31

«È pronto, Janov?» chiese Trevize.

Pelorat sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo e disse: «Intende per il balzo, amico mio?».

«Per il balzo iperspaziale, sì.»

Pelorat inghiottì a vuoto. «Senta, è proprio sicuro che andrà tutto bene? So che è stupido avere paura, ma al pensiero di venir ridotto in tachioni incorporei che nessuno ha mai visto o individuato...»

«Via, Janov, non si preoccupi. È un procedimento supercollaudato, gliel’assicuro sul mio onore. Come mi ha spiegato lei, il balzo si pratica da ventiduemila anni, e non ho mai sentito parlare di un solo incidente mortale avvenuto nell’iperspazio. Potremmo, emergendo, ritrovarci in un posto molto poco confortevole, ma in quel caso non saremmo più composti di tachioni, avremmo il nostro corpo di tutti i giorni.»

«Mi pare una magra consolazione.»

«Ma vedrà che non riemergeremo in un posto pericoloso. A dire la verità per un attimo ho pensato di entrare nell’iperspazio senza avvertirla, in modo che non si rendesse conto di niente. Riflettendo, però, mi sono detto che sarebbe stato meglio per lei affrontare l’esperienza consapevolmente, constatare di persona che non presenta difficoltà alcuna e che può quindi essere vissuta a cuor leggero.»

«Ecco...» disse Pelorat dubbioso «credo che lei abbia ragione, ma francamente non ho nessuna fretta.»

«Le assicuro che...»

«Sì, sì, amico mio, non metto certo in dubbio le sue garanzie. È solo che... ha mai letto Santerestil Matt?»

«Certamente. Non sono un illetterato.»

«Oh sì, è chiaro, non avrei dovuto fare una domanda del genere. Se lo ricorda?»

«Non soffro nemmeno di amnesie.»

«A quanto pare non mi riesce d’aprir bocca senza offendere. Quello che volevo dire è che non posso fare a meno di pensare al passo in cui Santerestil e il suo amico Ban sono fuggiti dal Pianeta Diciassette e si sono persi nello spazio. Ricordo quelle scene ipnotiche fra le stelle, lo spostarsi lento in mezzo al silenzio profondo, in mezzo a un’immutabilità affascinante... Be’, non ci avevo mai creduto, sa? Mi piacevano quelle descrizioni e mi commuovevano, però non le consideravo vere. Adesso, invece, che mi sono abituato all’idea di trovarmi nello spazio, adesso che vivo l’esperienza di cui avevo letto in Santerestil non vorrei rinunciarvi per nulla al mondo. È un po’ come se fossi Santerestil stesso...»

«E come se io fossi Ban» disse Trevize con un filo d’impazienza.

«In un certo senso. Quella spruzzata di stelle, là fuori, è immobile, fatta eccezione naturalmente per il nostro sole, che non vediamo, ma che starà rimpicciolendo. La galassia conserva immutata la sua maestà, la sua fioca luminosità. Lo spazio è silenzioso e io non ho altre distrazioni che...»

«Che me.»

«Che lei. Però, Golan, amico mio, parlare con lei della Terra e cercare di insegnarle un po’ di preistoria ha i suoi lati piacevoli. Nemmeno a questa nostra conversazione vorrei rinunciare.»

«Non dovrà farlo, non subito, per lo meno. Non penserà mica che compiamo il balzo ed emergiamo sulla superficie di un pianeta, vero? Dopo il balzo, che durerà talmente poco che non si accorgerà nemmeno che sia passato un tempo misurabile, ci vorrà magari una settimana per arrivare sulla superficie di un qualsiasi mondo, per cui si tranquillizzi pure.»

«Per superficie di un mondo non intenderà certo la superficie di Gaia, vero? Quando emergeremo dall’iperspazio potremo trovarci assai lontano da Gaia.»

«Lo so, Janov, ma saremo pur sempre nel settore giusto, se le sue informazioni sono esatte. Se invece non lo sono...»

Pelorat scosse il capo, accigliato. «A che ci servirà essere nel settore giusto se non conosciamo le coordinate di Gaia?»

«Janov, mettiamo che lei si trovi su Terminus, che voglia recarsi nella città di Argyropoli e sappia soltanto che si trova da qualche parte sull’istmo. Una volta sull’istmo che cosa farebbe?»

Pelorat rifletté, cauto, chiedendosi se Trevize non si aspettasse da lui una risposta terribilmente complicata. Alla fine rinunciò all’idea di trovarla e disse: «Penso che chiederei informazioni a qualcuno».

«Infatti, cos’altro si potrebbe fare? Allora, è pronto?»

«Intende dire adesso?» Pelorat si alzò e sul suo viso piacevolmente inespressivo si dipinse una minima ombra di preoccupazione. «Che cosa devo fare? Devo stare in piedi o seduto? Mi dica lei...»

«Per la galassia, Pelorat, non faccia niente. Venga con me nella mia stanza, dove io devo usare il computer, e dopo si metta seduto, stia in piedi, faccia la ruota, si sistemi come meglio le pare. Io le suggerisco di sedersi davanti allo schermo e di guardarlo. Vedrà senz’altro cose interessanti. Su, venga con me.»

Percorsero il breve corridoio che conduceva alla stanza di Trevize e questi si sedette davanti al computer. «Vuole fare lei, Janov?» chiese di punto in bianco. «Le do i dati: è sufficiente che li pensi e il computer farà tutto il resto.»

«No, grazie. Il computer, per qualche motivo, non funziona bene con me. Lei dice che mi occorre solo un po’ di pratica, ma non ci credo. C’è qualcosa nella sua mente, Golan, che...»

«Non sia sciocco.»

«No, parlo sul serio; quel computer sembra fatto apposta per lei. Quando siete collegati sembrate un unico organismo. Quando sono collegato io, invece, siamo due oggetti ben distinti: Janov Pelorat e il computer. Non è assolutamente la stessa cosa.»

«È ridicolo» disse Trevize, ma era vagamente lusingato dal discorso di Pelorat e toccò quasi con affetto le impronte che fungevano da contatto.

«Perciò preferisco stare a guardare» disse Pelorat. «Cioè, in realtà preferirei che la storia dell’iperspazio non ci fosse, ma dato che c’è, preferisco stare a guardare.» Fissò ansiosamente lo schermo e la galassia nebbiosa, con la spruzzata di stelle in primo piano. «Mi faccia sapere quando ci siamo.» Indietreggiò piano, fino a toccare la parete, e chiamò a raccolta tutte le sue forze.

Trevize sorrise. Posò le mani sulle impronte e avvertì subito l’unione mentale. Era ogni giorno più facile e più profonda e, per quanto lui avesse riso del discorso di Pelorat, sentiva effettivamente un legame simbiotico. Gli pareva che fosse quasi superfluo pensare consciamente alle coordinate. Sembrava che il computer sapesse già cosa lui voleva senza bisogno del processo conscio del parlare. Era come se gli traesse le informazioni direttamente dal cervello.

Ma Trevize disse le coordinate e poi chiese un intervallo di due minuti prima del balzo.

«Tutto a posto, Janov. Abbiamo due minuti. Centoventi... centoquindici... centodieci... Guardi lo schermo.»

Pelorat guardò. Aveva le labbra tese e tratteneva il respiro.

Trevize continuò il conteggio alla rovescia a bassa voce fino a zero!

Senza che si percepisse alcun movimento, alcun mutamento, la visione sullo schermo cambiò. Le stelle s’infittirono e la galassia scomparve.

Pelorat sussultò e disse: «È finito?».

«È finito cosa? Se è sobbalzato è colpa sua. In realtà non ha avvertito niente, lo ammetta.»

«Lo ammetto.»

«Bene, ecco concluso il balzo. Un tempo, quando il viaggio iperspaziale era agli inizi, la gente provava una strana sensazione fisica, e alcuni soffrivano di nausea o di capogiro. Almeno così dicono i libri. In ogni caso, a mano a mano che l’esperienza crebbe e che si migliorarono le apparecchiature, gli effetti collaterali diminuirono. Con un computer come quello che abbiamo a bordo, questi effetti non arrivano nemmeno alla soglia della coscienza. Per lo meno, così è per me.»

«Anche per me, devo ammetterlo. Dove ci troviamo, Golan?»

«Abbiamo fatto solo un piccolo passo avanti: siamo nella regione kalganiana. Abbiamo ancora parecchia strada da percorrere e prima di tornare nell’iperspazio bisogna controllare la precisione del balzo appena compiuto.»

«C’è una cosa che mi preoccupa... Dov’è la galassia?»

«Tutt’intorno a noi, Janov. Ci siamo in mezzo in pieno: mettendo bene a fuoco lo schermo, le parti più lontane di essa ci appaiono come una banda luminosa che attraversa il cielo.»

«La Via Lattea!» esclamò Pelorat, felice. «Quasi tutti i mondi la vedono nel loro cielo, ma noi su Terminus no. Me la mostri, amico mio!»

Lo schermo s’inclinò, dando l’impressione che le stelle si muovessero piano, poi il campo visivo fu quasi riempito da una luminosità densa e perlacea che si assottigliò per poi espandersi di nuovo.

«È più densa verso il centro della galassia» disse Trevize. «Non così densa o brillante come potrebbe essere, però, perché ci sono quelle nubi nere nei bracci della spirale. È uno spettacolo che si vede dalla maggior parte dei mondi abitati.»

«E anche dalla Terra.»

«Senza distinzione. Non è quindi una caratteristica che ci permetta di identificare il pianeta.»

«Naturalmente no. Ma... lei non ha studiato la storia della scienza?»

«No, non in profondità, anche se qualcosa ho imparato. Se però ha intenzione di farmi alcune domande non si aspetti che le risponda da esperto.»

«Sa, questo balzo iperspaziale mi ha fatto venire in mente una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso. Si può elaborare una descrizione dell’universo in cui il viaggio iperspaziale sia impossibile e in cui la velocità della luce che viaggia attraverso il vuoto sia il massimo assoluto, la velocità massima raggiungibile, vero?»

«Certamente.»

«In quelle condizioni la geometria dell’universo non permette di compiere il viaggio che abbiamo appena compiuto in un tempo inferiore a quello che impiegherebbe un raggio di luce. E se facessimo il nostro viaggio alla velocità della luce la nostra esperienza della durata del tempo non corrisponderebbe a quella dell’universo in generale. Se questo posto fosse, mettiamo, a quaranta parsec da Terminus e se fossimo venuti qui alla velocità della luce, non avremmo avvertito il tempo trascorrere, ma su Terminus e nell’intera galassia sarebbero passati circa centotrent’anni. Ora noi abbiamo effettuato un viaggio non alla velocità della luce, ma a una velocità che è migliaia di volte quella della luce, e tuttavia il tempo non è trascorso da nessuna parte. O, almeno, lo spero.»

«Non si aspetti che le snoccioli la matematica della teoria iperspaziale di Olanjen. Posso soltanto dirle che se avesse viaggiato alla velocità della luce nello spazio normale, il tempo in effetti sarebbe trascorso al ritmo di 3,26 anni per parsec, come ha detto lei. Il cosiddetto universo relativistico, che l’umanità ha compreso fin dagli albori della preistoria – mi corregga se sbaglio , è lei l’esperto in questo campo –, rimane sempre valido e le sue leggi non sono state annullate. Col balzo iperspaziale, però, noi veniamo a trovarci in condizioni che non sono quelle in cui opera la relatività, e le regole sono quindi diverse. Dal punto di vista iperspaziale la galassia è un oggetto minuscolo, in teoria un puntino non-dimensionale, e non esistono effetti relativistici di sorta.

«Anzi, nelle formule matematiche della cosmologia sono presenti due simboli per la galassia: Gr per la “galassia relativistica”, dove la velocità della luce è il valore massimo, e Gi per la “galassia iperspaziale”, dove la velocità non ha in realtà un significato. Dal punto di vista iperspaziale il valore di tutte le velocità è zero, e noi non ci muoviamo; in rapporto allo spazio, la velocità è infinita. Non posso proprio spiegare le cose meglio di così. Ah, posso dire però che uno dei più bei tranelli, in fisica teorica, è piazzare un simbolo o un numero che ha un certo significato nella Gr in un’equazione che si riferisce alla Gi, o viceversa, e lasciarlo lì per mettere in difficoltà uno studente. Quasi sempre lo studente cade nella trappola e ci resta, e sbuffa e suda senza riuscire a capire come mai i conti non tornino, finché qualcuno più vecchio e più esperto di lui non lo aiuta a uscire dall’impasse. Io una volta per poco non sono rimasto preso nella rete.»

Pelorat rifletté con aria grave sul discorso di Trevize, poi disse, dubbioso: «Ma qual è la vera galassia?».

«O l’una o l’altra, a seconda di quello che si fa. Su Terminus, per esempio, si può usare un’auto per coprire una certa distanza sulla superficie e una nave per coprire una certa distanza in mare. Le condizioni nei due ambienti sono completamente diverse e così potremmo domandarci anche in questo caso: qual è il vero Terminus, quello che sperimentiamo in mare o quello che sperimentiamo in terra?»

Pelorat annuì. «Le analogie sono sempre pericolose, ma preferisco accettare questa che rischiare di diventar pazzo continuando a riflettere ancora sull’iperspazio. Mi concentrerò su ciò che stiamo facendo ora.»

«Consideri il balzo che abbiamo appena compiuto come il nostro primo passo verso la Terra.»

“E chissà verso cos’altro” pensò Trevize.

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