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Al noleggio di aerotaxi Seldon cercò di non dare nell’occhio e constatò che non era facile. Sottrarsi in modo eccessivo all’attenzione altrui (cioè muoversi furtivamente, distogliere lo sguardo da quelli che passavano, studiare uno dei veicoli con troppa insistenza) era sicuramente il sistema migliore per attirarla. Per non farsi notare bisognava semplicemente assumere un’aria di normalità.
Ma cos’era la normalità? Seldon si sentiva a disagio in quegli abiti. Non c’erano tasche, quindi non sapeva dove infilare le mani. Le due borse che penzolavano sui fianchi dalla cintura lo infastidivano, sbattendogli contro quando si muoveva, e lui aveva continuamente l’impressione che qualcuno gli avesse dato un colpetto.
Provò a guardare le donne che passavano. Non avevano borse appese al corpo, ma portavano delle specie di piccole scatole che di tanto in tanto fissavano a un’anca mediante un congegno che Seldon non riusciva a vedere. Pseudomagnetico, probabilmente. Gli abiti delle donne non erano particolarmente rivelatori, si rammaricò Seldon; le scollature erano inesistenti, anche se alcuni vestiti sembravano tagliati in maniera tale da far risaltare le natiche.
Hummin, che intanto non aveva perso tempo e aveva sborsato i crediti necessari, tornò con la tessera di ceramica superconduttiva che avrebbe attivato un particolare aerotaxi.
«Salga, Seldon» disse indicando un piccolo veicolo biposto.
«Ha dovuto firmare, Hummin?»
«Certo che no. Qui mi conoscono e non badano alle questioni burocratiche.»
«Cosa pensano che stia facendo?»
«Non me l’hanno chiesto e io non ho dato spiegazioni.» Hummin inserì la tessera e Seldon avvertì una lieve vibrazione mentre l’aerotaxi si accendeva.
«Siamo diretti a D-7» disse Hummin riprendendo la conversazione.
Seldon non sapeva cosa fosse D-7, ma immaginò che indicasse un percorso o una rotta.
L’aerotaxi si mosse e aggirò altri veicoli, infine si portò su una pista inclinata e accelerò, staccandosi dal suolo con un leggero sussulto.
Seldon, che era stato bloccato automaticamente da un’imbracatura, avvertì una spinta indietro verso il sedile, quindi si sentì proiettare in avanti contro l’imbracatura.
«Questa non sembrava antigravità» commentò Seldon.
«Non lo era, infatti. Propulsione a reazione. Una piccola spinta, sufficiente a farci raggiungere i condotti.»
Di fronte a loro si stagliava una specie di scogliera costellata di bocche di caverne che ricordava una scacchiera. Hummin manovrò verso l’apertura D-7, evitando altri aerotaxi che puntavano su altri tunnel.
«Potrebbe scontrarsi facilmente» disse Seldon schiarendosi la voce.
«Probabilmente sì, se tutto dipendesse dai miei sensi e dalle mie reazioni. Ma il taxi è computerizzato e il computer può intervenire senza problemi, escludendo il pilota. Lo stesso vale per gli altri taxi. Ecco, ci siamo.»
Scivolarono in D-7 come se fossero stati risucchiati e la luce vivida dello spiazzo esterno si attenuò, assumendo una sfumatura gialla più calda.
Hummin lasciò i comandi e si rilassò sul sedile. Respirò a fondo, poi disse: «Bene, la prima fase si è conclusa con esito positivo. Avrebbero potuto fermarci al terminal dei taxi. Qui dentro, siamo abbastanza al sicuro».
Le pareti del tunnel scorrevano rapide e non si avvertivano scosse. Il silenzio era quasi assoluto; si udiva solo il ronzio sommesso e regolare del taxi.
«A che velocità stiamo andando?» chiese Seldon.
Hummin diede un’occhiata ai comandi. «Trecentocinquanta chilometri orari.»
«Propulsione magnetica?»
«Sì. L’avrete anche su Helicon, immagino.»
«Sì, una linea. Io non ci sono mai stato, anche se è una vita che ho intenzione di farci un viaggetto. Comunque, non credo proprio che sia all’altezza di questa.»
«Sicuramente no. Attraverso il sottosuolo Trantor ha migliaia di chilometri di tunnel simili. Alcuni penetrano sotto i tratti oceanici meno profondi: è il sistema di trasporto principale per i lunghi viaggi.»
«Quanto impiegheremo?»
«Per arrivare a destinazione? Poco più di cinque ore.»
«Cinque ore!» esclamò Seldon sgomento.
«Non si allarmi. Ogni venti minuti circa incroceremo un’area di sosta. Potremo fermarci, uscire dal tunnel, sgranchirci le gambe, mangiare o soddisfare i bisogni fisiologici. Naturalmente, vorrei limitare al massimo il numero delle soste.»
Continuarono in silenzio per un tratto, poi Seldon ebbe un sussulto: a destra un chiarore improvviso sfolgorò per pochi secondi e nel guizzo luminoso Seldon ebbe l’impressione di scorgere due aerotaxi.
«Era un’area di sosta» disse Hummin rispondendo alla tacita domanda del compagno.
«Sarò davvero al sicuro dove mi sta portando?»
«Sarà al sicuro da qualsiasi mossa palese delle forze imperiali. Naturalmente, bisogna sempre stare attenti all’intervento della singola spia, agente o sicario pagato per uccidere. Ma le fornirò una guardia del corpo.»
Seldon si agitò. «Sicario pagato per uccidere? Pensa sul serio che vogliano ammazzarmi?»
«Demerzel no di certo. Secondo me vuole servirsi di lei, non eliminarla. Ma potrebbero saltar fuori altri nemici o potrebbe verificarsi una serie di avvenimenti sfortunati. Non si può vivere come sonnambuli.»
Seldon scosse il capo e si girò dall’altra parte. Quarantotto ore prima era stato solo un matematico straniero, insignificante, praticamente sconosciuto, che si accontentava di trascorrere le sue ultime ore a Trantor ammirando con occhio provinciale quel mondo enorme e maestoso. Ora che era entrato finalmente nella situazione, le forze imperiali gli davano la caccia ed era un ricercato. Di fronte a tale assurdità, rabbrividì.
«E lei e la sua iniziativa?»
Hummin rispose pensieroso: «Immagino che non avranno un atteggiamento amichevole nei miei confronti. Qualche aggressore misterioso, e destinato a rimanere per sempre tale, potrebbe spaccarmi la testa o spappolarmi il torace con una scarica».
Lo disse senza alcun tremito nella voce, l’espressione calma come sempre.
Ma Seldon sussultò. «Sicuramente sapeva fin dall’inizio di rischiare grosso. Non sembra preoccupato.»
«Sono un trantoriano di una certa esperienza. Conosco bene il pianeta. Conosco molte persone e molti mi devono dei favori. Mi considero un tipo scaltro, difficile da battere. In parole povere, Seldon, sono sicuro di poter badare a me stesso.»
«Sono contento che provi tanta sicurezza e spero sia giustificata, ma non riesco proprio a capire perché lo faccia. Chi sono io per lei? Perché correre dei rischi per un estraneo?»
Hummin controllò un attimo i comandi, poi si voltò verso Seldon, lo sguardo fermo e serio.
«Voglio salvarla per lo stesso motivo per cui l’imperatore vuole servirsi di lei: le sue capacità precognitive.»
Seldon si sentì profondamente deluso. In fin dei conti, la sua salvezza c’entrava ben poco. Era solo una preda indifesa, contesa da predatori avversari. Disse rabbioso: «Non riuscirò più a togliermi il marchio della mia relazione al Convegno decennale. Mi sono rovinato l’esistenza».
«No, niente conclusioni avventate, professore. L’imperatore e i suoi funzionari la vogliono per un’unica ragione: rendere le loro vite più sicure e tranquille. Le sue capacità interessano soltanto perché potrebbero essere sfruttate per salvare l’autorità imperiale e trasmetterla al suo erede, oltre a conservare privilegi e poteri dei vari dignitari. A me, invece, le sue capacità interessano per il bene della galassia.»
«C’è differenza?» fece Seldon sarcastico.
Accennando un’espressione corrucciata, Hummin ribatté: «Se non vede la differenza, dovrebbe vergognarsi. Gli esseri umani abitavano la galassia prima di questo imperatore, prima della dinastia che lui rappresenta, prima dell’impero stesso. L’umanità è molto più vecchia dell’impero. Forse è molto più antica dei venticinque milioni di mondi della galassia. Ci sono leggende che parlano di un’epoca in cui l’umanità abitava un solo pianeta».
«Leggende!» sbottò Seldon facendo spallucce.
«Sì, ma non vedo perché non dovrebbero riferirsi a un fatto vero, trattandosi di oltre ventimila anni fa. L’umanità non è venuta al mondo già corredata delle conoscenze necessarie a realizzare i viaggi iperspaziali. Deve esserci stata un’epoca in cui l’uomo non poteva viaggiare a velocità ultraluce ed era confinato in un unico sistema planetario. E se guardiamo avanti nel tempo, gli esseri umani dei mondi della galassia certamente continueranno a esistere dopo che lei e l’imperatore sarete morti, dopo che la stirpe imperiale sarà terminata, quando le istituzioni dell’impero stesso si saranno disgregate. Quindi non è importante preoccuparsi troppo degli individui, siano essi l’imperatore o il giovane principe imperiale, né dei meccanismi del governo. E i miliardi di persone che esistono nella galassia?»
«I mondi e le persone continueranno, presumo.»
«Non sente il bisogno impellente di esaminare ed esplorare le circostanze possibili in cui continueranno a esistere?»
«Si può supporre che continueranno a esistere più o meno come ora.»
«Si può supporre. Ma non sarebbe possibile saperlo con la tecnica precognitiva di cui parla?»
«Io la chiamo psicostoria. Sì, in teoria si potrebbe.»
«E non avverte l’esigenza di tradurre questa teoria in pratica?»
«Mi piacerebbe, Hummin, ma dal desiderio non nasce automaticamente la capacità. Ho detto all’imperatore che è impossibile trasformare la psicostoria in una tecnica pratica e sono costretto a dirlo anche a lei.»
«Non ha intenzione di provare almeno a trovarla, questa tecnica?»
«No, assolutamente. Come non proverei a prendere un mucchio di sassi grande quanto Trantor, a contarli uno a uno e a disporli in ordine decrescente secondo la massa. Saprei di non poter completare l’impresa nemmeno impiegando un’intera vita, e non sarei tanto sciocco da averne la pretesa.»
«Ci proverebbe, se conoscesse la verità sulla situazione dell’umanità?»
«È una domanda assurda: qual è la verità sulla situazione dell’umanità? Sostiene per caso di conoscerla?»
«Sì, posso riassumerla in cinque parole.» Hummin tornò a guardare di fronte a sé, voltandosi per alcuni secondi verso il tunnel immutabile che correva verso di loro, espandendosi e rimpicciolendosi nello scivolare via. Infine, con l’aria torva, pronunciò le cinque parole.
«L’impero galattico sta morendo.»