9

Attraverso la rete

TRANTOR ... A metà del cosiddetto interregno, Trantor era l’ombra di un pianeta. Tra le sue rovine colossali viveva una piccola comunità di agricoltori...

ENCICLOPEDIA GALATTICA

Non c’è niente di paragonabile allo spazioporto della capitale di un popoloso pianeta. Enormi macchine ferme alle rispettive rampe di lancio. Gigantesche forme d’acciaio che s’abbassano dolcemente, altre che si sollevano come se avessero perso improvvisamente il proprio peso. E tutto questo in un silenzio quasi assoluto. La forza propulsiva è data da una sorgente di nuclei deviati in una direzione definita.

Il novantacinque per cento dell’area dello spazioporto è occupato da quei mostri di metallo. Migliaia di chilometri quadrati sono riservati alle apparecchiature e agli uomini addetti ai servizi.

Solo il cinque per cento della superficie è adibita alla marea di umanità che dallo spazioporto si imbarca per tutte le destinazioni della galassia. È poco probabile che qualcuna delle migliaia di persone anonime che popolano gli spazioporti si sia mai fermata a considerare le difficoltà tecniche che richiede il loro funzionamento. Forse qualcuno avrà pensato ai milioni di tonnellate d’acciaio che affondano dolcemente nelle apposite rampe e che in lontananza sembrano piccoli siluri metallici. Uno di quei ciclopici cilindri potrebbe, in teoria, perdere il contatto con il raggio guida, andare a sfracellarsi a mezzo miglio di distanza e sfondare il tetto di glassite dell’immensa sala d’aspetto. In tal caso solo una leggera nuvola di vapori organici e di polvere di fosfati indicherebbe che migliaia di persone hanno cessato di vivere.

Tuttavia, dati i mille dispositivi di sicurezza in funzione, non sarebbe mai potuto succedere: solo un nevrotico avrebbe potuto considerare un’evenienza del genere per più di un istante.

La folla si muoveva, ondeggiava, si allineava ordinatamente. Ognuno aveva una meta precisa.

Nella massa di facce anonime Arcadia si sentiva perduta. Non aveva una meta, era piena di terrore.

Tra le migliaia di persone che la urtavano o la sfioravano forse c’era qualcuno della Seconda Fondazione. Qualcuno che in un attimo avrebbe potuto annientarla perché lei sapeva qualcosa che non era dato a nessuno di conoscere: il nascondiglio della Seconda Fondazione.

Poi una voce la fece sussultare mentre il cuore le balzava in petto.

«Senta, signorina,» disse una voce irritata «se non la usa, si tolga di mezzo.»

Solo allora si rese conto di essere in piedi di fronte alla macchinetta che distribuiva i biglietti. Bisognava introdurre una banconota di grosso taglio nell’apposita fessura, premere il pulsante che indicava la destinazione voluta e un biglietto sarebbe uscito insieme al resto che un dispositivo elettronico calcolava rapidamente senza mai commettere errori. Era un procedimento molto semplice e l’operazione richiedeva soltanto due minuti.

Arcadia mise una banconota da duecento crediti nella fessura e cercò il pulsante sul quale era scritto “Trantor”. La capitale morta di un impero che non esisteva più, il pianeta sul quale era nata. Il biglietto non uscì e si accese invece un quadrante luminoso sul quale a luce intermittente apparvero le cifre 172, 18-172, 18-172, 18.

Era l’importo mancante. Introdusse un’altra banconota da duecento crediti. Spuntò immediatamente il biglietto, mentre dall’apposita fessura usciva il resto.

Afferrò il biglietto e il resto, e fuggì di corsa. Sentì l’uomo dietro di lei che borbottava qualcosa mentre a sua volta infilava i soldi nella macchinetta. Continuò a correre senza voltarsi indietro.

Non sapeva dove fuggire. Tutti le sembravano nemici.

Senza rendersene conto, si ritrovò a guardare un’insegna gigantesca che indicava le piattaforme di partenza: Steffani, Anacreon, Fermus... Indicava persino Terminus: voleva correre in quella direzione ma non osava.

Per pochi crediti avrebbe potuto acquistare un avviso automatico che, regolato per la destinazione voluta, l’avrebbe avvertita quindici minuti prima della partenza. Ma dispositivi del genere servono a persone che sanno dove andare e che non sono in pericolo.

Nel tentativo di guardare simultaneamente in due direzioni, Arcadia piombò addosso a un viaggiatore. L’altro rimase senza fiato e l’afferrò per un braccio. Si dibatté disperatamente cercando di protestare, ma la voce non le usciva dalla gola.

L’uomo che la teneva per il braccio la tirò su e aspettò. Lentamente lei sollevò la testa e guardò l’estraneo in faccia. L’uomo era basso e grassoccio, aveva i capelli folti e bianchi, spazzolati all’indietro con cura e in contrasto con la faccia rotonda e rossa che tradiva le sue origini contadine.

«Che cosa succede?» chiese l’uomo con sincera curiosità. «Sembri spaventata.»

«Mi scusi» balbettò Arcadia. «Devo andare, mi scusi.»

Ma lui non la ascoltò. «Attenta, ragazzina. Hai perso il biglietto.» Lo raccolse e lo esaminò sorridendo compiaciuto.

«Lo immaginavo» disse l’uomo.

Nel tentativo di mettere in ordine un ciuffo di capelli grigi che spuntavano dal cappuccio fuori moda, una donna tonda e rubizza s’avvicinò ai due passandosi un dito sulla fronte.

«Papà,» lo rimproverò «perché gridi così? La gente ti guarda come se fossi impazzito. Pensi di stare ancora alla fattoria?»

Poi sorrise ad Arcadia e aggiunse: «Ha dei modi da orso». Quindi, alzando di nuovo il tono della voce: «Papà, lascia stare il braccio della ragazzina. Che cosa stai facendo?».

Ma lui le mostrò il biglietto. «Guarda, anche lei va su Trantor.»

Il volto dell’anziana signora si illuminò di contentezza. «Sei di Trantor? Papà, lasciale il braccio.» Posò la valigia stracarica e con un gesto gentile ma deciso vi fece sedere sopra Arcadia. «Siediti e riposati un poco. L’astronave parte fra un’ora e le panchine sono piene di gente addormentata. Vieni da Trantor?»

Arcadia tirò un sospiro e cedette. «Sono nata laggiù.»

La signora batté le mani contenta. «È un mese che siamo qui e finora non abbiamo incontrato nessuno di Trantor. Sono felice. E i tuoi genitori?» e si guardò in giro.

«Non sono con i miei genitori» rispose Arcadia prudentemente.

«Tutta sola? Una ragazzina come te?» La signora era indecisa tra l’indignazione e la simpatia. «E come può essere?»

«Mamma,» disse Papà tirandola per la manica «fammi parlare. C’è qualcosa che non va. Pare sia spaventata.» Voleva parlare sottovoce, ma Arcadia sentì ugualmente. «Stava scappando, l’ho osservata, e non guardava dove andava. Prima che mi potessi spostare, mi è piombata addosso. E sai che cosa ti dico? Penso sia nei guai.»

«Chiudi il becco, Papà. È difficile non andare a urtare contro uno stomaco come il tuo.» Si sedette accanto ad Arcadia sulla valigia che gemette sotto il peso. Poi le mise un braccio intorno alle spalle. «Carina, c’è qualcuno che t’insegue? Non aver paura, ti aiuterò.»

Arcadia guardò i capelli grigi della donna e le sue labbra tremarono. Con una parte della mente sentiva che quella era gente di Trantor e che avrebbe potuto fare il viaggio insieme a loro: l’avrebbero aiutata e le sarebbero rimasti vicino fino a quando non fosse riuscita a trovare una soluzione. Un’altra parte della mente diceva, in modo incoerente, che non ricordava sua madre, che aveva una paura tremenda di combattere l’universo da sola, che voleva solamente rifugiarsi fra due braccia amorose, che se sua madre fosse stata ancora in vita, forse...

E per la prima volta, scoppiò in un pianto dirotto: piangeva come una bambina, e ne era contenta; si abbracciava stretta al vestito della donna bagnandolo di lacrime, mentre una mano gentile le accarezzava i capelli.

Papà guardava le due donne perplesso, cercando disperatamente un fazzoletto. Mamma gli prese il fazzoletto di tasca e con un dito sulle labbra gli impose il silenzio. La folla passava accanto alla bambina in lacrime con l’indifferenza propria delle folle anonime. Era proprio come se fossero soli.

Finalmente i singhiozzi cessarono e Arcadia sorrise debolmente, mentre si asciugava gli occhi arrossati con il fazzoletto avuto in prestito. «Scusatemi» mormorò.

«Sst. Non parlare» disse Mamma. «Stai qui seduta e riposati. Prendi fiato. Poi ci dirai quello che ti è successo e cercheremo di aiutarti. Vedrai che andrà tutto bene.»

Arcadia cercò di riordinare le idee. Non poteva dire la verità a quella gente. Non poteva dire la verità a nessuno. Eppure era tanto stanca che non riusciva neanche a inventare bugie.

«Sto meglio adesso.»

«Benissimo» disse Mamma. «Ora dimmi in che guai ti sei cacciata. Scommetto che non hai fatto niente di male e qualunque cosa tu abbia fatto ci siamo noi ad aiutarti. Ma devi dirci la verità.»

«Per un’amica di Trantor,» aggiunse Papà «faremo di tutto, non è vero, Mamma?»

«Chiudi il becco, Papà» replicò la donna.

Arcadia frugò nella borsa. Per fortuna non l’aveva persa nella fretta di cambiarsi in camera di Callia. Trovò quello che cercava e lo consegnò alla signora.

«Questi sono i miei documenti.» Era un tagliando lucido e brillante che le era stato consegnato dall’ambasciatore della Fondazione il giorno del suo arrivo e che era stato contrassegnato dall’ufficio stranieri di Kalgan. Era grande, colorato e imponente. La signora lo guardò senza capire e lo consegnò a Papà che, con espressione assorta, cominciò a esaminarlo.

«Tu sei della Fondazione?»

«Sì, ma sono nata su Trantor. Vedete, è scritto qui...»

«Vedo, vedo. A me sembra regolare. Ti chiami Arcadia, eh? È proprio un buon nome trantoriano. Ma dov’è tuo zio? Qui si dice che sei accompagnata dallo zio Homir Munn.»

«È stato arrestato.»

«Arrestato?» fecero i due contemporaneamente. «E perché?» chiese la signora. «Ha fatto qualche cosa?»

Lei scosse il capo. «Non lo so. Eravamo qui in visita. Lo zio Homir aveva degli affari da sbrigare con Stettin, il signore di Kalgan, ma...».

Non c’era bisogno di fare finta di essere spaventata, lo era sul serio.

Papà era impressionato. «Con Stettin! Ma allora tuo zio dev’essere una persona importante.»

«Non so cosa sia successo, ma Stettin voleva che io rimanessi...» Ricordò le ultime parole di Callia, che l’avevano convinta a fuggire. Se la storia era stata convincente una volta, poteva esserlo pure la seconda.

S’interruppe e Mamma domandò interessata: «Perché proprio te?».

«Non ne sono sicura. Voleva... voleva cenare con me da solo, ma io gli ho detto che avrei voluto portare anche lo zio Homir. Mi guardava in modo strano e mi teneva per le spalle.»

Papà spalancò la bocca, ma Mamma non seppe trattenere la sua indignazione. «Quanti anni hai, Arcadia?»

«Quasi quattordici e mezzo.»

La signora tirò un sospiro. «Certa gente non la si dovrebbe lasciar vivere. I cani di strada sono meglio di loro. E così sei scappata da lui, vero?»

Arcadia annuì.

Mamma si rivolse a Papà: «Vai, corri all’ufficio informazioni e vedi quando parte la prossima astronave per Trantor. Sbrigati!».

Ma Papà fece un passo, poi si fermò. Un altoparlante trasmetteva qualcosa con voce metallica e centinaia di occhi erano rivolti verso l’alto.

«Signore e signori» disse la voce. «Lo spazioporto è circondato e verrà ispezionato alla ricerca di un delinquente pericoloso. Nessuno potrà uscire o entrare. Il controllo sarà effettuato nel più breve tempo possibile; nel frattempo nessuna astronave è autorizzata a partire. Tra pochi istanti calerà la rete. Nessuno si muova prima che la rete si sollevi, altrimenti saremo costretti a servirci delle fruste neuroniche.»

Nel frattempo Arcadia era rimasta immobile, incapace di reagire.

Si riferivano certo a lei, non ne dubitava affatto. Ma perché?

Callia aveva preparato la sua fuga ed era una donna della Seconda Fondazione. Come mai la cercavano? Il piano di Callia era fallito? Come poteva fallire un personaggio del genere? Faceva tutto parte di un piano?

Per un istante ebbe voglia di alzarsi, andarsi a consegnare, farla finita...

Ma Mamma l’aveva già presa per un braccio. «Presto, presto! Andiamo a nasconderci nella toilette prima che comincino.»

Arcadia non riusciva a capire. La seguì ciecamente, e attraversarono in fretta la folla immobile e compatta, mentre la voce continuava a rimbombare.

La rete stava calando e Papà la vide chiudersi a bocca spalancata. Ne aveva sentito parlare, ma non l’aveva mai vista in funzione. Luccicava nell’aria, sembrava un reticolo di raggi luminosi che si incrociassero.

Era progettata in modo da scendere lentamente, come un’enorme griglia.

Era giunta al livello del petto di Papà e lo circondava in un quadrato di cinque metri di lato. Nello spazio di venticinque metri quadri il vecchio si trovava solo, mentre i settori intorno a lui erano pieni di gente. Isolato com’era, aveva l’impressione di attirare l’attenzione ancora di più, ma sapeva che se avesse tentato di spostarsi ed entrare in un quadrato dove s’accalcava più gente, avrebbe dovuto attraversare una delle linee luminose, facendo scattare l’allarme e venendo immediatamente colpito dalla frusta neuronica.

Rimase immobile, in attesa.

In mezzo alla gente che lo circondava vide la schiera di poliziotti che avanzava lentamente, ispezionando quadrato per quadrato.

Passò un po’ di tempo prima che un uomo in uniforme entrasse nel suo quadrato e annotasse diligentemente le sue coordinate su un taccuino.

«Documenti!»

Consegnò le sue carte e l’altro le esaminò velocemente.

«Si chiama Preem Palver, nativo di Trantor, su Kalgan da un mese, sta tornando a Trantor. Risponda sì o no.»

«Sì, sì.»

«Per quali ragioni si trova su Kalgan?»

«Sono rappresentante commerciale di una cooperativa di fattorie. Sono venuto a trattare scambi agricoli con il dipartimento dell’Agricoltura di Kalgan.»

«Sua moglie è venuta con lei? Dov’è ora? È scritto qui sui documenti.»

«La prego, mia moglie si trova in...» e indicò con il dito.

«Hanto» urlò il poliziotto. Un altro uomo in uniforme lo raggiunse.

Il primo disse in tono seccato: «Un’altra signora alla toilette, per la galassia. Dev’essere pieno di signore, quel posto. Scrivi il nome».

«Nessuno con lei?»

«Mia nipote.»

«Non è segnata nei vostri documenti.»

«È venuta sola.»

«Dov’è? Per carità, non fa nulla, lo so già. Scrivi anche questo nome, Hanto. Come si chiama? Scrivi Arcadia Palver. Rimanga qui, Palver. Penseremo noi alle donne prima di andarcene.»

Preem aspettò a lungo, infine vide Mamma che marciava verso di lui insieme ad Arcadia stretta per mano e due poliziotti alle calcagna.

Entrarono nel quadrato di Papà e uno degli agenti chiese: «La donna che fa tanto chiasso è sua moglie?».

«Sì, signore» rispose Papà in tono conciliante.

«Allora l’avverta che rischia di cacciarsi nei guai, se continua a rivolgersi in quel modo alla polizia del primo cittadino.» Drizzò la schiena seccato. «Questa è sua nipote?»

«Sì, signore.»

«Voglio i suoi documenti.»

Mamma guardò in faccia Papà e scosse decisamente la testa in segno di diniego.

Dopo una breve pausa Papà sorrise debolmente. «Non credo di poterle obbedire.»

«Che cosa significa?» Il poliziotto tese la mano. «Me le consegni immediatamente.»

«Godo dell’immunità diplomatica» disse Papà sottovoce.

«Come?»

«Le ho già detto che sono il rappresentante di una cooperativa, accreditato presso il governo di Kalgan in qualità di rappresentante ufficiale straniero e i miei documenti lo provano. Glieli ho mostrati e ora non voglio più essere disturbato.»

Per un momento il poliziotto parve preso alla sprovvista. «Ma io devo vedere i documenti della ragazza. Ho ricevuto un ordine.»

«Va’ via» s’intromise improvvisamente Mamma rivolgendosi a Papà. «Quando avremo bisogno di te, ti mandiamo a chiamare!»

Il poliziotto strinse i denti. «Tienili d’occhio, Hanto. Vado a chiamare il tenente.»

«Che tu possa romperti una gamba!» gli urlò Mamma. Qualcuno scoppiò a ridere, ma smise immediatamente.

Il controllo volgeva alla fine. La folla cominciava a dar segni di nervosismo. Ormai erano passati quarantacinque minuti da quando la rete s’era abbassata, ed era tempo che la risollevassero. Il tenente Dirige avanzò tra la folla ostile.

«È questa la ragazzina?» chiese. La osservò attentamente perché corrispondeva alla descrizione.

«I suoi documenti, per favore» le intimò.

«Ho già spiegato...» intervenne Papà.

«So bene che cosa ha detto e mi dispiace,» disse il tenente «ma gli ordini sono ordini e non posso farci nulla. Se sarà necessario, mi vedrò costretto a usare la forza.»

Ci fu una pausa e il tenente aspettò pazientemente.

«Arcadia, dammi i documenti» disse alla fine Papà.

Arcadia, presa dal panico, scosse il capo, ma Papà la incoraggiò. «Non aver paura. Dalli a me.»

Lei, tremante, prese le carte e gliele consegnò. Papà le aprì, le esaminò per la seconda volta e le passò al tenente che a sua volta le esaminò accuratamente. Alla fine alzò gli occhi per osservare Arcadia, quindi restituì le carte rapidamente.

«Tutto a posto. Andiamo, ragazzi.»

Se ne andò e due minuti dopo la rete si sollevò mentre l’altoparlante avvertiva che tutto ritornava alla normalità. La folla trasse un sospiro di sollievo e riprese a circolare.

«Ma come... come...» disse Arcadia.

Papà le fece segno di stare zitta. «Non dire una parola. Raggiungiamo l’astronave, fra poco saremo nello spazio.»

Salirono sull’astronave. Avevano un appartamentino riservato per loro tre e una tavola separata nella sala da pranzo. Ormai due anni luce li separavano da Kalgan e Arcadia finalmente osò riprendere l’argomento.

«Cercavano me, signor Palver, e di sicuro avevano la mia descrizione con tutti i particolari. Perché mi hanno lasciata andare?»

Papà sorrise guardando la fetta d’arrosto nel suo piatto. «Bambina mia, è stato facile. Quando si ha a che fare con compratori e agenti di ogni sorta, si imparano tanti trucchetti. E sono più di vent’anni che lavoro in questo campo. Vedi, quando il tenente ha aperto i tuoi documenti, in mezzo alle pagine ha trovato una banconota da cinquecento crediti ben piegato. Semplice, non trovi?»

«Le restituirò quei soldi... davvero... ne ho tanti con me, può credermi.»

«Lascia stare» disse Papà sorridendo imbarazzato. «Per una compaesana...»

Arcadia rinunciò. «Ma se avessero preso i soldi e mi avessero arrestata ugualmente? Potevano accusarmi di aver tentato di corromperli.»

«Rinunciando in tal modo ai cinquecento crediti? No, conosco certa gente meglio di te, ragazza mia.»

Ma Arcadia sapeva che non li conosceva fino in fondo. Non quelli che intendeva lei. Nel suo letto, quella sera, ripensò all’accaduto e seppe che nessun genere di corruzione avrebbe potuto impedire al tenente di arrestarla, a meno che tutto non facesse parte di un piano. Non avevano intenzione di portarla via, eppure avevano finto di averle dato la caccia.

Perché? Per essere sicuri che sarebbe partita, e partita per Trantor? Forse anche i due bravi contadini dal cuore generoso facevano parte del complotto.

Certo che ne facevano parte!

Oppure no?

Era tutto inutile. Come avrebbe potuto combatterli? Qualunque cosa tentasse, avrebbe finito solo per obbedire alle mosse che gli onnipotenti la costringevano a fare.

Eppure doveva essere più furba di loro. Doveva riuscirci! Doveva!

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