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«Non ci credo, naturalmente» disse Golan Trevize, contemplando dall’ampia scalinata del palazzo Seldon la città che scintillava alla luce del sole.
Terminus era un pianeta dal clima mite, con un favorevole rapporto acqua-terra. L’introduzione del controllo atmosferico l’aveva reso ancora più confortevole ma meno interessante, almeno agli occhi di Trevize.
«Non ci credo minimamente» ripeté e sorrise. I suoi denti bianchi e regolari brillavano sul volto giovane.
Il suo compagno e collega consigliere, Munn Li Compor, che aveva adottato un secondo nome sfidando la tradizione di Terminus, scosse il capo, visibilmente a disagio. «In cosa non credi? Nel fatto che abbiamo salvato la città?»
«Oh, ci credo, sì. Perché l’abbiamo salvata, vero? E Seldon disse che l’avremmo salvata e che sarebbe stato giusto farlo, e sapeva tutte queste cose già allora, cinquecento anni fa.»
Compor abbassò la voce e disse, quasi in un sussurro: «Senti, con me puoi anche parlare così, tanto le prendo come semplici chiacchiere, ma se ti esprimi a voce alta in mezzo alla gente sentiranno anche altri, e francamente non ho alcuna voglia di trovarmi vicino a te quando il fulmine colpirà. Non sono così sicuro che la sua mira sia precisa».
Trevize continuò a sorridere, imperturbabile. «Che male c’è a dire che la città è stata salvata? E che l’abbiamo salvata senza guerre?»
«Non c’era nessuno da combattere» disse Compor. Aveva i capelli di un giallo burroso, gli occhi azzurro cielo, e aveva sempre resistito alla tentazione di alterare quelle tonalità così fuori moda.
«Non hai mai sentito parlare di guerra civile, Compor?» chiese Trevize. Era alto, con i capelli neri lievemente ondulati, e aveva l’abitudine di camminare con i pollici infilati nella fusciacca di fibre morbide che indossava sempre.
«Una guerra civile per decidere quale debba essere la capitale?»
«Il problema è stato abbastanza serio da determinare una Crisi Seldon. La carriera politica di Hannis è stata distrutta. Tu e io siamo finiti candidati alle ultime elezioni del Consiglio e la questione è rimasta in sospeso» e imitò con la mano il lento movimento di una bilancia che si assestasse in posizione di riposo.
Si fermò sulle scale, dimentico degli altri componenti del governo, dei media e dei membri del bel mondo vestiti all’ultima moda, che avevano brigato per ottenere l’invito ad assistere al ritorno di Seldon (o, per meglio dire, al ritorno della sua immagine).
Tutti, scendendo le scale, parlavano, ridevano, esaltavano la perfezione di ogni cosa, si beavano dell’approvazione di Seldon.
Trevize rimase fermo e lasciò che la folla sciamasse via. Compor, che aveva fatto due passi avanti, si arrestò. I due sembravano trattenuti da una fune invisibile. «Non vieni?» gli chiese Compor.
«Non c’è fretta. La riunione del Consiglio non inizierà fino a quando il sindaco Branno non avrà illustrato la situazione con i suoi modi risoluti e una lentezza da una-sillaba-alla-volta. Non sono affatto ansioso di sorbirmi un altro noiosissimo discorso. Guarda la città!»
«La vedo. È uguale a com’era ieri.»
«Sì, ma tu l’hai vista cinquecento anni fa, quando fu fondata?»
«Quattrocentonovantotto» lo corresse istintivamente Compor. «Fra due anni si celebrerà il mezzo millennio e il sindaco Branno sarà ancora in carica e lotterà come ora per impedire – speriamo – il verificarsi di improbabili avvenimenti negativi.»
«Speriamo» disse Trevize, secco. «Ma a cosa somigliava questo posto cinquecento anni fa, quando fu fondato? Era una città! Una piccola città abitata da un gruppo di uomini che preparavano un’Enciclopedia che non fu mai finita.»
«Ma sì che fu finita.»
«Ti riferisci all’attuale Enciclopedia galattica? Quella non è l’Enciclopedia alla quale lavoravano loro: la nostra si trova in un computer e viene corretta quotidianamente. Hai mai dato un’occhiata all’originale incompleto?»
«Intendi quello del Museo Hardin?»
«Il Museo Salvor Hardin delle Origini. Di’ il nome completo, per piacere, visto che sei così pignolo sulle date. Gli hai dato un’occhiata?»
«No. Dovrei?»
«No, non ne vale la pena. A ogni modo questi enciclopedisti formavano il nucleo della città, una città piccola in un mondo praticamente privo di metalli che girava intorno a un sole isolato dal resto della galassia. Un sole ai margini, proprio ai margini estremi. E adesso, cinquecento anni dopo, siamo un mondo periferico. Un immenso parco, con tutto il metallo che si vuole. Siamo al centro di tutto, ora?»
«Non proprio. Giriamo ancora attorno a un sole isolato dal resto della galassia. Siamo sempre ai suoi margini estremi.»
«Ah no, lo dici senza pensare. Sta proprio qui il succo della piccola Crisi Seldon che abbiamo appena attraversato. Siamo qualcosa di più del singolo pianeta chiamato Terminus. Siamo la Fondazione, che arriva con i suoi tentacoli in ogni parte della galassia e la governa pur standone agli estremi confini. Possiamo farlo perché non siamo isolati, se non per la posizione, che però non conta.»
«E va bene, hai ragione.» Compor era evidentemente poco interessato e scese un altro scalino. La corda invisibile tesa fra loro si allungò un poco.
Trevize mosse una mano, come per indurre il suo compagno a risalire gli scalini. «Non afferri il significato, Compor? C’è quest’enorme cambiamento, ma noi non l’accettiamo. In cuor nostro siamo rimasti attaccati alla piccola Fondazione, al piccolo mondo dei tempi antichi, i tempi dei ferrei eroi e nobili santi che sono scomparsi per sempre.»
«Ma va’ là!»
«Dico sul serio, guarda palazzo Seldon. All’epoca delle prime crisi e di Salvor Hardin era solo la Volta del Tempo, un piccolo auditorio in cui appariva l’immagine olografica del grande scienziato. Nient’altro. Adesso è un mausoleo colossale, ma c’è forse una scala mobile attivata da un campo di forza? O uno scivolo? O un ascensore gravitazionale? Macché. Non servirebbero, perché all’epoca di Salvor Hardin non si parlava di giacimenti di metallo nel pianeta, né di metallo importato. Abbiamo perfino tirato fuori della vecchia plastica ingiallita dal tempo, quando abbiamo costruito quest’enorme edificio, tutto perché i visitatori provenienti dagli altri mondi si fermassero a dire: “Per la galassia, che deliziosa vecchia plastica!”. Te lo dico io, Compor, è tutta una messinscena.»
«È a questo allora che non credi? A palazzo Seldon?»
«E al suo contenuto» disse Trevize a bassa voce, convinto. «Credo proprio che non abbia senso stare nascosti qui ai margini dell’universo, solo perché lo facevano i nostri antenati. Penso che dovremmo stare nel cuore della galassia, al centro degli avvenimenti.»
«Ma Seldon dice che qui sbagli. Il Piano funziona come previsto.»
«Lo so, lo so. E su Terminus si insegna ai bambini fin da piccoli che Hari Seldon elaborò un piano, previde ogni cosa cinque secoli fa, creò la Fondazione in modo da poter riconoscere le eventuali crisi e ci guidò attraverso mille anni di storia, così da permetterci di fondare senza rischi un Secondo e più grande impero galattico sulle rovine della vecchia struttura decrepita, crollata cinque secoli fa e disgregatasi completamente da due secoli.»
«Perché mi dici tutte queste cose, Golan?»
«Perché voglio che tu capisca che è una messinscena. È tutta una messinscena. Oppure, se anche era una realtà all’inizio, ora non lo è più. Non siamo i padroni di noi stessi. Non siamo noi che seguiamo il Piano.»
Compor guardò l’altro con occhi indagatori. «Hai fatto discorsi di questo tipo altre volte, Golan, ma ho sempre pensato che tirassi fuori teorie ridicole per stuzzicarmi. Adesso invece, per la galassia, penso che parli sul serio.»
«Certo che parlo sul serio!»
«Com’è possibile? O hai scelto un modo abbastanza complicato per prenderti gioco di me, o sei pazzo.»
«Né l’una né l’altra cosa» replicò Trevize tranquillo, e infilò i pollici nella fusciacca come se non avesse più bisogno di gesticolare per sottolineare le sue convinzioni. «È vero, ho già riflettuto in passato sulla faccenda, ma allora si trattava di semplici intuizioni. Stamattina, però, quella farsa là dentro mi ha all’improvviso chiarito tutto. Quando sarà il mio turno di parlare intendo esporre francamente le mie opinioni al Consiglio.»
«Sei veramente pazzo.»
«Ah sì? Vieni con me e sentirai.»
I due scesero le scale. Erano rimasti gli unici, tutti gli altri se n’erano andati. Mentre Trevize precedeva l’amico di qualche passo, Compor mosse in silenzio le labbra rivolto alla schiena dell’altro e disse in silenzio: «Stupido!».