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Su Comporellen

XIII

Erano passati. La stazione d’ingresso si era ridotta rapidamente a un punto luminoso sempre più fioco ed entro un paio d’ore avrebbero attraversato lo strato di nubi.

Un’astronave gravitazionale non doveva rallentare immettendosi in una lunga rotta a spirale, ma non poteva nemmeno tuffarsi in picchiata a tutta velocità. Essere liberi dalla gravità non significava esserlo anche dalla resistenza dell’aria. L’astronave poteva scendere in linea retta ma con prudenza; non era possibile esagerare con la velocità.

«Dove stiamo andando?» chiese Pelorat confuso. «Con tutte quelle nubi non riesco a distinguere nulla, amico mio.»

«Nemmeno io» disse Trevize. «Ma abbiamo una mappa ufficiale di Comporellen, una mappa olografica che ci fornisce la forma delle masse continentali, con tanto di altezze dei rilievi e profondità oceaniche e anche le suddivisioni politiche. La mappa è nel computer e sarà il computer a provvedere a tutto. Confronterà la configurazione planetaria con la mappa, orientando l’astronave nel modo migliore e ci condurrà alla capitale seguendo una rotta cicloidale.»

«Recandoci nella capitale,» disse Pelorat «ci immergeremo subito nel vortice politico. Se questo mondo è anti-Fondazione, come ha lasciato intendere quel tipo alla stazione d’ingresso, andremo in cerca di guai.

«D’altro canto, la capitale dev’essere il centro intellettuale del pianeta e, se vogliamo delle informazioni, è là che le troveremo, ammesso che esistano. E per quanto riguarda le loro tendenze ostili, dubito che potranno mostrarle troppo apertamente. Forse non sarò molto simpatico al sindaco, ma non può permettere che un consigliere venga maltrattato. Non vorrà creare un precedente del genere.»

Bliss era uscita dalla toilette; si era lavata le mani, che erano ancora umide. Sistemandosi la biancheria intima come se nulla fosse, disse: «A proposito, spero che gli escrementi vengano interamente riciclati».

«Per forza» rispose Trevize. «Secondo te, quanto durerebbe la nostra scorta d’acqua se non lo facessimo? E come crescerebbero le focacce lievitate che mangiamo per insaporire le razioni surgelate? Spero che questo non ti rovini l’appetito, mia efficiente Bliss.»

«Perché dovrebbe? Da dove credi che vengano il cibo e l’acqua su Gaia, su questo pianeta o su Terminus?»

«Su Gaia, naturalmente, gli escrementi sono vivi come te.»

«Non vivi, consapevoli. È diverso. Naturalmente, il livello di consapevolezza è bassissimo.»

Trevize sbuffò impaziente ma non cercò di ribattere. «Vado nella sala comandi a tener compagnia al computer.»

Pelorat intervenne: «Possiamo aiutarti a tenergli compagnia? Non riesco ad abituarmi al fatto che il computer sia in grado di portarci sul pianeta da solo, individuando altre astronavi, perturbazioni o che so io!».

Trevize sorrise. «Meglio che ti ci abitui. L’astronave è molto più sicura affidata al suo controllo che a me. Certo, venite pure, sarà istruttivo vedere cosa succede.»

Erano sul lato illuminato del pianeta e, come Trevize aveva spiegato, la mappa del computer poteva essere confrontata più facilmente coi dati reali alla luce del sole che al buio.

«È ovvio» commentò Pelorat.

«Non è affatto ovvio. Il computer reagisce altrettanto rapidamente ai raggi infrarossi che la superficie emana anche in presenza dell’oscurità. Ma le onde infrarosse, per la loro lunghezza, non permettono la definizione d’immagine consentita dalla luce visibile. In parole povere, il computer vede meno bene e meno chiaramente con l’infrarosso e, se non è strettamente necessario, preferisco facilitargli le cose il più possibile.»

«E se la capitale si trova sul lato notturno?»

«Le probabilità sono pari e anche se fosse sul lato notturno, una volta confrontata la mappa alla luce del giorno, potremmo abbassarci lentamente e raggiungerla con precisione nonostante l’oscurità. Prima di avvicinarci incroceremmo fasci di microonde e riceveremmo messaggi in grado di guidarci verso lo spazioporto più comodo. Non c’è motivo di preoccuparsi.»

«Sicuro?» chiese Bliss. «Mi stai portando sul pianeta senza documenti e senza un mondo d’origine riconosciuto da questa gente. Io non intendo, anzi non posso fare il nome di Gaia in nessun caso. Che cosa faremo se una volta sulla superficie mi chiederanno i documenti?»

«Improbabile» rispose Trevize. «Tutti penseranno che certe formalità siano già state sbrigate alla stazione d’ingresso.»

«Ma se dovessero chiedermeli?»

«Se sorgerà questo problema, lo affronteremo a tempo debito. Intanto, non creiamoceli.»

«Quando li affronteremo, potrebbe essere troppo tardi per risolverli.»

«Conto sulla mia ingegnosità. Non sarà troppo tardi.»

«A proposito di ingegnosità, come sei riuscito a farci superare la stazione d’ingresso?»

Trevize guardò Bliss e aprì le labbra in un sorriso furbesco. «Ho usato semplicemente il cervello.»

«Ma cos’hai fatto, amico mio?» insistette Pelorat.

«Si trattava solo di rivolgersi a lui nel modo giusto. Avevo provato con le minacce e con la corruzione velata. Avevo fatto appello alla sua logica e alla sua fedeltà alla Fondazione. Non ottenendo nulla, ho giocato la mia ultima carta. Ho detto che tradivi tua moglie, Pelorat.»

«Mia moglie? Ma, amico mio, al momento non ne ho nessuna.»

«Lo so, ma lui no.»

«Con “moglie”» intervenne Bliss «presumo vi riferiate a una donna che è la compagna regolare di un uomo.»

«Qualcosa di più, Bliss. Compagna legale, con diritti esercitabili entro il rapporto di compagnia» precisò Trevize.

Pelorat disse nervoso: «Bliss, io non ho moglie. Ne ho avute occasionalmente in passato, ma è da parecchio tempo che non sono sposato. Se vuoi, celebreremo il rito legale».

«Oh, Pel» rispose Bliss con un gesto secco della destra. «Cosa vuoi che m’interessi? Ho innumerevoli compagni che mi sono sempre vicini, come le tue braccia sono sempre vicine al tuo corpo. Solo gli isolati si sentono così distaccati da dover ricorrere a convenzioni artificiose per consolidare un legame che è un debole surrogato della vera compagnia.»

«Ma Bliss, cara, io sono un isolato.»

«Col tempo lo sarai di meno, Pel. Forse non sarai mai pienamente Gaia, ma sarai meno isolato e avrai una miriade di compagni.»

«Io voglio solo te, Bliss!» esclamò Pelorat.

«È perché non sai nulla della vera compagnia. Imparerai.»

Durante quella discussione Trevize si era concentrato sullo schermo con un’espressione di tolleranza forzata in volto. Lo strato di nubi si era avvicinato e per un attimo tutto si trasformò in una nebbia grigia.

“Visione microonde” pensò Trevize e il computer passò subito al rilevamento degli echi radar. Le nubi scomparvero e la superficie di Comporellen apparve immediatamente; i colori erano falsati e i confini tra i settori di diversa composizione erano un po’ sfocati e tremolanti.

«È così che ci apparirà Comporellen d’ora in poi?» chiese Bliss stupita.

«Solamente finché non sbucheremo al di sotto delle nubi. Dopo di che passeremo di nuovo alla luce solare.» Mentre Trevize rispondeva, il sole e la visibilità normale ritornarono.

«Capisco» annuì Bliss. «Ma c’è una cosa che non comprendo. Non vedo perché il fatto che Pel tradisca o meno la moglie dovesse interessare al funzionario della stazione d’ingresso.»

«Se quel tale, Kendray, ti avesse trattenuta, la notizia avrebbe potuto raggiungere Terminus e quindi la moglie di Pelorat. Lui si sarebbe trovato nei guai. Non ho specificato guai di che genere, ma ho alluso a una situazione seria. C’è una specie di tacita solidarietà fra i maschi.» Adesso Trevize sorrideva. «E un maschio non tradisce un altro uomo, anzi, se gli viene chiesto, lo aiuta. Dipende dal fatto che chi aiuta potrebbe aver bisogno di aiuto in seguito. Forse» aggiunse assumendo un’espressione un po’ seria «esiste una complicità simile tra le donne, ma non essendo una donna non ho mai avuto occasione di osservarla direttamente.»

Il volto di Bliss somigliava a una graziosa nube temporalesca. «È una battuta?»

«No, parlo seriamente» rispose Trevize. «Non dico che quel Kendray ci abbia lasciati passare solo per aiutare Janov a non mettersi nei guai con la moglie. Può darsi che il senso di complicità maschile sia servito a dare un’ultima spinta ad altre mie argomentazioni.»

«Ma è terribile. Sono le regole che tengono unita una società, che la fondono in un unico complesso. Ti pare una cosa da nulla ignorare queste regole per motivi banali?»

«Be’,» disse Trevize di colpo sulla difensiva «certe regole sono di per se stesse futili. Pochi mondi sono pignoli per quanto riguarda l’accesso e il passaggio nel loro spazio in un periodo di pace e prosperità commerciale, come quello che stiamo attraversando adesso grazie alla Fondazione. Comporellen non è al passo coi tempi, probabilmente per qualche oscura questione di politica interna. Non vedo perché proprio noi dovremmo subirne le conseguenze.»

«Questo non c’entra. Se obbediamo solamente alle regole che riteniamo giuste e ragionevoli, allora qualsiasi regola cessa di avere valore, perché non esiste una regola giusta e ragionevole per tutti. E se ci interessa solo il nostro tornaconto personale, troveremo sempre una giustificazione per definire ingiusta una regola restrittiva. Si comincia con un trucco astuto e si finisce con l’anarchia e la catastrofe anche per lo scaltro autore del trucco, dal momento che nemmeno lui sopravviverà al crollo della società.»

«La società non crolla tanto facilmente. Tu parli come Gaia e Gaia non può capire un’unione di individui liberi. Instaurate con ragionevolezza e giustizia, le regole possono facilmente invecchiare e diventare inutili via via che le circostanze cambiano, ma spesso rimangono in vigore per inerzia. In tal caso è legittimo infrangerle e anche utile, se non altro per evidenziare il fatto che sono diventate superflue e magari dannose.»

«Allora ogni ladro, ogni assassino può giustificarsi dicendo che sta servendo l’umanità.»

«Non arrivare agli estremi. Nel superorganismo di Gaia c’è un consenso automatico circa le regole sociali e a nessuno viene in mente di infrangerle. Si potrebbe anche dire che Gaia vegeta e si fossilizza. Nella libera associazione di individui c’è senza dubbio un elemento di disordine, ma è il prezzo che bisogna pagare per non perdere la capacità di introdurre novità e cambiamenti. Tutto sommato è un prezzo ragionevole.»

La voce di Bliss si fece leggermente più acuta e sonora. «Ti sbagli, se pensi che Gaia vegeti e si fossilizzi. Le nostre realizzazioni, le nostre usanze, i nostri punti di vista, tutto quanto viene sottoposto a un esame di coscienza costante. Senza un motivo valido, non c’è nulla che persista solamente per inerzia. Gaia impara tramite l’esperienza e il pensiero, perciò cambia quando è necessario.»

«Anche se quel che dici è vero, l’esame di coscienza e l’apprendimento devono essere molto lenti, perché su Gaia non esiste altro che Gaia. Qui, in regime di libertà, anche quando quasi tutti sono d’accordo, c’è sempre una minoranza che discorda e in alcuni casi quella minoranza può darsi che abbia ragione. E se quei pochi sono abbastanza abili, abbastanza entusiasti, abbastanza giusti, alla fine vinceranno e nel futuro diventeranno eroi. Come Hari Seldon, il perfezionatore della psicostoria, le cui concezioni hanno sfidato l’impero galattico e si sono imposte.»

«Seldon ha vinto solo fino a questo momento, Trevize. Il Secondo impero da lui pianificato non si realizzerà. Ci sarà Galaxia, invece.»

«Ah, davvero?» fece Trevize con espressione truce.

«È stata tua la decisione. Anche se continui a discutere con me sostenendo gli isolati con la loro libertà di comportarsi da sciocchi e criminali, nei recessi della tua mente c’è qualcosa che ti ha costretto a essere d’accordo con me/noi/Gaia quando hai fatto la tua scelta.»

«Quello che si cela nei recessi della mia mente è proprio quel che cerco» disse Trevize ancora più arcigno. «Laggiù, tanto per cominciare.» Indicò lo schermo dove una città si estendeva all’orizzonte: a parte alcune eccezioni isolate era un agglomerato di strutture basse circondato da campi marroni coperti da uno strato di brina.

Pelorat scosse il capo. «Peccato. Volevo osservare la fase di avvicinamento, ma mi sono distratto ascoltando la discussione.»

«Non importa, Janov» disse Trevize. «Guarderai quando ce ne andremo. Prometto che terrò la bocca chiusa, sempre che tu riesca a far tacere Bliss.»

E la Stella lontana atterrò nello spazioporto guidata da un raggio a microonde.

XIV

Kendray aveva un’aria grave quando tornò alla stazione d’ingresso e osservò la Stella lontana che passava. Al termine del turno era ancora evidentemente depresso.

Stava consumando l’ultimo pasto della giornata quando uno dei suoi colleghi, un tipo allampanato con gli occhi ben distanziati, radi capelli chiari e sopracciglia così bionde da sembrare assenti, si sedette accanto a lui.

«Cosa c’è che non va, Ken?»

Kendray increspò le labbra. «È appena passata un’astronave gravitazionale, Gatis.»

«Quella strana con radioattività zero?»

«Proprio per questo non era radioattiva. Niente combustibile. Gravitazionale.»

Gatis annuì. «Quella che ci avevano detto di tener d’occhio, giusto?»

«Giusto.»

«E l’hai beccata tu. Il solito fortunato.»

«Non tanto fortunato. A bordo c’era una donna senza documenti e io non ho denunciato la sua presenza.»

«Cosa? Senti, non dirmi niente. Non voglio sapere. Siamo amici ma non ho intenzione di diventare complice del fatto.»

«Non è questo che mi preoccupa, non molto. Ho dovuto mandare giù l’astronave. Vogliono un’astronave gravitazionale: quella o qualsiasi altra, lo sai.»

«Certo, ma almeno avresti potuto fare rapporto sulla donna.»

«Non mi andava. Non è sposata. È stata presa a bordo solo per... essere usata.»

«Quanti uomini c’erano a bordo?»

«Due.»

«E l’hanno presa a bordo solo per quello. Devono essere di Terminus.»

«Esatto.»

«Qui se ne fregano di quel che fanno a Terminus.»

«Già.»

«Disgustoso, la fanno franca.»

«Uno di loro era sposato e non voleva che sua moglie venisse a saperlo. Se avessi denunciato la presenza della donna, la moglie l’avrebbe scoperto.»

«Ma la moglie non è su Terminus?»

«Certo, ma l’avrebbe scoperto ugualmente.»

«Gli starebbe bene, a quel tipo.»

«Sono d’accordo, ma non volevo essere io il responsabile.»

«Se la prenderanno con te perché non hai fatto rapporto. Voler risparmiare dei guai a quel tipo non è una scusa valida.»

«Tu avresti fatto rapporto?»

«Avrei dovuto farlo per forza, credo.»

«No, non avresti dovuto. Il governo vuole quell’astronave. Se avessi insistito per fare rapporto sulla donna, gli uomini a bordo avrebbero cambiato idea e invece di scendere qui sarebbero andati su qualche altro pianeta. E al governo non sarebbe piaciuto.»

«Ma ti crederanno?»

«Penso di sì. Era molto carina, la donna. Pensa, una ragazza del genere disposta ad andare con due uomini e degli uomini sposati col coraggio di approfittarne. Sai, è allettante come idea.»

«Non credo che tua moglie sarebbe contenta se sapesse che hai detto una cosa del genere, o che l’hai pensata.»

Kendray replicò con aria di sfida: «Perché, chi andrà a riferirglielo? Tu?».

«Dài, non dirlo nemmeno per scherzo.» L’espressione indignata di Gatis scomparve rapidamente. Alla fine disse: «In fondo, lasciandoli passare non hai dato una mano a quei tipi».

«Lo so.»

«Giù in superficie scopriranno tutto subito e magari tu la passerai liscia, loro no.»

«Lo so,» annuì Kendray «e mi dispiace per quella gente. I guai che gli creerà la donna saranno poca cosa rispetto ai guai che gli creerà l’astronave. Il comandante ha fatto certi commenti.»

Kendray si interruppe e Gatis lo sollecitò smanioso: «Che commenti?».

«Non importa» rispose Kendray. «Se dovesse spargersi la voce, io mi gioco le chiappe.»

«Non dirò niente.»

«Nemmeno io. Comunque, mi spiace per quei due uomini di Terminus.»

XV

Per chiunque fosse stato nello spazio e avesse conosciuto la sua immutabilità, la parte veramente eccitante arrivava quando si trattava di atterrare su un nuovo pianeta. Il terreno scorreva sotto l’astronave, lasciando intravedere scorci di terra e di acqua, aree e linee geometriche che forse corrispondevano a campi e strade. Si scorgevano il verde della natura che cresceva, il grigio del cemento, il marrone del terreno spoglio, il bianco della neve. E soprattutto, c’era l’eccitazione trasmessa dai centri urbani, città che su ogni mondo presentavano caratteristiche geometriche proprie e varianti architettoniche.

Su una normale astronave, inoltre, ci sarebbe stato il brivido del contatto col terreno e dello spostamento lungo una pista. Per la Stella lontana era diverso. Galleggiando nell’aria, rallentò bilanciando abilmente attrito e gravità e infine si fermò sopra lo spazioporto. Il vento soffiava a raffiche, il che complicava le cose. Quando veniva regolata su una bassa reazione all’attrazione gravitazionale, la Stella lontana non perdeva solo peso in modo anomalo, ma anche massa. Se la sua massa si fosse avvicinata troppo allo zero, il vento l’avrebbe spazzata via velocemente. Pertanto la reazione all’attrazione gravitazionale doveva essere potenziata, e la spinta dei razzi direzionali doveva essere usata con delicatezza non solo contro l’attrazione planetaria, ma anche contro la spinta del vento, e cioè in modo tale da eguagliare il più possibile ogni mutamento di intensità del vento. Senza un computer adeguato sarebbe stato impossibile farlo adeguatamente.

La Stella lontana si abbassò con piccole e inevitabili oscillazioni in un senso o nell’altro, fino a posarsi sul settore assegnatole.

Il cielo era di un azzurro pallido chiazzato di bianco. Anche in superficie il vento era forte e, pur non costituendo più un pericolo per la navigazione, le sue sferzate gelide fecero sussultare Trevize. Si rese subito conto che i loro indumenti non erano adatti al clima di Comporellen.

Pelorat invece si guardò intorno soddisfatto e inspirò a fondo dal naso, apprezzando almeno momentaneamente il morso del freddo. Aprì addirittura il giaccone per sentire il contatto del vento sul petto. Entro breve tempo, lo sapeva, avrebbe richiuso l’indumento e si sarebbe sistemato bene la sciarpa, ma per ora desiderava sentire l’esistenza di un’atmosfera. A bordo di un’astronave era impossibile.

Bliss si strinse nel giaccone e, con mani guantate, si calò il cappello sulle orecchie. Aveva un’espressione disfatta, infelice e sembrava prossima alle lacrime.

«Questo mondo è malvagio» borbottò. «Ci odia e ci maltratta.»

«Niente affatto, cara» replicò Pelorat convinto. «Sono sicuro che i suoi abitanti lo amino e che il mondo li ami, se vogliamo esprimerci così. Tra poco saremo al coperto, al caldo.»

Poi, come in seguito a un ripensamento, scostò un lembo del giaccone e lo avvolse intorno a Bliss, mentre lei gli si rannicchiava contro.

Trevize si sforzò di ignorare la temperatura. Ricevette una tessera magnetizzata dalla direzione portuale, controllando col suo computer tascabile per assicurarsi che fornisse i particolari necessari: il numero di corsia e dell’area di parcheggio, il nome e il numero di matricola dell’astronave e via dicendo. Poi si accertò nuovamente che la Stella lontana fosse ermeticamente chiusa e stipulò la massima assicurazione consentita contro i sinistri (inutile, in realtà, poiché la Stella lontana avrebbe dovuto essere invulnerabile considerato il probabile livello tecnologico di Comporellen e poiché in caso contrario sarebbe stata insostituibile a qualunque prezzo).

Trevize trovò il parcheggio dei taxi dove previsto. (Negli spazioporti parecchie attrezzature e molti servizi si trovavano in posizioni standard ed erano standardizzati come aspetto esteriore e modo d’impiego. Era una scelta obbligata, considerata l’utenza interplanetaria.)

Trevize chiamò un taxi e indicò la destinazione battendo semplicemente “Città”.

Una vettura scivolò verso di loro su pattini diamagnetici, scossa leggermente dal vento e dalle vibrazioni di un motore non proprio silenzioso. Era di colore grigio scuro e le insegne bianche spiccavano sulle portiere posteriori. L’autista indossava un cappotto scuro e un cappello di pelo bianco.

Pelorat, notando certi particolari, commentò sottovoce: «Pare che i colori planetari siano il nero e il bianco».

«Può darsi che in città l’ambiente si vivacizzi un po’» osservò Trevize.

L’autista parlò in un piccolo microfono, forse per evitare di dover aprire il finestrino. «Andate in città, gente?»

Il suo dialetto galattico aveva una cadenza dolce e cantilenante piuttosto simpatica ed era facilmente comprensibile: sempre un sollievo, su un mondo nuovo.

«Esatto» rispose Trevize e la portiera posteriore si aprì scorrendo di lato.

Bliss entrò, seguita da Pelorat e Trevize. La portiera si chiuse e l’aria calda li avvolse.

Bliss si strofinò le mani con un lungo sospiro di sollievo.

Il taxi partì lentamente e l’autista disse: «L’astronave con cui siete arrivati è gravitazionale, vero?».

Trevize rispose asciutto: «Considerando il modo in cui è atterrata, ha qualche dubbio?».

«È di Terminus, allora?» chiese l’autista.

«Conosce qualche altro mondo in grado di costruirne una?» disse Trevize.

Il conducente rifletté per un attimo mentre il taxi acquistava velocità. Poi disse: «Quando le fanno una domanda, risponde sempre con un’altra domanda?».

Trevize non seppe resistere. «Perché no?»

«In tal caso, cosa risponderebbe se le chiedessi se si chiama Golan Trevize?»

«Risponderei: “Perché me lo chiede?”.»

Il taxi si fermò ai margini dello spazioporto e l’autista disse: «Semplice curiosità! Glielo chiedo ancora. Lei è Golan Trevize?».

La voce di Trevize divenne dura e ostile. «Sono affari suoi?»

«Amico mio,» disse l’autista «finché non risponderà alla mia domanda non ci muoveremo. E se non risponderà in modo chiaro con un sì o un no entro due secondi, spegnerò il riscaldamento del vano passeggeri e continueremo ad aspettare. Lei è Golan Trevize, consigliere di Terminus? In caso di risposta negativa dovrà mostrarmi i suoi documenti.»

«Sì, sono Golan Trevize e come consigliere della Fondazione pretendo di essere trattato con tutta la cortesia dovuta alla mia carica. Se sarà irriguardoso si metterà nei pasticci, amico. Allora?»

«Adesso possiamo procedere un po’ più distesi.» L’autista si avviò di nuovo. «Scelgo attentamente i miei passeggeri e mi aspettavo di dare un passaggio a due uomini e basta. La donna è stata una sorpresa per me, così ho pensato di essermi sbagliato. Invece ho a bordo le persone giuste e lascerò che siate voi a spiegare la presenza della donna quando sarete arrivati a destinazione.»

«Lei non sa quale sia la mia destinazione.»

«Guarda caso, lo so. Va al dipartimento dei Trasporti.»

«Non è là che voglio andare.»

«Questo non ha la minima importanza, consigliere. Se fossi un tassista la porterei dove vuole. Dato che non lo sono, la porterò dove voglio andare io.»

«Scusi,» disse Pelorat sporgendosi in avanti «ma mi pare che lei guidi un taxi.»

«Chiunque può guidarlo, ma non tutti hanno la licenza. E non tutte le vetture che sembrano taxi lo sono.»

Trevize intervenne: «Smettiamola di cincischiare. Chi è lei e cosa sta facendo? Ricordi che dovrà rendere conto del suo comportamento alla Fondazione».

«Io no» ribatté l’autista. «I miei superiori, forse. Io sono un agente della forza di sicurezza comporelliana. Ho l’ordine di trattarla col dovuto rispetto in considerazione della sua carica, ma deve seguirmi. E niente scherzi, perché questo veicolo è armato e ho l’ordine di difendermi in caso di aggressione.»

XVI

Il veicolo, raggiunta la velocità di crociera, avanzava silenzioso e senza scossoni ma Trevize sedeva assolutamente immobile, come pietrificato. Si rese conto, anche senza guardare, che di tanto in tanto Pelorat lo fissava con espressione incerta e sembrava chiedergli: “Adesso che facciamo? Per favore, dimmelo”.

Bliss, notò Trevize dopo una rapida occhiata, era invece calma, apparentemente imperturbabile. Certo, lei era un mondo intero di per se stessa. Tutta Gaia, nonostante la distanza galattica, era racchiusa nella sua pelle. Bliss disponeva di enormi risorse e poteva utilizzarle in caso di emergenza.

Ma, in sostanza, cos’era successo?

Evidentemente il funzionario della stazione d’ingresso, seguendo la prassi, aveva inoltrato il suo rapporto omettendo Bliss. Il rapporto aveva attirato l’attenzione del corpo di sicurezza e, fatto strano, del dipartimento dei Trasporti. Perché?

Era tempo di pace e Trevize non era al corrente di attriti particolari fra Comporellen e la Fondazione. Lui stesso era un importante funzionario della Fondazione.

Un attimo: al funzionario della stazione d’ingresso (Kendray, si chiamava così) aveva detto di dover trattare affari importanti con il governo locale. Lo aveva sottolineato, nel tentativo di ottenere il permesso d’ingresso. Kendray doveva aver riferito anche questo fatto, il che aveva suscitato ovviamente un interesse notevole.

Trevize non lo aveva previsto, mentre avrebbe dovuto prevederlo.

Dov’era finita la sua prodigiosa intuizione? Cominciava a credere veramente di essere la scatola nera che diceva Gaia? Si stava facendo attirare in un pantano per eccesso di sicurezza basato sulla superstizione?

Come aveva potuto lasciarsi intrappolare anche per un attimo da quell’idea folle? Non aveva mai sbagliato in vita sua? Per caso conosceva le condizioni meteorologiche del giorno dopo, vinceva forti somme ai giochi d’azzardo? No e poi no.

Probabilmente aveva ragione sulla genericità dei fatti e le grandi linee, ma era impossibile prevedere ogni particolare.

Meglio lasciar perdere. Dopotutto, dichiarando di avere importanti affari di stato... No, aveva parlato di motivi di sicurezza della Fondazione.

Ecco il punto: dichiarando di essere venuto per motivi di sicurezza della Fondazione e arrivando in gran segreto, senza contatti ufficiali, era logico che attirasse l’attenzione. Già, eppure finché non avessero saputo di che cosa si trattasse, i comporelliani avrebbero dovuto agire con la massima circospezione, avrebbero dovuto essere cerimoniosi, trattarlo come si conveniva a un personaggio di primo piano. Non avrebbero dovuto rapirlo e ricorrere alle minacce.

Ma era quello che avevano fatto. Perché?

Cosa li faceva sentire tanto forti e potenti da riservare una simile accoglienza a un consigliere di Terminus?

La Terra, forse? La stessa forza che nascondeva così efficacemente il mondo d’origine ai mentalisti della Seconda Fondazione era all’opera per ostacolare sul nascere la ricerca di Trevize? La Terra era onnisciente, onnipotente?

Trevize scosse il capo. No, quelli erano sintomi paranoici. Poteva incolpare la Terra di tutto? Ogni comportamento strano, ogni circostanza avversa, ogni piccolo intralcio doveva dipendere dalle macchinazioni segrete della Terra? Cominciando a pensare in quella maniera, poteva già considerarsi battuto.

Sentì che il veicolo rallentava e fu riportato di colpo al presente.

Si rese conto di non aver osservato, neppure per un attimo, la città che avevano attraversato. Al che si guardò intorno, con un pizzico d’ansia. Gli edifici erano bassi ma era un pianeta freddo e probabilmente gran parte delle strutture erano sotterranee.

Non vide traccia di colori e questo gli sembrò contrario alla natura umana.

Di tanto in tanto vedeva passare una persona infagottata. Del resto la gente, come gli edifici, doveva trovarsi per lo più sottoterra.

Il taxi si era fermato davanti a una costruzione bassa e ampia, situata in una depressione di cui Trevize non riusciva a scorgere il fondo. Passarono alcuni secondi e il taxi continuava a rimanere immobile, come l’autista. Il suo cappello bianco di pelo sfiorava il tetto del veicolo.

Trevize si chiese per un istante come facesse l’autista a salire e a scendere senza perdere il cappello, poi disse con la collera contenuta che era lecito aspettarsi da un funzionario altero e bistrattato: «Ebbene, autista. Adesso?».

La versione comporelliana del campo di forza scintillante che separava il conducente dai passeggeri non era affatto rudimentale. Le onde sonore potevano attraversarlo, ma Trevize era certo che gli oggetti materiali con una certa forza d’impatto non l’avrebbero superato.

«Qualcuno salirà a prendervi» rispose l’autista. «Restate seduti e tranquilli.»

Mentre parlava, tre teste sbucarono lentamente dall’avvallamento che ospitava l’edificio, seguite dal resto dei corpi. Chiaramente i tre uomini salivano con una specie di scala mobile, ma dalla posizione in cui si trovava Trevize non era in grado di notare i particolari.

Mentre i tre si avvicinavano, la portiera del taxi si aprì, lasciando entrare una ventata d’aria gelida.

Trevize smontò, stringendo il giaccone al collo. Gli altri due lo imitarono; Bliss con considerevole riluttanza.

I tre comporelliani erano informi, indossavano indumenti rigonfi che con ogni probabilità erano riscaldati elettricamente. Trevize provò disprezzo a quella vista. Certe cose erano superflue su Terminus e l’unica volta che aveva preso in prestito un soprabito termico durante l’inverno sul vicino pianeta Anacreon, Trevize aveva scoperto che l’indumento tendeva a scaldarsi lentamente, così quando si era accorto di avere troppo caldo stava già sudando abbondantemente.

Mentre i comporelliani avanzavano, Trevize notò indignato che erano armati e non si curavano di nasconderlo. Anzi, ognuno aveva un fulminatore in una fondina fissata esternamente.

Uno di loro, fermandosi di fronte a Trevize, disse con voce burbera: «Scusi, consigliere» e gli aprì il giaccone con un movimento brusco. Allungò le mani e le spostò velocemente su e giù lungo i fianchi di Trevize, lungo la schiena, il torace e le cosce. Il giaccone venne scosso e tastato. Sopraffatto dalla confusione e dallo sbigottimento, Trevize si rese conto di essere stato perquisito con estrema efficienza solo a operazione terminata.

Pelorat, il mento piegato e la bocca contratta in una smorfia, subì lo stesso trattamento indegno per mano del secondo comporelliano.

II terzo si accostò a Bliss, che agì prima di lasciarsi toccare. Lei almeno sapeva che cosa aspettarsi, perché si tolse il giaccone e per alcuni attimi rimase esposta al sibilo del vento coperta solamente da indumenti leggeri.

In tono gelido quanto la temperatura, disse: «Vede benissimo che non sono armata».

Era più che evidente. Il comporelliano scosse il giaccone, come se dal peso fosse in grado di giudicare se contenesse un’arma (forse era in grado di stabilirlo), quindi indietreggiò.

Bliss tornò a infilarsi il giaccone, avvolgendoselo bene addosso e Trevize non poté fare a meno di ammirare il suo gesto. Sapeva quanto soffrisse il freddo, eppure non si era lasciata sfuggire un solo tremito mentre restava in camicetta e calzoni. (Poi si domandò se, in quella particolare emergenza, non avesse assorbito calore dal resto di Gaia.)

Un comporelliano li chiamò con un gesto e i tre forestieri lo seguirono. Gli altri due comporelliani si accodarono. Un paio di pedoni che erano per strada non si presero la briga di osservare cosa stesse accadendo. O erano abituati a episodi del genere o, più probabilmente, non pensavano ad altro che a raggiungere un ambiente chiuso al più presto.

Trevize ebbe modo di constatare che quella lungo la quale i comporelliani erano saliti poco prima era una rampa mobile. Ora scendevano e attraversarono tutti e sei un sistema di chiusura complicato quasi quanto quello di un’astronave: senza dubbio per trattenere il calore all’interno, non l’aria.

E a un tratto si ritrovarono in un edificio enorme.

Fondazione. Il ciclo completo
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