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«Bene» disse Trevize. «Ho sprecato un’intera giornata.»
«Come?» fece Pelorat alzando gli occhi dal suo lavoro. «In che modo?»
Trevize allargò le braccia. «Non mi sono fidato del computer. Non ho osato fidarmi, e così ho confrontato la nostra posizione attuale con la posizione calcolata per il balzo. Non ho trovato differenze di sorta, nessun errore rilevabile.»
«Non è un bene, questo?»
«Altroché. È addirittura incredibile. Non ho mai sentito di una perfezione simile. Ho affrontato e controllato balzi secondo le modalità più svariate e con apparecchiature di tutti i tipi. A scuola dovetti programmarne uno con un computer manuale e poi spedire un iper-relè a verificare i risultati. Naturalmente non potevo inviare un’astronave vera, perché, a parte la spesa, avrei potuto facilmente farla emergere nel bel mezzo di una stella. Certo non ho mai combinato un disastro del genere, ma il rischio di commettere un grosso errore c’era sempre. Nemmeno gli esperti possono garantirci l’assoluta mancanza di errori in questo campo, perché ci sono in gioco troppe variabili. Diciamo che la geometria dello spazio è troppo complicata perché la si possa affrontare efficacemente e l’iperspazio unisce a queste complicazioni una sua complessità peculiare che non possiamo nemmeno pretendere di capire. È per questo che dobbiamo procedere passo passo, invece di compiere un unico grande balzo da qui al settore Sayshell. Gli errori aumenterebbero troppo con la distanza.»
«Ma ha detto che questo computer non fa un solo errore.»
«Lui l’ha detto. Gli ho fatto confrontare la nostra posizione reale con quella calcolata in precedenza e lui ha concluso che non ci sono differenze rilevabili. E io mi sono detto: “Se per caso mentisse?”.»
Pelorat, che fino allora aveva tenuto la stampante in mano, la posò con espressione turbata. «Sta scherzando? Un computer non può mentire. A meno che non voglia dirmi che secondo lei è rotto.»
«No, non era questo che intendevo. Per lo spazio, penso veramente che sia in grado di mentire. È così avanzato che non posso fare a meno di raffigurarmelo umano, o magari addirittura superumano. In ogni caso sufficientemente umano da essere orgoglioso e dire le bugie. Gli ho ordinato di calcolare una rotta nell’iperspazio che ci portasse vicino al pianeta Sayshell, capitale dell’unione Sayshell. L’ha fatto. Ne ha tracciata una in ventinove tappe, il che tradisce un’arroganza insopportabile.»
«In che senso arroganza?»
«Un errore durante il primo balzo rende il secondo già meno sicuro in partenza, e un altro errore che si aggiunga durante il secondo balzo rende il terzo incerto e non esattamente prevedibile. Com’è possibile calcolare ventinove tappe tutte in una volta? La ventinovesima potrebbe portarci in qualsiasi punto della galassia, anche il più pericoloso. Così ho dato ordine al computer di compiere soltanto il primo passo. Poi controlleremo il percorso, prima di procedere oltre.»
«Una tattica prudente» disse Pelorat accalorato. «La approvo in pieno.»
«Sì, ma dopo aver compiuto il primo passo il computer non potrebbe offendersi per il fatto che non mi sono fidato di lui? Non potrebbe essere indotto dal suo orgoglio a dire di non aver commesso alcun errore? Potrebbe riuscirgli impossibile ammettere di avere sbagliato, di essere fallibile. Se così fosse, tanto varrebbe non averlo a bordo.»
Il viso lungo e mite di Pelorat s’intristì. «E se così fosse che cosa potremmo fare, Golan?»
«Si può fare quello che ho fatto io: sprecare una giornata. Ho controllato la posizione di molte delle stelle che ci circondano con i metodi più primitivi che si possano trovare: osservazione al telescopio, fotografie, misurazioni manuali. Ho confrontato ciascuna delle posizioni effettive con quelle previste in completa assenza di errori. Ho sprecato una giornata e non ho concluso un bel niente.»
«Sì, ma che cosa è successo?»
«Ho trovato due errori enormi, ho effettuato un controllo e ho constatato che avevo sbagliato i calcoli. Ho corretto gli errori, poi ho provato a fornire i dati esatti al computer, giusto per verificare se mi dava le stesse risposte cui ero arrivato io. A parte il fatto che le sue cifre avevano molti più decimali delle mie, i risultati erano identici. Insomma il computer non aveva commesso alcun errore; sarà un presuntuoso figlio d’un Mulo, ma la sua presunzione è giustificata.»
Pelorat si lasciò andare a un lungo respiro. «Questa è una buona notizia.»
«Sicuro. Perciò intendo lasciargli compiere gli altri ventotto balzi.»
«Tutti in una volta? Ma...»
«No, no, non si preoccupi. Non sono diventato all’improvviso un temerario. Li faremo uno alla volta; dopo ciascuna tappa il computer controllerà la posizione e, se questa corrisponderà sufficientemente a quella prevista, potrà procedere. Ogni volta che troverà uno scarto troppo grande (e, mi creda, non sono stato per niente generoso nello stabilire i limiti), dovrà fermarsi e calcolare daccapo le tappe rimanenti.»
«E quando intende dare inizio a questa prassi?»
«Quando? Immediatamente. Senta, vedo che sta compilando l’indice analitico della sua biblioteca...»
«Sì, questa è proprio l’occasione giusta per farlo, Golan. Erano anni che mi proponevo di mettermi all’opera, ma per un motivo o per l’altro ho sempre dovuto rinviare.»
«Non ho alcuna obiezione, Janov. Faccia pure e non si preoccupi. Si concentri sul suo lavoro. Io mi occuperò di tutto il resto.»
Pelorat scosse il capo. «Non dica sciocchezze. Non starò in pace finché la storia dei balzi non sarà finita. Ho una paura matta, sa?»
«Forse non avrei dovuto parlargliene, ma dovevo pur farlo con qualcuno, e qui c’è solo lei. Lasci che le spieghi fino in fondo e con franchezza come stanno le cose. C’è sempre la possibilità che emergiamo dal balzo in una zona dello spazio interstellare in cui si trova un meteorite in rotta di collisione con noi, oppure che emergiamo nel bel mezzo di un mini-buco nero. In entrambi i casi l’astronave verrebbe distrutta, e noi con essa. In teoria queste cose possono accadere.
«Le probabilità che accadano però sono minime. E poi, anche su Terminus, certe eventualità sono possibili. Poniamo che ora lei ora si trovi nel suo studio a esaminare microfilm, o che sia a letto a dormire: un meteorite potrebbe attraversare l’atmosfera del pianeta e mirare dritto a lei, colpendola in testa e uccidendola. Non sarebbe impossibile, ma fortemente improbabile. Le dirò che di fatto le probabilità di intersecare nel corso del balzo la rotta di un corpo celeste troppo piccolo per essere individuato dal computer sono enormemente inferiori a quelle di venir colpiti da un meteorite mentre ci si trova in casa propria. Non ho mai sentito di un’astronave che sia stata distrutta in questo modo, mai, in tutta la storia del viaggio iperspaziale. Le probabilità di rischio in altri casi, come per esempio quello di finire in mezzo a una stella, diminuiscono ulteriormente.
«Allora perché mi dice tutto questo, Golan?»
Trevize indugiò un attimo, chinò la testa pensieroso e infine rispose: «Non lo so. O forse sì. Vede, per quanto possa essere minimo il rischio di una catastrofe, se un numero sufficiente di persone corre un numero sufficiente di rischi, la catastrofe alla fine si verifica inevitabilmente. Anche se consciamente sono sicurissimo che tutto andrà bene, c’è una vocina fastidiosa dentro di me che dice: “Forse succederà questa volta”. E mi fa sentire in colpa. Sì, credo proprio di sentire questo. Janov, se dovesse succedere qualcosa, mi perdoni».
«Ma Golan, amico mio, se dovesse succedere qualcosa, tutti e due moriremmo all’istante. Non farei in tempo a perdonarla, né lei a ricevere il perdono.»
«Lo so. Allora può perdonarmi adesso?»
Pelorat sorrise. «Non so perché, ma questa storia mi mette di buon umore; ha in sé qualcosa di piacevolmente buffo. Certo che la perdono. La letteratura abbonda di miti che parlano di una qualche forma di vita dopo la morte. Se per caso esistesse davvero un aldilà (e immagino che le probabilità di un simile evento siano pari, o addirittura inferiori, a quelle di riemergere in un mini-buco nero) e se entrambi ci ritrovassimo in esso, testimonierei indubbiamente a suo favore, riconoscendo la sua buona volontà e la sua assoluta mancanza di responsabilità per la mia morte.»
«Grazie! Ora mi sento sollevato. Sono prontissimo a correre i miei rischi, ma non mi andava l’idea che lei corresse gli stessi rischi di chi ha deciso la rotta.»
Pelorat strinse forte la mano di Trevize. «Sa, la conosco da meno di una settimana e, benché in questi casi non sia giusto dare giudizi affrettati, non posso fare a meno di pensare che sia una persona fantastica. Bene, procediamo e liberiamoci del pensiero.»
«Sì, certo. Mi basta toccare quel piccolo contatto. Il computer ha già ricevuto le mie istruzioni e aspetta soltanto che io dia il via. Vuole essere lei a...»
«Per carità! Faccia pure lei. Quello è il suo computer.»
«Benissimo. E la responsabilità è la mia. Vede? Sto ancora tentando di sottrarmici. Tenga gli occhi sullo schermo!»
Con mano ferma e un allegro sorriso sulle labbra, Trevize si collegò al computer.
Dopo un breve intervallo in cui non successe niente, il quadro delle stelle visibili cambiò, poi cambiò ancora e ancora. Le stelle diventarono sempre più fitte e luminose.
Sottovoce, Pelorat contò. Quando ebbe contato fino a quindici ci fu un arresto, come se qualche pezzo di apparecchiatura si fosse inceppato.
«Cosa c’è che non va? Cos’è successo?» sussurrò Pelorat con un filo di voce, quasi temesse parlando forte di rovinare irrimediabilmente il meccanismo.
Trevize fece spallucce. «Immagino che stia rifacendo i calcoli. C’è un oggetto nello spazio che ha introdotto una modificazione percettibile nella forma del campo gravitazionale complessivo. Un oggetto non previsto, una qualche stella nana o un pianeta vagabondo non segnato sulle carte...»
«E può essere pericoloso?»
«Dal momento che siamo ancora vivi, sono quasi sicuro che non lo sia. Un pianeta può trovarsi a cento milioni di chilometri di distanza e provocare lo stesso una modificazione gravitazionale abbastanza forte da imporre una revisione dei calcoli. Una stella nana che fosse anche lontana dieci miliardi di chilometri potrebbe...»
Lo schermo cambiò un’altra volta e Trevize si interruppe. Cambiò ancora, e poi ancora. Alla fine, quando Pelorat sussurrò: «Ventotto», si fermò.
Trevize consultò il computer. «Siamo arrivati.»
«Il primo balzo l’ho contato come “uno”, e in questa serie sono partito da “due”. In tutto ho contato ventotto balzi. Lei aveva detto che erano ventinove.»
«Probabilmente i calcoli che il computer ha rifatto quando eravamo alla quindicesima tappa ci hanno risparmiato un balzo. Posso controllare se vuole, ma in realtà non ce n’è bisogno. Siamo nelle vicinanze del pianeta Sayshell: lo dice il computer e io gli credo. Se orientassi opportunamente lo schermo vedremmo un bel sole brillante, ma non ha senso sottoporre a un inutile sforzo la capacità del video di inquadrare corpi celesti. Il pianeta Sayshell è il quarto in ordine di distanza dal sole e si trova a circa 3,2 milioni di chilometri dalla nostra posizione attuale, per cui possiamo considerare conclusa la serie di balzi. Arriveremo là in tre giorni, anche due, se facciamo in fretta.»
Trevize respirò a fondo e cercò di scaricare completamente la tensione.
«Si rende conto di cosa significhi questo, Janov? In tutte le astronavi che conosco, in tutte le astronavi su cui sono stato si sarebbe perso almeno un giorno fra un balzo e l’altro per rielaborare con cura tutti i calcoli. Anche con un computer a bordo. Il viaggio sarebbe durato quasi un mese. O forse due o tre settimane, volendo essere imprudenti. Il nostro è durato mezz’ora. Quando le astronavi disporranno tutte di un computer così...»
«Mi chiedo come mai il sindaco ci abbia assegnato un’astronave tecnologicamente così avanzata. Dev’essere costata un patrimonio.»
«È ancora in fase sperimentale» ribatté secco Trevize. «Forse quella brava donna non vedeva l’ora di farcela provare e di scoprirne così gli eventuali difetti.»
«Non dirà mica sul serio, vero?»
«Non si agiti. Dopotutto non abbiamo niente di cui preoccuparci: non abbiamo trovato difetti. Però non mi meraviglierei se le cose stessero veramente come ho detto; lo spirito umanitario di Harla Branno non è così forte da ribellarsi all’idea che ora l’ha scandalizzata. E poi la Branno non si è fidata di lasciarci un’astronave armata, e senza armi le spese sono state certo notevolmente inferiori.»
Pelorat disse pensieroso: «È quel computer che mi lascia perplesso. Sembra studiato apposta per lei: le si adatta perfettamente. Un’affinità del genere non può averla con tutti quanti. Con me, per esempio, non l’ha».
«Be’, è una fortuna che funzioni così bene con uno di noi.»
«Sì, ma che sia soltanto un caso?»
«Cos’altro potrebbe essere, Janov?»
«Il sindaco la conosce bene, credo.»
«Eh sì, la vecchia volpe mi conosce, mi conosce...»
«Non potrebbe aver dato ordine di progettare un computer adatto a funzionare in particolare con lei?»
«Perché l’avrebbe fatto?»
«Mi chiedo se non stiamo andando dove vuole portarci il computer...»
Trevize fissò Pelorat. «Intende dire che quando sono collegato col computer potrebbe essere questo a svolgere in realtà il ruolo di guida?»
«Mi sto soltanto ponendo qualche domanda.»
«Ma è ridicolo. È da paranoici pensarlo. Oh, via, Janov, non scherzi.»
Trevize si collegò di nuovo con l’elaboratore per mettere a fuoco sullo schermo il pianeta Sayshell e calcolare una rotta che consentisse di arrivarci viaggiando nello spazio normale.
“Ridicolo” si disse. Ma perché mai Pelorat gli aveva ficcato in testa quell’idea?