15

Trevize ammirò l’interno dell’astronave. Lo spazio era stato utilizzato ingegnosamente. C’era una dispensa dove erano accumulati provviste di cibo, abiti, contenitori di film e giochi. Poi c’erano una palestra, un salottino e due camere da letto quasi identiche.

«Questa dev’essere la sua, professore» disse Trevize. «Lo deduco almeno dal fatto che contiene un lettore FX.»

«Bene» disse Pelorat, soddisfatto. «Che stupido sono stato a evitare finora il volo spaziale. Sento di poter vivere molto tranquillamente qui, caro Trevize.»

«È più spaziosa di quanto pensassi» disse Trevize, compiaciuto.

«E i motori sono proprio nella carena, come ha detto?»

«Per lo meno, i congegni di controllo lo sono. Non abbiamo bisogno di immagazzinare combustibile da utilizzare nel corso del viaggio. Sfruttiamo la naturale riserva di energia dell’universo, sicché il combustibile e i motori sono tutti là» e fece un gesto vago.

«Ma, ora che ci penso, se si verifica qualche guasto?»

Trevize alzò le spalle. «So navigare nello spazio, ma non ho mai provato a viaggiare su questo tipo di astronave. Se si verifica un guasto ai congegni gravitazionali, temo di non poterci fare niente.»

«Ma sa come funziona? Sa pilotarla?»

«Me lo chiedo io stesso.»

«Pensa che sia automatizzata? Forse siamo soltanto dei passeggeri e il nostro compito consiste nello stare qui seduti senza toccare un bottone.»

«A volte sono così i traghetti che collegano i pianeti con le stazioni spaziali del medesimo sistema solare, ma non ho mai sentito parlare di viaggio iperspaziale automatizzato. Almeno fino a ora.»

Si guardò intorno di nuovo, con un filo di apprensione. Che quella vecchiaccia della Branno fosse riuscita a tenere nascosta la cosa a lui e ad altri come lui? Forse la Fondazione aveva sul serio messo a punto il volo interstellare automatizzato, e lui sarebbe stato depositato su Trantor contro la propria volontà e non avrebbe avuto modo di dire nulla, non più di quanto potessero farlo i mobili di bordo?

Disse con una vivacità che non sentiva: «Si sieda, professore. Il sindaco ha detto che questa astronave è completamente computerizzata. Se nella sua stanza c’è un lettore FX, nella mia dovrà esserci un computer. Si metta comodo e lasci che dia un’occhiata in giro da solo».

Pelorat divenne di colpo ansioso. «Trevize, amico mio, non avrà mica intenzione di scendere dall’astronave, vero?»

«Non ci penso neanche lontanamente, professore. E se poi tentassi di farlo, stia certo che qualcuno mi fermerebbe. Il sindaco non ha alcuna intenzione di farmi scendere. Voglio soltanto sapere come si pilota la Stella lontana.» Sorrise. «Non la abbandonerò, professore.»

Stava ancora sorridendo quando entrò in quella che aveva giudicato la sua camera da letto, ma appena richiuse la porta alle proprie spalle assunse un’espressione seria. Doveva esserci per forza il mezzo di comunicare con l’eventuale pianeta che si fosse trovato nelle vicinanze dell’astronave. Non si poteva nemmeno pensare a un’astronave tagliata fuori deliberatamente da ciò che la circondava; perciò da qualche parte, magari in una nicchia collocata in una parete, doveva esserci un contattore. Trevize avrebbe potuto usarlo per chiamare l’ufficio del sindaco e chiedere dove fossero i comandi.

Esaminò con cura le pareti, la testiera del letto e i mobili dalle linee semplici e pulite. Se non fosse riuscito a trovare niente lì, avrebbe ispezionato il resto dell’astronave.

Stava per andarsene, quando notò uno scintillio sulla superficie liscia, color marrone chiaro, della scrivania. Era un tondo luminoso, con lettere ben distinguibili che dicevano: “Istruzioni computer”.

Ah!

Il cuore però gli batté forte lo stesso. C’erano computer e computer, e c’erano programmi che si imparava a conoscere a fondo solo dopo molto tempo. Trevize non aveva mai commesso l’errore di sottovalutare la propria intelligenza, ma d’altro canto sapeva di non essere un gran maestro in materia. Alcune persone erano nate per usare il computer, altre invece non erano molto portate per quel genere di cose. E Trevize era perfettamente conscio di rientrare nella seconda categoria.

Nel periodo in cui aveva prestato servizio nella Marina della Fondazione, aveva raggiunto il grado di tenente, e ogni tanto gli era capitato di essere l’ufficiale di giornata e di doversi servire del computer dell’astronave. Non gli era mai successo però di essere l’unico responsabile del computer, e d’altra parte nessuno aveva mai preteso da lui che sapesse qualcosa di più delle operazioni di routine richieste agli ufficiali di giornata.

Con un senso di scoraggiamento ricordò i volumi che corrispondevano ai tabulati di un programma descritto dettagliatamente e ripensò al sergente tecnico Krasnet seduto alla consolle del computer dell’astronave. Pareva davanti allo strumento musicale più complesso della galassia, però lo utilizzava con tranquilla noncuranza, come se la sua semplicità lo annoiasse. Tuttavia perfino lui a volte era stato costretto a consultare i volumi, imprecando fra sé per l’imbarazzo.

Esitante, Trevize piazzò un dito sul cerchio luminoso, e subito la luce si diffuse su tutta la superficie del tavolo. Sopra di essa erano disegnati i contorni di due mani, destra e sinistra. Con un movimento repentino ma dolce, la scrivania s’inclinò, formando un angolo di quarantacinque gradi.

Trevize si sedette davanti al tavolo. Non erano necessarie parole. Era chiaro che cosa si voleva da lui.

Fece combaciare le mani con lo schema sulla scrivania, collocato in modo da non fargli compiere alcuno sforzo. La superficie del tavolo era morbida, quasi vellutata, e, quando lui la toccò, le sue mani sprofondarono un poco.

Trevize le guardò stupefatto, perché nonostante i sensi gli dicessero che erano sprofondate in un materiale tiepido e cedevole, gli occhi gli mostravano che non era vero, che la scrivania era esattamente come prima.

E adesso che cosa sarebbe successo? Era tutta lì la storia?

Si guardò intorno, poi chiuse gli occhi, come in risposta a un suggerimento.

Con le orecchie non sentì niente. Non udì niente. Tuttavia nel suo cervello si formò un pensiero. Un pensiero che sembrava essersi trovato li per caso ed essere nato però nella sua stessa mente. “Chiudete gli occhi, per favore. Rilassatevi. Ora ci colleghiamo.”

Attraverso le mani?

Per qualche motivo Trevize aveva sempre pensato che se si fosse dovuto comunicare mentalmente con un computer, ciò sarebbe avvenuto tramite una cuffia, con elettrodi collegati agli occhi e al cranio.

Le mani?

E perché non le mani? Si sentì fluttuare lontano e avvertì una certa sonnolenza, ma non perse minimamente la sua lucidità mentale. Perché non le mani?

Gli occhi erano solo organi di senso. Il cervello era unicamente il quadro di comando centrale, racchiuso nel cranio e lontano dalla superficie operativa del corpo. La superficie operativa era rappresentata dalle mani: erano le mani che tastavano e manipolavano l’universo.

Gli esseri umani pensavano con le mani. Erano le mani la risposta alla curiosità intellettuale, erano le mani a toccare, stringere, rivoltare, alzare, sollevare. Alcuni animali che avevano un cervello piuttosto grande erano però privi di mani. E la differenza era importante, molto importante.

Così, mentre Trevize faceva combaciare le proprie mani con quelle del computer, la mente umana e la mente elettronica si trovarono in contatto, e il fatto che lui tenesse o meno gli occhi aperti non ebbe più alcuna importanza. Se li teneva aperti la sua visione delle cose non migliorava, né peggiorava se li chiudeva.

In entrambi i casi vedeva la stanza con estrema chiarezza, e non solo la parte verso la quale era rivolto, ma tutto quanto, la parete alle sue spalle, quelle ai lati, il soffitto.

Poi vide le altre stanze dell’astronave e anche il paesaggio fuori. Il sole si era levato, ma la sua luce era lievemente offuscata dalla nebbia mattutina. Riusciva a guardarlo direttamente senza venirne abbagliato, perché il computer automaticamente filtrava le onde di luce.

Sentì la lieve brezza, la temperatura, i suoni del mondo intorno all’astronave. Individuò il campo magnetico del pianeta e percepì le minuscole cariche elettriche sulle pareti dell’astronave.

Si rese conto di dove e come fossero i comandi senza bisogno di averli presenti alla mente in modo dettagliato. Capì semplicemente che, se voleva far decollare l’astronave, o se voleva accelerare, virare, servirsi di uno qualsiasi dei suoi congegni operativi, doveva usare soltanto la volontà, come se avesse dovuto dare un ordine al proprio corpo.

Tuttavia la sua volontà non era del tutto indipendente: il computer era in grado di dominarla. Al momento, per esempio, si era formata una frase precisa nella mente di Trevize, una frase che gli permetteva di sapere esattamente quando e come l’astronave sarebbe decollata. Riguardo a quel fatto, lui non aveva voce in capitolo. In seguito, invece, sarebbe stato normalmente in grado di decidere, in piena autonomia.

Mentre proiettava fuori la sua coscienza accresciuta dal computer, Trevize si accorse di poter percepire la parte superiore dell’atmosfera, di poter osservare l’andamento del clima, di poter scorgere le altre astronavi, fra le quali alcune erano in partenza e altre in arrivo. Di tutti questi elementi bisognava tenere conto e il computer appunto ne stava tenendo conto. Se non l’avesse fatto, a quel punto sarebbe toccato a Trevize ordinargli di farlo, e la macchina avrebbe obbedito.

I volumi che il sergente Krasnet era stato costretto in passato a consultare non c’erano più: erano divenuti superflui. Trevize sorrise. Aveva letto più di una volta che i motori gravitazionali erano destinati a produrre cambiamenti davvero rivoluzionari, ma la fusione di computer e mente umana era ancora un segreto di stato e avrebbe prodotto di sicuro cambiamenti ancora più notevoli.

Era conscio del tempo che passava. Sapeva con esattezza l’ora locale di Terminus e l’ora galattica standard.

Come mai aveva lasciato andare le mani?, si chiese d’un tratto, e si rese conto di aver agito dietro il consueto suggerimento mentale. La scrivania tornò nella posizione originaria e lui si ritrovò il Trevize di prima, con i sensi di una persona normale.

Si sentì cieco, indifeso, come se per un determinato periodo di tempo fosse stato accudito e protetto da un superessere che adesso lo aveva abbandonato. Se non fosse stato per la consapevolezza di poter riprendere quel contatto in qualsiasi momento, avrebbe potuto mettersi a piangere per la tristezza.

Così invece si limitò a cercare di riadattarsi alle solite restrizioni. Si orientò con una certa fatica, poi si alzò traballando e uscì dalla stanza.

Pelorat alzò gli occhi. Naturalmente aveva già regolato il suo lettore e disse: «Funziona benissimo. Ha un programma di ricerca eccellente. Ha trovato i comandi, ragazzo mio?».

«Sì, professore. È tutto a posto.»

«In tal caso, non dovremmo fare qualcosa per il decollo? Voglio dire, prendere precauzioni per non subire danni? Non bisogna mettersi cinture di sicurezza o roba del genere? Mi sono guardato in giro alla ricerca di eventuali istruzioni, ma non ho trovato niente, e questo mi ha reso piuttosto nervoso. Mi sono dovuto concentrare sulla mia biblioteca. Quando sono al lavoro in un modo o nell’altro riesco a...»

Trevize posò una mano sulla spalla del professore, come per arginare o fermare il diluvio di parole, poi disse forte, per superare il suono della voce dell’altro: «Non è necessaria alcuna precauzione, professore. L’antigravità è l’equivalente della non-inerzia. Quando la velocità cambia non si avverte alcun senso di accelerazione, dal momento che tutto quanto, sull’astronave, è sottoposto simultaneamente al cambiamento».

«Vuol dire che quando ci allontaneremo dal pianeta e voleremo nello spazio non ce ne renderemo nemmeno conto?»

«Proprio così. Anzi, mentre noi stavamo parlando, l’astronave è decollata. Fra qualche minuto attraverseremo la parte superiore dell’atmosfera ed entro mezz’ora saremo nello spazio.»

Fondazione. Il ciclo completo
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