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Le rovine di Trantor
Riconoscere un luogo dall’alto su un pianeta come Trantor era pressoché impossibile. Non esistevano continenti né oceani a cui si potesse fare riferimento. Non esistevano fiumi, laghi o isole che potessero fornire una qualche indicazione della posizione.
Quel mondo ricoperto di metallo era, o meglio era stato, una colossale città e solamente il palazzo imperiale poteva essere riconosciuto a prima vista da uno straniero che venisse dallo spazio. La Bayta sorvolò il pianeta a bassa quota, alla disperata ricerca di un punto di riferimento.
Partendo dalle regioni polari dove il ghiaccio già ricopriva le rovine degli edifici, segno evidente che anche l’impianto per il condizionamento atmosferico non funzionava più, si diressero verso sud. Ogni tanto pareva loro di riconoscere qualche edificio, ma dovevano controllare la mappa che si erano procurati a Neotrantor e che era tutt’altro che precisa.
Quando giunsero nei pressi dell’ex residenza imperiale, le costruzioni metalliche scomparvero per un’area di centinaia di chilometri quadrati, per lasciare posto al verde degli alberi e ai prati che circondavano il palazzo.
La Bayta s’abbassò ulteriormente e cercò di orientarsi. Le colossali autostrade erano gli unici punti di riferimento.
Atterrarono in un piazzale che forse un tempo era stato un congestionato spazioporto, pensando di essere nei pressi dell’università.
Solo dopo essere scesi a terra videro che gli edifici, che da lontano sembravano ancora intatti, in realtà erano ridotti a scheletri metallici di palazzi, uffici, negozi e magazzini ritorti e in rovina. Le guglie erano troncate a metà, le pareti lisce a tratti mostravano enormi fenditure. Poi, di colpo, si ritrovarono al limite di una landa, un centinaio di ettari di terreno coltivato.
Lee Senter attese che l’astronave atterrasse. Era una nave spaziale dall’aspetto strano che certo non proveniva da Neotrantor. Sospirò, scuotendo il capo: l’astronave straniera, che probabilmente arrivava da lontano, poteva significare la fine del breve periodo di pace e il ritorno agli orrori della guerra. Senter era il capo della comunità, aveva in custodia i vecchi libri e aveva letto dei vecchi tempi. Non voleva che tornassero.
Nei dieci minuti in cui attese che l’astronave atterrasse, Senter rivisse gli anni trascorsi. Ricordava la prima grande fattoria della sua infanzia, affollata sempre di gente in attività. Poi rammentò quando la famiglia si era trasferita alla ricerca di altra terra da coltivare. A quei tempi aveva dieci anni: era soltanto un bambino spaventato e curioso.
Una volta scelto il terreno bisognava abbattere e sradicare gli edifici, dissodare, innaffiare, rinvigorire la terra, e c’erano sempre altri edifici da abbattere e livellare, altri ancora da trasformare in abitazioni.
Occorreva piantare il grano e mieterlo, e mantenere relazioni amichevoli con le fattorie vicine...
Il tempo passava e la comunità s’ingrandiva nella pace e nella tranquillità. La nuova generazione era formata da gente dura e tenace, attaccata alla terra. Un giorno era stato eletto capo della comunità. Dall’età di diciotto anni non si radeva la barba e così era stato soprannominato il Barbuto.
Ora, forse, la galassia riprendeva a interessarsi a loro, ponendo fine al breve periodo idilliaco.
L’astronave atterrò. Senza dire una parola osservò i portelli aprirsi ed emergere quattro persone timorose e prudenti, tre uomini e una donna. Il vegliardo smise di lisciarsi la lunga barba e andò loro incontro.
Li salutò con il gesto universale di pace: mani, callose, tese e palmi rivolti in alto.
Il giovane fece due passi avanti e anche lui ripeté lo stesso gesto. «Vengo in pace.»
Aveva uno strano accento, ma le parole erano abbastanza comprensibili e diede loro il benvenuto. «E in pace ognuno rimanga. Sia il benvenuto nel nostro gruppo. Se ha fame, mangerà. Se ha sete, berrà.»
«Vi ringraziamo per la gentilezza e riferiremo della vostra gentile ospitalità quando torneremo sul nostro pianeta.»
La risposta era un po’ ambigua, ma il vecchio non ribatté. Dietro di lui gli altri uomini del gruppo sorridevano, mentre le donne sbirciavano curiose da dietro le porte.
Giunti nella sua casa, il vecchio tolse dal muro una scatola nella quale conservava gelosamente dei grossi sigari da fumare soltanto nelle grandi occasioni. Quando si trattò di offrire il sigaro alla donna, esitò. Stava seduta in mezzo agli uomini, e gli stranieri permettevano, anzi accettavano, un simile affronto. Rigido le porse la scatola.
Lei accettò con un sorriso e accese il sigaro, aspirando il fumo compiaciuta. Lee Senter frenò un gesto scandalizzato.
La conversazione piuttosto formale, prima del pranzo, verteva sull’agricoltura.
«E perché non usate le coltivazioni idroponiche?» chiese il più vecchio degli stranieri. «Per un mondo come Trantor sarebbe di sicuro un sistema più efficace.»
Senter scosse il capo lentamente. Era incerto, non conosceva bene l’argomento. «Sarebbe la coltivazione artificiale a base chimica? No, non qui. Una coltura idroponica richiede un notevole sviluppo industriale, soprattutto dell’industria chimica. E in caso di guerra o di disastri, il popolo morirebbe di fame. E poi non tutto il cibo può essere coltivato artificialmente. Alcuni alimenti perdono il loro valore nutritivo. Il terreno costa meno, rende di più e dà maggiore sicurezza.»
«E la vostra produzione agricola è sufficiente?»
«Sì, forse il cibo è un po’ monotono. Alleviamo galline per il nostro fabbisogno di uova e abbiamo abbastanza latte; per la carne, invece, dipendiamo ancora dal commercio con altri pianeti.»
«Commercio?» Il più giovane degli stranieri sembrò interessarsi. «Voi commerciate, allora. Ma che cosa esportate?»
«Metallo. Come lei stesso può osservare, ne abbiamo una riserva inesauribile, e già lavorato. Arrivano da Neotrantor con astronavi, demoliscono l’area prescelta, aumentando in questo modo la superficie coltivabile, e portano via il metallo. In cambio ci forniscono carne, frutta in scatola, cibo concentrato, macchinari per l’agricoltura e così via.»
Il pranzo era a base di pane e formaggio, e di un ottimo passato di verdure. Dopo il dessert di frutta in scatola, l’unico prodotto importato, la conversazione divenne più amichevole. Il giovane tirò fuori una mappa di Trantor.
Lee Senter la esaminò con attenzione. Ascoltò le richieste. «La zona intorno all’università» disse poi in tono serio «è un’area riservata. Noi agricoltori non coltiviamo quel terreno. Se possibile, evitiamo perfino di entrarci. È una delle poche rovine del passato che vorremmo lasciare intatte.»
«Noi siamo studiosi. Non toccheremo nulla. La nostra astronave rimarrà qui in ostaggio.»
«In questo caso vi accompagneremo personalmente.»
Quella notte, mentre gli stranieri dormivano, Lee Senter inviò un messaggio su Neotrantor.