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Era pomeriggio inoltrato e il sole di Trantor scintillava sullo strato metallico che ricopriva il grande pianeta. Hari Seldon si trovava sul bordo della terrazza d’osservazione dell’Università di Streeling e tentava di proteggersi con una mano gli occhi da quel vivido chiarore. Erano anni che non usciva dalla cupola, eccettuate le sue rare visite al palazzo, e in qualche modo quelle non contavano: ci si sentiva sempre molto rinchiusi anche nei terreni imperiali.
Ormai Seldon non andava più in giro soltanto se accompagnato. Prima di tutto, Palver trascorreva quasi tutto il suo tempo con Wanda, o a lavorare con il radiante primario, entrambi assorbiti dagli studi mentalisti, o alla ricerca di altri come loro. Ma, se lo avesse voluto, Seldon avrebbe potuto trovare un altro giovanotto, uno studente dell’università o un membro del progetto, più che disposto a fungere da sua guardia del corpo.
Comunque, Seldon sapeva che una guardia del corpo non era più necessaria. Dopo la tanto pubblicizzata udienza e il ristabilirsi dei contatti con la biblioteca galattica, il Comitato per la sicurezza pubblica aveva preso a interessarsi da vicino a Seldon. Sapeva di essere seguito: diverse volte era riuscito a scorgere la sua “ombra” negli ultimi mesi. Era inoltre certo che nella sua casa e nel suo ufficio fossero state nascoste delle microspie, ma a sua volta lui attivava un campo di disturbo quando doveva impegnarsi in comunicazioni delicate.
Seldon non sapeva con certezza cosa pensasse di lui il Comitato; forse neanche loro lo sapevano. Potevano considerarlo un profeta o un folle, ma sembravano ben decisi a sapere dove lui si trovasse in ogni momento, e questo significava che finché il Comitato non avesse cambiato idea, Seldon sarebbe sempre stato al sicuro.
Una brezza leggera gonfiò il mantello blu scuro che si era avvolto sull’abito monopezzo, scompigliando i pochi capelli bianchi che gli erano rimasti in testa. Si affacciò alla balaustra e guardò in basso, lasciandosi riempire gli occhi dalla coltre di acciaio apparentemente priva di saldature che si estendeva in basso. Al di sotto della coltre, Seldon lo sapeva, rombavano i macchinari di un mondo incredibilmente complesso. Se la cupola fosse stata trasparente, avrebbe potuto veder sfrecciare le terramobili, i gravitaxi che si tuffavano attraverso l’intricata rete di gallerie comunicanti, le ipernavi da trasporto intente a caricare o scaricare grano, sostanze chimiche e gioielli in arrivo o in partenza praticamente per ogni mondo dell’impero.
Sotto la scintillante distesa metallica si consumavano le esistenze di quaranta miliardi di persone con gli inevitabili drammi, gioie e dolori della vita umana. Amava molto quel panorama del progresso umano e gli spezzava il cuore sapere che nel giro di pochi secoli tutto quel che vedeva sarebbe finito in rovina. La grande cupola sarebbe stata squarciata e sfregiata, divelta per rivelare la vista desolata di quella che un tempo era stata la capitale di una fiorente civiltà. Scosse tristemente il capo, perché sapeva di non poter fare nulla per impedire una simile tragedia. Ma, così come Seldon prevedeva la cupola rovinata, sapeva anche che dal terreno spogliato dalle ultime battaglie dell’impero sarebbero sorti teneri virgulti, e che in qualche modo Trantor sarebbe risorto tornando a essere un membro vitale del nuovo impero. Il Piano comprendeva anche questo.
Seldon sedette su una delle panchine che costeggiavano il perimetro della terrazza. La gamba gli pulsava dolorosamente; lo sforzo della salita era stato eccessivo. Ma valeva la pena poter ammirare ancora una volta Trantor dall’alto, sentire l’aria aperta intorno a sé e vedere il cielo così ampio sopra la testa.
Seldon pensò malinconicamente a Wanda. Ormai vedeva di rado la nipote e, quando ciò accadeva, era sempre presente anche Stettin Palver. Nei tre mesi trascorsi da quando Wanda e Palver si erano incontrati, sembravano essere diventati inseparabili. Wanda aveva assicurato a Seldon che la loro assidua frequentazione era necessaria al progetto, ma Seldon sospettava che ci fosse sotto qualcosa di molto più profondo del semplice attaccamento al lavoro.
Ricordava i segni premonitori che risalivano ai suoi primi giorni vissuti con Dors. Erano chiaramente visibili nel modo in cui i due giovani si guardavano, con una intensità nata non solo dalla stimolazione intellettuale, ma altresì da una spinta emotiva.
Inoltre, per la loro stessa natura Wanda e Palver sembravano più a loro agio l’uno in compagnia dell’altra che insieme ad altre persone. Anzi, Seldon aveva scoperto che quando erano soli Wanda e Palver non si parlavano neppure; i loro poteri mentali erano sufficientemente avanzati per eliminare la necessità delle parole in qualsiasi forma di comunicazione.
Gli altri membri del progetto non erano al corrente delle doti uniche di Wanda e Palver. Seldon aveva ritenuto più prudente passare sotto silenzio il lavoro dei mentalisti, almeno fino a quando il loro ruolo in seno al Piano non si fosse definito meglio. Per la verità, il Piano in sé era già definito con chiarezza, ma solamente nella mente di Seldon. Quando qualche altro pezzo sarebbe finito al suo posto, lui lo avrebbe rivelato a Wanda e a Palver, e forse un giorno, per necessità, a un altro paio di persone fidate.
Seldon si alzò lentamente, le membra irrigidite. Entro un’ora doveva essere di ritorno sotto la cupola, a Streeling, per incontrarsi con Wanda e Palver. Lo avevano avvertito che gli avrebbero portato una grossa sorpresa. Un altro pezzo da incastrare nel suo Piano, sperava Seldon. Contemplò un’ultima volta Trantor e, prima di voltarsi per tornare all’ascensore gravitazionale, sorrise e disse sottovoce: «Fondazione».