa e dall’apprensione.
Hardin restò impassibile, con le mani abbandonate in grembo. Re Lepold, appena incoronato, sedeva in un angolo buio della stanza, mordendo nervosamente una manica del suo abito intessuto d’oro. Anche i soldati avevano perso la loro solita aria impassibile e, dalla soglia su cui si erano fermati, fulminatori in pugno, si avvicinarono furtivamente per guardare lo schermo.
Lefkin parlava, riluttante, con voce stanca, facendo alcune pause a intervalli regolari, riprendendo quando veniva sollecitato, con malagrazia, a farlo.
«La flotta anacreoniana, conosciuta la natura della sua missione e rifiutando di prendere parte alla tremenda profanazione, sta tornando su Anacreon con il seguente ultimatum rivolto ai sacrileghi che volevano usare la forza contro la Fondazione fonte di ogni bene... e contro lo Spirito galattico. Cessi immediatamente la guerra alla vera religione e si diano garanzie ai membri dell’equipaggio, rappresentati dal cappellano Theo Aporat, che tale conflitto non verrà ripreso nemmeno in futuro. Si disponga affinché...» e qui la pausa fu lunga «l’ex principe reggente, Wienis, sia imprigionato e processato davanti a una corte ecclesiastica per i suoi crimini. In caso contrario la flotta reale, tornando su Anacreon, distruggerà il palazzo del governo e prenderà le misure necessarie per annientare nel nido dei peccatori... i diabolici corruttori dell’anima umana che hanno voluto questa infamia.»
Il discorso si concluse con una specie di singhiozzo e l’immagine svanì.
Hardin toccò la sua torcia atomica e la luce si abbassò fin quasi a scomparire. Nel lieve chiarore il reggente, il re e le guardie apparivano come fievoli ombre, e per la prima volta si poteva notare un sottile alone luminoso intorno a Hardin.
Non era la luce sfolgorante prerogativa dei re, ma non per questo era meno suggestiva né meno impressionante, anzi più efficace e di certo più utile. Con voce calma e venata d’ironia Hardin si rivolse a Wienis, che nemmeno un’ora prima lo aveva dichiarato prigioniero di guerra e aveva creduto che Terminus fosse prossimo alla distruzione, e che ora sembrava l’ombra di se stesso.
«C’è una vecchia favola,» disse Hardin «vecchia forse quanto l’umanità, perché i documenti più antichi che la riportano non sono che copie di testi ancora più antichi, Wienis. La storia è pressappoco questa, credo che la troverà interessante.
«Un cavallo aveva per nemico un lupo pericoloso e feroce, e viveva continuamente nel terrore. Ridotto alla disperazione, decise di procurarsi un forte alleato. Incontrò un uomo e gli propose un patto facendogli notare come il lupo fosse, in fondo, anche un suo nemico. L’uomo acconsentì e si offrì di uccidere immediatamente il lupo purché il suo nuovo amico accettasse di collaborare mettendogli a disposizione la sua grande velocità. Il cavallo, contento, si lasciò mettere le briglie e la sella. L’uomo gli balzò in groppa, diede la caccia al lupo e lo uccise.
«Il cavallo, sollevato e contento, ringraziò l’uomo e gli disse: “Ora che il nostro nemico è morto, toglimi le briglie e rendimi la libertà”.
«L’uomo rise di cuore e replicò: “Ma che cosa stai dicendo? Hop! hop!” e gli diede un violento colpo di speroni.»
Nella stanza il silenzio era assoluto. Wienis, che sembrava un fantasma, non si mosse.
Hardin continuò con calma. «Ha afferrato l’analogia, spero. Nella fretta di ottenere la devozione assoluta dei loro popoli, i re dei Quattro Regni accettarono la religione della scienza che li rendeva simili a divinità: religione che rappresentò la loro briglia e la loro sella, perché consegnava la linfa vitale della civiltà, l’energia atomica, nelle mani del clero, il quale prende ordini da noi, ricordi bene, non da voi. Avete ucciso il lupo, ma non siete riusciti a liberarvi dell’uomo...»
Wienis scattò in piedi, e nell’ombra i suoi occhi brillavano di una luce di follia. La voce era rauca, le parole incoerenti. «Ti prenderò, non riuscirai a scappare. Morirai. E che ci facciano saltare in aria. Lasciamo che tutto salti in aria, ma tu morirai! Io ti avrò! Guardie» gridò istericamente. «Sparate! Disintegratelo! Uccidetelo!»
Hardin si girò verso i soldati e li guardò sorridendo. Uno di loro puntò il fulminatore, poi abbassò l’arma. Gli altri non si mossero. Salvor Hardin, sindaco di Terminus, circondato da quel lieve alone di luce, sorrideva in modo sereno. Hardin, di fronte al quale si era umiliata tutta la potenza di Anacreon nonostante gli ordini del reggente pazzo, era intoccabile.
Wienis s’avvicinò a una guardia, le strappò dalle mani un fulminatore atomico, lo puntò su Hardin, che non si mosse, e premette il grilletto.
Il raggio colpì il campo di forza che circondava il sindaco di Terminus, e ne fu neutralizzato. Wienis continuò a premere il grilletto. Aveva le lacrime agli occhi e rideva.
Hardin rimase fermo e sereno, e il suo campo di forza divenne un poco più luminoso mentre assorbiva l’energia del fulminatore atomico. Nel suo angolo Lepold s’era coperto la faccia e gemeva.
Con un grido disperato Wienis rivolse l’arma contro di sé e sparò di nuovo. Cadde al suolo, con la testa disintegrata.
Hardin rabbrividì. «Ecco un uomo» mormorò «che ha preferito fino all’ultimo la violenza. L’ultimo rifugio!»