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TRANTOR ... Raggiunse il massimo sviluppo all’inizio del tredicesimo millennio. Ininterrottamente al centro del governo imperiale per centinaia di generazioni, situato nella regione centrale della galassia fra i pianeti più popolati e progrediti del sistema, era naturalmente destinato a diventare l’agglomerato urbano più abitato e ricco che la razza umana avesse mai visto.
La sua urbanizzazione, con un incremento costante, aveva a un certo punto raggiunto il limite massimo. L’intera superficie del pianeta, settantacinque milioni di miglia quadrate, era un’unica città. La popolazione aveva raggiunto i quaranta miliardi di abitanti.
Quasi tutte queste persone dedicavano il loro tempo alle necessità amministrative dell’impero, e non erano certo troppe per il complicato compito che avevano da svolgere. (Occorre a questo punto ricordare che l’inefficienza amministrativa dell’impero galattico fu un fattore determinante per la sua caduta che avvenne sotto la guida poco illuminata degli ultimi imperatori.) Ogni giorno decine di migliaia di astronavi scaricavano i prodotti di venti pianeti agricoli per le mense dei cittadini di Trantor...
Perché il pianeta dipendeva da altri mondi per il rifornimento di cibo e per tutte le altre necessità della vita quotidiana, era assai vulnerabile alla conquista per assedio. Nell’ultimo millennio dell’impero le continue rivolte resero ben consapevoli gli imperatori di questa debolezza, e la loro politica finì per indirizzarsi quasi esclusivamente alla protezione della delicata vena giugulare di Trantor...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Gaal non riusciva a capire se fosse giorno o notte. E si vergognava a chiederlo. Tutto il pianeta sembrava vivere sotto il metallo. Gli avevano detto che il pasto che aveva appena consumato era il pranzo, ma su molti pianeti si viveva secondo una tabella oraria convenzionale che non teneva conto dell’alternarsi del giorno e della notte. Il tempo di rotazione dei pianeti era diverso e lui non conosceva quello di Trantor.
In un primo momento aveva seguito con entusiasmo la freccia che indicava l’ubicazione della Stanza solare, ma aveva scoperto che si trattava di un ambiente dove venivano diffuse radiazioni artificiali. Indugiò nel locale per un paio di minuti, poi tornò nella hall dell’albergo.
Si rivolse al portiere.
«Dove posso comprare un biglietto per un giro del pianeta?»
«Qui, signore.»
«Quando parte?»
«Ne è appena partito uno. Ce ne sarà un altro domani. Compri ora il biglietto, così le prenoterò un buon posto.»
Domani sarebbe stato troppo tardi. Avrebbe dovuto trovarsi all’università. «C’è una torre d’osservazione o qualcosa del genere? Voglio dire, all’aria aperta.»
«Certo. Le posso vendere il biglietto, se desidera. Ma aspetti che controllo se per caso sta piovendo.» Chiuse un contatto sulla scrivania e lesse le lettere che apparvero sullo schermo. Gaal lesse con lui.
«Tempo ottimo. Adesso che ci penso dovremmo essere nella stagione secca» disse il portiere e poi aggiunse in via del tutto confidenziale: «Non è che ci tenga molto, io, all’esterno. Sono passati tre anni dall’ultima volta che sono andato all’aperto. Dopo che si è osservato il panorama una volta, si sa già tutto e non c’è altro da vedere. Ma ecco il suo biglietto. L’ascensore speciale è sul retro. Vedrà il cartello ALLA TORRE. Salga pure».
L’ascensore era del nuovo tipo funzionante a repulsione di gravità. Gaal entrò e altri lo seguirono; l’addetto chiuse un contatto e per un momento Gaal si sentì sospeso nell’aria mentre la gravità scendeva a zero, poi avvertì tornare il peso a mano a mano che l’ascensore accelerava verso l’alto. Seguì la decelerazione e i suoi piedi si sollevarono dal pavimento. Lanciò involontariamente un grido.
L’addetto all’ascensore lo rimbrottò. «Ficchi i piedi sotto le sbarrette. Non sa leggere le avvertenze?»
Tutti gli altri avevano seguito le istruzioni. E sorrisero di lui che, con gesti convulsi, cercava invano di ritornare al suolo. Le loro scarpe erano premute contro le sbarrette metalliche fissate al suolo a distanza di sessanta centimetri l’una dall’altra. Gaal le aveva notate entrando ma non vi aveva fatto caso.
Poi una mano lo afferrò e lo tirò giù. Gaal stava balbettando un ringraziamento quando l’ascensore si fermò.
Uscirono sulla terrazza inondata dal sole e il riverbero gli fece male agli occhi. L’uomo che l’aveva aiutato a scendere dalla scomoda posizione si trovava proprio dietro di lui. «Ci sono molte panchine» gli disse gentilmente.
Gaal stava ancora ansimando. Quando riuscì a dominare il respiro, ribatté: «Sì, sì, vedo». Si avviò in automatico verso di esse, poi si fermò. «Se non le dispiace, vorrei andare alla ringhiera e dare un’occhiata intorno.»
L’uomo si congedò con un amichevole gesto di saluto. Gaal si affacciò alla ringhiera che gli arrivava alle spalle e si abbandonò alla contemplazione del panorama.
Non riusciva a vedere il suolo. Era invisibile, nascosto dalle complesse strutture create dall’uomo. Fino all’orizzonte non poteva vedere altro all’infuori del metallo che si estendeva in un grigio uniforme contro il cielo. Sapeva che era così su tutta la superficie del pianeta. Non vedeva alcun segno di movimento – solo pochi aerei privati giravano pigramente nel cielo –, ma sapeva che sotto quello strato metallico fremeva ininterrotto il traffico intenso di miliardi di uomini.
Non c’erano zone verdi; né piante, né terreno, né altra forma di vita all’infuori di quella umana. Da qualche parte, pensò Gaal, sorgeva il palazzo imperiale, costruito in mezzo a un centinaio di chilometri quadrati di terreno libero, con alberi, erba e fiori. Era una piccola isola in mezzo a un oceano di metallo, ma non era visibile dal suo posto di osservazione. Avrebbe potuto essere a diecimila chilometri di distanza, per quel che ne sapeva.
Doveva fare al più presto un giro intorno al pianeta!
Emise un sospiro. Si era reso conto di essere finalmente su Trantor, il pianeta che era il centro di tutta la galassia, il perno vitale della razza umana. Non ne vide le debolezze. Non vide le astronavi da trasporto atterrare. Non capiva quanto fragile fosse la vena giugulare che collegava i quaranta miliardi di trantoriani con il resto della galassia. Era conscio solamente del maestoso obiettivo raggiunto dall’uomo: la completa e assoluta conquista finale di un mondo.
Si allontanò con gli occhi quasi abbagliati. L’amico dell’ascensore gli stava indicando un sedile accanto al suo e Gaal si accomodò.
L’uomo sorrise. «Mi chiamo Jerril. È la prima volta che viene su questo pianeta?»
«Sì, signor Jerril.»
«L’avevo immaginato. Ma mi chiami Jerril. Trantor è certo affascinante per uno che abbia sensibilità poetica. I trantoriani non salgono mai quassù. A loro non piace, diventano nervosi.»
«Nervosi? A proposito, io mi chiamo Gaal. Perché dovrebbero sentirsi nervosi uscendo all’aperto? È magnifico quassù.»
«È un’opinione del tutto soggettiva, Gaal. Se uno è nato in un cubicolo, è cresciuto in un corridoio, lavora in una cella e va in vacanza in una stanza affollata, sotto un sole artificiale, è comprensibile che gli venga un esaurimento nervoso quando sale quassù dove non c’è altro che il cielo. Mandano qui i bambini una volta all’anno, dopo che hanno compiuto i cinque anni. Non so se questo faccia loro bene. Non hanno il tempo di abituarsi; le prime volte urlano in maniera isterica. Dovrebbero cominciare appena nati e tornarci una volta alla settimana.»
Dopo un attimo di pausa riprese. «Certo questo non ha molta importanza. Che cosa perderebbero se non salissero mai in superficie? Sono felici là sotto e mandano avanti l’impero. Quanto crede sia alta questa torre?»
«Ottocento metri?» rispose Gaal pensando di aver esagerato. Doveva essere proprio così, perché Jerril lo guardò sorpreso.
«No, no, è alta appena centocinquanta metri.»
«Cosa? Ma l’ascensore ha impiegato quasi...»
«Lo so. C’è voluto molto tempo per arrivare al livello del suolo. Trantor arriva fino a quasi due chilometri sottoterra. È come un iceberg. Nove decimi sono sotto la superficie. Si estende persino per alcuni chilometri sotto il suolo suboceanico, lungo le coste. Abbiamo scavato così tanto in profondità che siamo riusciti a sfruttare la differenza di temperatura che esiste fra i vari livelli sotterranei per ricavare tutta l’energia di cui abbiamo bisogno. Lo sapeva?»
«No, credevo che vi serviste di generatori atomici.»
«Una volta. Ma questo sistema è molto più economico.»
«Lo credo.»
«Che ne pensa di tutto ciò?» Per un momento il volto amichevole dell’uomo sembrò cambiare espressione. Divenne più attento, quasi furbesco.
Gaal esitò. «È meraviglioso» disse infine.
«È qui in vacanza? In viaggio di piacere? O per affari?»
«Non esattamente. Ho sempre desiderato venire in vacanza su Trantor, ma sono qui per ragioni di lavoro.»
«Davvero?»
Gaal si sentì obbligato a dare ulteriori spiegazioni.
«Per il Piano del dottor Seldon, all’Università di Trantor.»
«Cassandra Seldon?»
«No, mi riferisco a Hari Seldon, lo psicostorico Seldon. Non conosco nessuno che si chiami Cassandra Seldon.»
«È proprio a lui che mi riferivo, a Hari. Tutti lo chiamano Cassandra. È il suo soprannome, perché predice sempre gravi sciagure.»
«Davvero?» Gaal era molto sorpreso.
«Certo, dovrebbe saperlo.» Jerril non sorrideva più. «E così, è venuto qui a lavorare con lui?»
«Sì, sono un matematico. Perché predice sciagure? Di che genere?»
«Quali sciagure crede predichi?»
«Non ne ho la minima idea. Ho letto le riviste che il dottor Seldon ha pubblicato insieme ai suoi collaboratori. Trattano soltanto di teorie matematiche.»
«Sì, sono queste le cose che pubblica...»
Gaal stava cominciando a seccarsi. «Penso che ritornerò in camera, ora. Lieto di averla conosciuta.»
Jerril lo salutò agitando la mano con indifferenza.
Gaal trovò un uomo che lo aspettava nella sua stanza. Fu sul punto di chiedergli che cosa ci facesse, ma era troppo sorpreso per riuscire a parlare.
L’uomo si alzò. Era vecchio, quasi completamente calvo e zoppicava leggermente, ma i suoi occhi erano limpidi e azzurri.
«Sono Hari Seldon» disse, un istante prima che nella mente di Gaal quel volto si associasse alle molte fotografie che aveva visto.