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Seldon aveva avuto una sera, una notte e parte della mattina per riprendersi dall’incontro con l’imperatore. Almeno, sembrava che fossero trascorse una sera, una notte e parte della mattina, stando a come era cambiata la luce nei viali, nei corridoi mobili, nei parchi e nelle piazze del settore imperiale di Trantor.
Ora sedeva in un piccolo parco, su un comodo sedile di plastica che si era automodellato perfettamente al suo corpo. A giudicare dalla luce, doveva essere metà mattina e l’aria era fresca al punto giusto, piacevole senza essere minimamente pungente.
Era sempre così? Seldon pensò alla giornata grigia vista all’esterno quando si era recato dall’imperatore. Pensò a tutti i giorni grigi, a tutti i giorni freddi e caldi, piovosi e nevosi su Helicon, il suo mondo, e si chiese se fosse possibile sentirne la mancanza. Era possibile sedere in un parco di Trantor, dove le condizioni climatiche erano sempre ideali (e dove si aveva l’impressione di non avere intorno a sé proprio nulla), e arrivare a sentire la mancanza di un vento sferzante, di un freddo pungente o di un’umidità soffocante?
Chissà. Ma non il primo giorno, né il secondo né il settimo. Seldon aveva solo quel giorno, l’indomani sarebbe partito. Intendeva goderselo fino in fondo. Forse non sarebbe più tornato su Trantor.
Eppure, continuava a sentirsi inquieto per aver parlato con tanta libertà a un uomo che, volendo, avrebbe potuto ordinare la sua incarcerazione e la sua condanna a morte o distruggerlo economicamente e socialmente, privandolo della sua posizione.
Prima di andare a letto, Seldon aveva cercato qualche notizia su Cleon I nella parte enciclopedica del computer dell’albergo. Le lodi per l’imperatore si sprecavano e questo senza dubbio valeva per tutti i sovrani finché rimanevano in vita, indipendentemente dai meriti effettivi. Seldon aveva lasciato perdere la cosa, mentre aveva appreso con interesse che Cleon era nato nel palazzo e non si era mai allontanato da quell’area. Non era mai stato a Trantor città, non aveva mai messo piede in nessuna parte di quel mondo dalle innumerevoli cupole. Una questione di sicurezza, forse, ma in pratica significava che era un uomo in prigione, che l’ammettesse o no. La prigione più lussuosa della galassia, ma questo non cambiava le cose.
E anche se Cleon gli era parso un tipo abbastanza mite, diverso dai tanti autocrati crudeli che lo avevano preceduto, per Seldon non era stato un bene l’aver attirato l’attenzione del sovrano. Era contento di partire l’indomani per Helicon, anche se a casa avrebbe trovato l’inverno (e un inverno piuttosto rigido, finora).
Sollevò lo sguardo nella luce diffusa. Per quanto lì dentro non potesse piovere, l’aria era tutt’altro che secca. A breve distanza gorgogliava una fontana; le piante erano verdi e probabilmente non avevano mai sofferto la siccità. Di tanto in tanto gli arbusti frusciavano, come se qualche piccolo animale si fosse nascosto tra la vegetazione. Si udiva il ronzio delle api.
Sì, anche se Trantor veniva descritto in tutta la galassia come un mondo artificiale di metallo e ceramica, in quel minuscolo tratto si respirava un’atmosfera decisamente campagnola.
Alcune persone erano intente a godersi la quiete del parco, e portavano tutte dei cappelli leggeri, in alcuni casi di piccole dimensioni. Non molto lontano c’era una giovane piuttosto graziosa, ma era china su un visore e Seldon non riusciva a vederla bene in viso. Un uomo gli passò davanti, gli lanciò una breve occhiata priva di qualsiasi curiosità, quindi prese posto in un sedile di fronte a lui, concentrandosi su un fascio di telestampati e accavallando le gambe fasciate da un paio di calzoni rosa attillati.
Strano, mentre fra gli uomini prevalevano le tinte pastello, la maggior parte delle donne indossava abiti bianchi. Trattandosi di un ambiente pulito, era logico portare colori chiari. Seldon osservò divertito i propri vestiti heliconiani, che viravano al marrone opaco. Se fosse rimasto su Trantor avrebbe dovuto acquistare un abbigliamento adatto, altrimenti prima o poi l’avrebbero guardato con curiosità, ilarità o ripugnanza. Per esempio l’uomo col fascio di telestampati l’aveva fissato incuriosito, colpito senza dubbio dai suoi abiti poco familiari.
Per fortuna non rise. Se gli altri lo consideravano buffo, Seldon poteva prendere la cosa con filosofia, ma di sicuro non ci si poteva aspettare che lo trovasse divertente.
Osservò lo sconosciuto con discrezione, perché gli sembrava impegnato in una sorta di disputa interiore. L’uomo parve sul punto di parlare, poi cambiò idea e dopo un po’ diede l’impressione di voler ancora parlare.
Chissà come sarebbe andata a finire, si chiese Seldon osservandolo. Alto, spalle ampie e senza il minimo accenno di pancia, capelli scuri dai riflessi biondi, ben rasato e con un’espressione seria, dava tutta l’aria di forza pur non essendo un fascio di muscoli. I lineamenti erano un po’ duri, irregolari: gradevoli senza potersi definire belli.
Quando l’uomo perse (o forse vinse) il suo conflitto interiore e si sporse in avanti, Seldon aveva ormai deciso che quel tipo gli piaceva.
«Scusi, non era al Convegno decennale dei matematici?» chiese l’uomo.
«Sì, c’ero» rispose Seldon affabile.
«Ah, mi sembrava di averla vista. Proprio per questo, voglia scusarmi, mi sono seduto qui. Se disturbo...»
«Niente affatto, stavo solo oziando tranquillamente.»
«Vediamo se indovino. Lei è il professor Seldom.»
«Seldon, Hari Seldon. Sbagliato di pochissimo, e lei?»
«Chetter Hummin.» L’uomo parve un po’ imbarazzato. «Un nome non molto esotico, temo.»
«Mai incontrato un “Chetter” prima d’ora. E nemmeno un “Hummin”, quindi mi pare che lei possa considerarsi un tipo unico. Sì, meglio che essere uno dei tanti “Hari” o dei numerosissimi “Seldon” che esistono.»
Seldon si avvicinò con la sedia a Hummin, facendola strisciare sulle mattonelle di ceramoide leggermente elastiche.
«A proposito di cose esotiche» disse Seldon. «Cosa pensa degli abiti stranieri che indosso? Non ho pensato che mi sarei dovuto procurare dei vestiti trantoriani.»
«Potrebbe acquistare qualche indumento» disse Hummin fissando Seldon e reprimendo un’occhiata di disapprovazione.
«Parto domani e, inoltre, non potrei permettermelo. I matematici a volte si occupano di cifre notevoli, ma mai quando si tratta del loro reddito. Immagino che lei sia un matematico, Hummin.»
«No, sono negato per quelle cose.»
«Oh» esclamò Seldon deluso. «Ha detto di avermi visto al Convegno decennale.»
«Ero là come spettatore. Sono un giornalista.» Hummin agitò il fascio di telestampati, parve rendersi conto d’un tratto di averli in mano e li infilò in tasca. «Fornisco il materiale per gli olonotiziari. Se devo essere sincero, sono stanco» aggiunse pensieroso.
«Del suo lavoro?»
Hummin annuì. «Sono stufo di raccogliere stupidaggini provenienti da tutti i mondi. Detesto il livello sempre più basso dell’informazione.» Poi fissò intensamente il suo interlocutore. «Ma a volte salta fuori qualcosa di interessante. Ho sentito che l’hanno vista dirigersi verso l’ingresso del palazzo in compagnia di una guardia imperiale. È stato ricevuto dall’imperatore?»
Il sorriso svanì dal volto di Seldon, che rispose lentamente: «Anche se fosse così, non sarebbe certo una notizia da divulgare».
«No, non da divulgare. Se non lo sa, Seldon, sarò il primo a dirglielo. La regola numero uno nel mondo dell’informazione è che non bisogna mai dire nulla sull’imperatore o sul suo entourage personale, ma limitarsi a riportare i comunicati ufficiali del palazzo. Naturalmente è un errore, perché in questo modo circolano voci molto peggiori della verità, eppure è così.»
«Ma se è qualcosa che non può divulgare, amico, perché me lo chiede?»
«Curiosità personale. Mi creda, nel mio lavoro so molte più cose di quelle che vanno in onda. Provo a indovinare, allora. Non ho seguito la sua relazione, ma se ho ben capito ha parlato della possibilità di predire il futuro.»
Seldon scosse il capo e borbottò: «È stato un errore».
«Come?»
«Oh, nulla.»
«Be’, logicamente la predizione, una previsione accurata, interessa all’imperatore o a qualsiasi uomo di governo, quindi immagino che Cleon, Primo del Nome, l’abbia convocata per chiederle qualche predizione.»
«Non intendo discutere l’argomento» ribatté Seldon freddamente.
Hummin si strinse leggermente nelle spalle. «Eto Demerzel era presente, suppongo.»
«Chi?»
«Mai sentito parlare di Eto Demerzel?»
«No.»
«L’alter ego di Cleon, l’eminenza grigia di Cleon, lo spirito maligno di Cleon. È stato definito in tutti questi modi, se ci limitiamo alle espressioni non ingiuriose. Senza dubbio era presente anche lui.» Seldon parve confuso e Hummin proseguì: «Be’, forse non l’avrà visto ma c’era. E se lui pensa che lei possa predire il futuro...».
«Non posso predire il futuro.» Seldon scosse il capo con forza. «Se ha ascoltato la mia relazione, saprà che ho parlato solo di una possibilità teorica.»
«Non importa. Se quello pensa che lei possa predire il futuro, non la lascerà andare.»
«Eppure l’ha fatto. Eccomi qua.»
«Questo non significa nulla. Sa dov’è e lo saprà sempre. E quando la vorrà, la prenderà, in qualsiasi posto si trovi. E se deciderà che è utile, la spremerà per bene. Se deciderà che è pericoloso, invece, la eliminerà per sempre.»
Seldon lo fissò. «Che intenzioni ha? Sta cercando di spaventarmi?»
«Sto cercando di metterla in guardia.»
«Non credo alle sue parole.»
«No? Poco fa ha parlato di un errore. Pensa che sia stato un errore presentare la sua relazione? Che le abbia creato proprio il genere di guai che voleva evitare?»
Seldon si morse un labbro, a disagio. Era una congettura che si avvicinava fin troppo alla verità, e fu in quel momento che avvertì la presenza di intrusi.
Non vide nessuna ombra, perché la luce era troppo tenue e diffusa. Con la coda dell’occhio colse semplicemente un movimento, che cessò subito.