9
Affrontando il branco
XXXV
La Stella lontana si posò ai piedi di una lieve altura, una collina che affiorava in una campagna generalmente piatta. Quasi senza rendersene conto, Trevize aveva ritenuto opportuno far sì che l’astronave non fosse visibile per parecchi chilometri in ogni direzione.
Annunciò: «La temperatura esterna è di ventiquattro gradi; il vento soffia da ovest a circa undici chilometri orari e il cielo è parzialmente coperto. Il computer non dispone di informazioni sufficienti sulla circolazione generale dell’aria per una previsione meteorologica. Comunque, poiché l’umidità si aggira sul quaranta per cento, è improbabile che piova. Tutto sommato, pare che abbiamo scelto una latitudine o una stagione favorevole. Il che è un vero piacere, dopo Comporellen».
«Dal momento che il pianeta continua a sterraformarsi,» intervenne Pelorat «immagino che le condizioni meteorologiche subiranno una drastica trasformazione.»
«Ne sono sicura» disse Bliss.
«Liberissima di esserlo» disse Trevize. «Abbiamo migliaia d’anni di margine. Per adesso è ancora un pianeta accogliente e continuerà a esserlo finché saremo in vita e oltre.»
Mentre parlava si allacciò un’ampia cintura sui fianchi e Bliss gli chiese trasalendo: «Cosa fai, Trevize?».
«Frutto del mio vecchio addestramento in Marina» rispose. «Non scendo su un mondo sconosciuto disarmato.»
«Intendi davvero portare delle armi?»
«Certo. Qui a destra» Trevize batté su una fondina che conteneva un’arma massiccia dall’estremità tozza «c’è il mio fulminatore e qui a sinistra» (un’arma più piccola con una canna sottile priva di apertura) «ho la mia frusta neuronica.»
«Due varietà di assassinio» replicò Bliss disgustata.
«Una sola. Il fulminatore uccide, la frusta neuronica no. Stimola i centri nervosi del dolore e provoca una sofferenza tale che sarebbe quasi preferibile la morte, ho sentito dire. Fortunatamente, non ne hanno mai usata una contro di me.»
«Perché le porti?»
«Te l’ho detto, è un mondo ostile.»
«Trevize, è un mondo deserto!»
«Davvero? Non c’è una società tecnologica, pare, ma se ci fossero dei primitivi in fase post-tecnologica? Potrebbero essere armati di clave o di pietre e anche quelle possono essere letali.»
Bliss sembrava esasperata, ma abbassò la voce sforzandosi di mantenere un atteggiamento ragionevole. «Non percepisco alcuna attività neuronica umana, Trevize. Per cui non esistono primitivi di alcun genere, né post-tecnologici né che so io.»
«In tal caso non dovrò utilizzare le armi. Insomma, che male c’è se le porto? Mi appesantiranno soltanto un po’ ed è uno sforzo più che sopportabile dal momento che la forza di gravità in superficie è circa il novantuno per cento di quella di Terminus. Senti, l’astronave in quanto tale è disarmata, ma a bordo c’è una scorta discreta di armi portatili. Anche voi due dovreste prenderle.»
«No» scattò Bliss. «Non farò alcun gesto che possa causare la morte o la sofferenza di altri.»
«Non si tratta di uccidere ma di evitare di essere uccisi, se cogli la differenza.»
«Sono perfettamente in grado di proteggermi a modo mio.»
«Janov?»
Pelorat esitò. «Su Comporellen non avevamo armi.»
«Via, Janov, Comporellen non era un’incognita ma un mondo alleato della Fondazione. E poi siamo stati arrestati. Se avessimo avuto delle armi, ce le avrebbero tolte. Vuoi un fulminatore?»
Pelorat scosse il capo. «Non sono mai stato in Marina, amico mio. Non saprei come usare uno di quegli aggeggi e in caso d’emergenza non reagirei in tempo. Mi limiterei a scappare e verrei ucciso.»
«Non resterai ucciso, Pel» disse decisa Bliss. «Sei sotto la mia protezione. Gaia e io proteggeremo te e questo spaccone della Marina.»
«Ottimo,» disse Trevize «la protezione mi sta bene, ma non sto facendo l’eroe spaccone. Voglio essere il più possibile sicuro e, se non dovrò ricorrere all’uso delle armi, ne sarò felicissimo, te lo garantisco. Ma devo averle con me.»
Batté affettuosamente sulle fondine e continuò: «Adesso scendiamo su questo mondo, che forse non sopporta il peso di esseri umani da migliaia d’anni».
XXXVI
«Ho l’impressione che sia abbastanza tardi» osservò Pelorat. «Eppure dalla posizione del sole dovrebbe essere all’incirca mezzogiorno.»
«Probabilmente» disse Trevize studiando il tranquillo panorama «la tua impressione dipende dalla sfumatura arancione del sole, un colore adatto al tramonto. Se fossimo ancora qui al tramonto vero e proprio, con il cielo sereno, sicuramente vedremmo uno spettacolo di un rosso insolitamente scuro. Non so se lo troveresti bello o deprimente. Scommetto che su Comporellen il fenomeno era ancor più accentuato, ma là in pratica siamo rimasti sempre al coperto.»
Si girò lentamente scrutando in tutte le direzioni. Oltre a quella strana luminosità subliminale, il pianeta o almeno la regione aveva un odore tutto particolare, leggermente stantio ma per nulla sgradevole.
Gli alberi vicini erano di altezza media e sembravano vecchi, con cortecce nodose e tronchi un po’ pendenti, forse a causa della direzione predominante del vento, forse a causa di qualche carenza del terreno. Erano gli alberi che conferivano un che di vagamente minaccioso all’ambiente o era qualcos’altro di meno materiale?
«Cosa intendi fare, Trevize?» chiese Bliss. «Non saremo venuti fin qui solo per ammirare il panorama.»
«In effetti, la mia parte dovrebbe essere proprio questa. Propongo che sia Janov a esplorare la zona: in quella direzione ci sono delle rovine ed è lui la persona in grado di giudicare il valore dei documenti che potremmo trovare. Janov è in grado di capire il galattico arcaico, io no. E immagino che tu, Bliss, voglia andare con lui per proteggerlo. Io invece rimarrò qui, a montare la guardia.»
«La guardia contro chi? Dei primitivi armati di pietre e di clave?»
«Può darsi.» Poi il sorriso che increspava le labbra di Trevize svanì. «È strano, Bliss. Non so perché, ma questo posto ha qualcosa che non mi convince.»
«Vieni, Bliss» disse Pelorat. «È da una vita che me ne sto rintanato nel mio studio a raccogliere vecchie leggende e non ho mai toccato con mano un documento antico. Pensa, se riuscissimo a trovare...»
Trevize li osservò mentre si allontanavano. La voce di Pelorat si perse, man mano che lo studioso si avviava smanioso verso i ruderi; Bliss camminava al suo fianco.
Trevize ascoltò distrattamente, dopo di che si voltò e riprese a studiare i dintorni. Che cosa poteva causare l’apprensione che avvertiva?
Non aveva mai messo piede su un mondo privo di popolazione umana, ma ne aveva visti parecchi dallo spazio. Di solito erano mondi piccoli o non sufficientemente grandi da avere acqua e aria, ma erano utili come punto d’incontro durante le manovre navali (non c’erano state guerre nell’arco di vita di Trevize, né nel secolo precedente, eppure le esercitazioni continuavano). In altre occasioni servivano per esercitarsi nelle riparazioni d’emergenza simulate. Le astronavi su cui si trovava Trevize avevano orbitato intorno a quei mondi o erano scese su alcuni, ma lui non aveva mai avuto occasione di sbarcare.
La sua apprensione derivava forse dal fatto che si trovava veramente su un mondo deserto? Avrebbe provato la stessa sensazione se si fosse trovato su uno dei tanti planetoidi senz’aria in cui si era imbattuto in gioventù?
Scosse il capo. Non avrebbe provato alcun disagio, ne era sicuro. Avrebbe indossato una tuta spaziale, come aveva fatto innumerevoli volte uscendo a galleggiare nello spazio. Era una situazione familiare e il contatto con un semplice pezzo di roccia lasciava inalterato quel senso di familiarità. Certo!
Era perché adesso non indossava una tuta spaziale.
Si trovava su un mondo abitabile, accogliente come Terminus, molto più accogliente di Comporellen. Sentiva il vento in faccia, il calore del sole sulla schiena, il fruscio della vegetazione nelle orecchie. Tutto familiare, a parte il fatto che su quel mondo non c’erano esseri umani, o probabilmente non più.
Era quello il problema? Perciò il pianeta sembrava così misterioso, inquietante? Non soltanto disabitato ma anche abbandonato?
Non era mai stato prima su un mondo abbandonato; non ne aveva mai sentito parlare, né aveva pensato che si potesse disertare un mondo. Per quel che ne sapeva, tutti i pianeti abitati dagli esseri umani erano rimasti così per sempre.
Osservò il cielo. Solo l’uomo se n’era andato da lì. Di tanto in tanto un uccello gli attraversava il campo visivo e gli sembrava più naturale – chissà perché – del cielo grigio-blu che affiorava tra le nuvole sfumate di arancione. (Trevize era sicuro che trascorrendo qualche giorno sul pianeta si sarebbe abituato a quel colore strano, che dopo un po’ il cielo e le nuvole gli sarebbero sembrati perfettamente normali.)
Si avvertivano i richiami degli uccelli fra gli alberi e i suoni più deboli prodotti dagli insetti. Bliss aveva accennato alle farfalle e le farfalle c’erano davvero, numerose e multicolori.
Di tanto in tanto si sentivano dei fruscii provenienti dalle macchie erbose intorno agli alberi, ma Trevize non riuscì a stabilirne la causa.
Del resto, la presenza evidente di forme di vita nella zona non suscitava in lui alcun timore. Come aveva detto Bliss, i mondi terraformati erano privi fin dall’inizio di animali pericolosi. Le fiabe dell’infanzia e le fantasticherie eroiche della sua adolescenza erano invariabilmente ambientate su un mondo leggendario derivato senza dubbio dai miti nebulosi della Terra. Gli olodrammi ipervisivi erano pieni di mostri, leoni, unicorni, draghi, balene, brontosauri, orsi e decine di altre creature di cui non ricordava il nome, alcune certamente mitiche, probabilmente tutte. C’erano animali più piccoli che mordevano e pungevano, perfino piante che era meglio non toccare, ma solo nel campo dell’immaginario. Una volta aveva sentito dire che le api mellifere primitive potevano pungere, ma nessuna ape vera era nociva.
Lentamente s’incamminò verso destra, costeggiando il margine della collina. L’erba era alta e abbondante ma cresceva a macchie sparse. Si addentrò fra gli alberi che crescevano a gruppi come le chiazze d’erba.
Poi sbadigliò; non succedeva nulla di eccitante e Trevize si domandò se non fosse il caso di tornare a bordo e fare un sonnellino. No, inammissibile. Doveva restare di guardia.
Forse avrebbe potuto comportarsi come una vera sentinella, marciare, uno, due, uno, due, girarsi di scatto ed eseguire manovre complicate con una elettrobarra da parata. (Era un’arma in disuso da tre secoli eppure ancora essenziale in un’esercitazione, senza che nessuno sapesse spiegarne il motivo.)
A quel pensiero sorrise, poi si chiese se dovesse unirsi a Pelorat e Bliss fra le rovine. No, a che scopo andare laggiù?
E se avesse notato qualcosa che Pelorat si era lasciato sfuggire? Avrebbe dato un’occhiata quando l’altro fosse tornato, ma se c’era qualcosa di facilmente individuabile era meglio che fosse Pelorat a fare la scoperta.
Se i due si fossero trovati nei guai... Sciocchezze, che genere di guai?
Lo avrebbero chiamato.
Si fermò ad ascoltare: nulla.
L’idea irresistibile di fare la sentinella si riaffacciò alla sua mente e Trevize si scoprì a marciare. Batté i piedi con forza, staccò dalla spalla una elettrobarra immaginaria, la fece ruotare tendendola in verticale di fronte a sé, poi di nuovo, e la riaccostò all’altra spalla. Infine, con un rapido dietrofront tornò a voltarsi in direzione dell’astronave (piuttosto lontana, adesso).
A quel punto si bloccò di colpo, non però per imitare i gesti di una sentinella.
Non era più solo.
Fino a quel momento non aveva visto creature viventi a parte la vegetazione, gli insetti e qualche volatile. Non aveva visto nulla né sentito avvicinarsi nulla, ma adesso tra lui e l’astronave c’era un animale.
La sorpresa per quell’avvenimento inatteso gli impedì per un attimo di interpretare quel che stava vedendo. Solo dopo un certo intervallo capì di cosa si trattasse.
Era semplicemente un cane.
Trevize non era un cinofilo: non aveva mai avuto cani e non provava sentimenti amichevoli quando ne incontrava uno. Non ne provò neppure in quel momento; pensò, piuttosto spazientito, che quelle creature avevano seguito l’uomo su tutti i mondi. Ne esistevano innumerevoli razze e Trevize aveva da tempo l’impressione seccante che ogni pianeta vantasse almeno una razza tipica. Comunque, tutte presentavano un aspetto costante: che fossero tenuti per passatempo, per ostentazione o per chissà quale mansione utile, i cani erano allevati in modo tale da amare gli esseri umani e fidarsi di loro.
Erano un amore e una fiducia che Trevize non aveva mai apprezzato. Un tempo aveva vissuto con una donna che aveva un cane. Quel cane, che Trevize sopportava per non contrariare la donna, lo adorava incondizionatamente, lo seguiva, gli si appoggiava contro quando si rilassava (con i suoi venticinque chili), lo copriva di saliva e di peli nei momenti più impensati e si accovacciava fuori della porta per guaire ogni volta che Trevize e la donna cercavano di dedicarsi al sesso.
In seguito a quell’esperienza, Trevize aveva concluso di essere, per qualche ragione nota solo alla mente canina e alla sua capacità analitica olfattiva, un oggetto fisso della devozione di quegli animali.
Quindi, superata la sorpresa iniziale, osservò il cane tranquillamente. Era grosso, scarno, con le zampe lunghe. Lo fissava senza alcun segno evidente di adorazione. Aveva la bocca aperta in quello che avrebbe potuto essere interpretato come un ghigno di benvenuto, ma i denti che si vedevano avevano un che di minaccioso e Trevize decise che si sarebbe sentito più a proprio agio se l’animale si fosse allontanato, uscendo dal suo campo visivo.
Gli venne in mente che il cane non aveva mai visto un essere umano e che innumerevoli generazioni canine passate non ne avevano visto uno. Probabilmente aveva avuto la stessa reazione di stupore e di incertezza di Trevize e, mentre lui aveva riconosciuto quasi subito il cane per quello che era, l’animale non godeva di questo vantaggio. Era ancora perplesso, forse allarmato.
Date le dimensioni e la dentatura dell’animale, conveniva affrettarsi a dissipare i suoi timori. Trevize si rese conto dell’utilità di instaurare immediatamente un rapporto di amicizia.
Adagio, molto adagio, si avvicinò al cane (senza compiere movimenti bruschi, naturalmente). Tese la mano, pronto a lasciarsela fiutare e cercò di incoraggiare il cane dicendo sottovoce cose del tipo: «Su, bravo cagnetto» e sentendosi piuttosto imbarazzato.
Il cane, gli occhi fissi su Trevize, indietreggiò di un paio di passi, come se non si fidasse, poi arricciò il labbro superiore e dalla sua bocca scaturì una specie di ruggito stridulo. Anche se Trevize non aveva mai visto un cane comportarsi così, non si poteva che interpretare la sua reazione come un atteggiamento minaccioso.
Decise di non avanzare oltre e si immobilizzò. Con lo sguardo colse dei movimenti su un lato e girò la testa lentamente. C’erano altri due cani che avanzavano dalla stessa direzione. Avevano un aspetto ostile come il primo, un’aria micidiale.
Micidiale? Si rese conto un attimo dopo del significato dell’aggettivo e gli parve terribilmente appropriato.
Di colpo, il cuore prese a battergli forte. La strada verso l’astronave era sbarrata. Non poteva mettersi a correre senza una meta precisa, perché le lunghe zampe canine lo avrebbero raggiunto dopo pochi metri. Se fosse rimasto lì e avesse usato il fulminatore, mentre uccideva il primo gli altri due gli sarebbero balzati addosso. In lontananza vide altri cani che si avvicinavano. Comunicavano in qualche modo? Cacciavano in branchi?
Lentamente si spostò a sinistra, una direzione in cui non c’erano cani... per ora. Lentamente, molto lentamente.
I cani si spostarono anch’essi. Se non lo avevano attaccato subito era solo perché prima d’ora non avevano mai visto né fiutato una creatura come lui, Trevize ne era sicuro. Non avevano alcuno schema di comportamento da seguire.
Se si fosse messo a correre, la sua fuga avrebbe rappresentato un fenomeno familiare per i cani. Sapevano in che modo reagire se un essere delle dimensioni di Trevize avesse dimostrato di aver paura e fosse scappato. Si sarebbero messi a correre anche i cani, più velocemente.
Trevize continuò a ritirarsi verso un albero. Non vedeva l’ora di rifugiarsi lassù, dove i cani non avrebbero potuto raggiungerlo. Gli animali continuarono a seguire i suoi spostamenti e ad avvicinarsi ringhiando. Tutti e tre lo fissavano. Intanto, altri due animali si stavano unendo ai primi e Trevize vide che da lontano ne sopraggiungeva un certo numero. Una volta vicino all’albero, avrebbe dovuto scattare. Non poteva aspettare troppo, ma non poteva nemmeno muoversi troppo in fretta. Sarebbero stati due errori probabilmente fatali.
Adesso!
Trevize stabilì senza dubbio un record personale di velocità, ma nonostante la sua accelerazione riuscì a mettersi in salvo per un pelo. Sentì uno scatto di mascelle vicino a un tacco e per una frazione di secondo si ritrovò bloccato, prima che i denti scivolassero sulla dura superficie di ceramoide.
Arrampicarsi sugli alberi non era la sua specialità. L’ultima volta che l’aveva fatto aveva dieci anni e anche allora ci era riuscito solo dopo goffi sforzi. In questo caso, però, il tronco non era esattamente verticale e la corteccia nodosa offriva molti appigli. Inoltre era pungolato dalla paura e quando la paura è forte si possono compiere imprese sorprendenti.
Si ritrovò appollaiato su una biforcazione a una decina di metri dal terreno. Per il momento, non si rese conto di essersi graffiato una mano e di sanguinare. Adesso ai piedi dell’albero c’erano cinque cani accovacciati sulle zampe posteriori, gli occhi puntati pazientemente verso l’alto, le lingue penzoloni.
Che fare?
XXXVII
Data la sua posizione, Trevize non era in grado di esaminare la situazione in modo logico e approfondito. I pensieri gli si accavallavano in rapide sequenze confuse e distorte e, se si fosse soffermato a riflettere, le conclusioni sarebbero state abbastanza semplici.
Bliss aveva affermato in precedenza che, terraformando un pianeta, gli esseri umani creavano un’ecologia squilibrata e che per impedire che l’ecosistema si sfasciasse avrebbero dovuto impegnarsi di continuo. Per esempio, i coloni non avevano mai portato con sé i predatori più grossi. Portare quelli piccoli – insetti, parassiti, topiragno e perfino falchetti – era stato inevitabile.
Gli animali mitici delle leggende e delle vaghe versioni letterarie (tigri, orsi grigi, coccodrilli, orche) perché portarli di mondo in mondo, a che scopo?
Quindi gli esseri umani erano gli unici predatori di dimensioni notevoli e stava a loro eliminare in parte le piante e gli animali che, se avessero potuto riprodursi liberamente, sarebbero andati incontro a gravi problemi di sovrappopolazione.
E se in un modo o nell’altro gli esseri umani scomparivano, toccava ad altri predatori sostituirli. Ma quali? I predatori più grandi tollerati dall’uomo erano i cani e i gatti, animali addomesticati che per vivere dipendevano dalla generosità umana.
Ma se non fosse rimasto più alcun essere umano a nutrirli? Be’, avrebbero dovuto trovarsi il cibo da soli. Si trattava della loro sopravvivenza e di quella degli animali di cui si cibavano, il cui numero doveva essere tenuto sotto controllo, altrimenti la sovrappopolazione avrebbe causato danni ben più seri di quelli provocati dai predatori stessi.
Quindi ecco i cani moltiplicarsi in tutte le varietà: gli esemplari più grandi per attaccare gli erbivori di dimensioni maggiori, ormai incustoditi; i cani più piccoli per nutrirsi di uccelli e roditori. I gatti probabilmente cacciavano di notte, mentre i cani di giorno. Inoltre, i primi cacciavano individualmente, i secondi in branchi.
E probabilmente un giorno l’evoluzione avrebbe prodotto altre specie, per colmare tutti gli spazi ambientali. Chissà, forse i cani avrebbero acquisito caratteristiche adatte alla vita acquatica e avrebbero potuto nutrirsi anche di pesce; e magari i gatti avrebbero imparato le tecniche del volo planato per cacciare gli uccelli più lenti nel loro elemento oltre che a terra.
Tutte queste considerazioni attraversavano slegate la mente di Trevize, mentre si sforzava di riordinare le idee per stabilire una linea d’azione.
Il numero dei cani continuava ad aumentare; ne contò ventitré intorno all’albero e altri in arrivo. Di quante bestie era composto il branco? Non aveva molta importanza: era già fin troppo numeroso.
Trevize estrasse il fulminatore dalla fondina, ma il calcio massiccio stretto nella mano non gli trasmise il senso di sicurezza sperato. Da quanto tempo non inseriva un’unità di energia nell’arma? Quante scariche poteva sparare? Certo non ventitré.
E Pelorat e Bliss? Se fossero arrivati all’improvviso i cani li avrebbero aggrediti, ma forse non erano al sicuro neanche dove si trovavano. Se i cani avessero avvertito la presenza di due esseri umani fra le rovine, nulla avrebbe impedito al branco di attaccare laggiù. Non c’erano di sicuro porte o sbarramenti dietro cui rifugiarsi.
Forse Bliss era in grado di fermarli e respingerli, poteva concentrare i suoi poteri attraverso l’iperspazio fino a ottenere l’intensità desiderata, ma per quanto tempo?
Trevize si domandò se dovesse chiamare e chiedere aiuto. Se avesse gridato, Pelorat e Bliss si sarebbero precipitati da lui e i cani sarebbero fuggiti sotto lo sguardo minaccioso di Bliss? (Era necessario uno sguardo, o si trattava semplicemente di un intervento mentale non percepibile esternamente da chi non era in possesso di certi poteri?) E se, correndo da lui, Pelorat e Bliss fossero stati dilaniati sotto lo sguardo di Trevize, che sarebbe stato costretto ad assistere impotente alla scena dal suo rifugio relativamente sicuro in cima all’albero?
No, doveva usare il fulminatore. Se fosse riuscito a uccidere un cane e a spaventare gli altri per un po’, sarebbe potuto scendere dall’albero, chiamare Pelorat e Bliss, uccidere un secondo cane – se le bestie avessero accennato a riavvicinarsi – e riparare con i due compagni a bordo dell’astronave.
Regolò l’intensità del raggio a microonde sui tre quarti. In questo modo sarebbe riuscito a uccidere un cane e a produrre una detonazione abbastanza rumorosa. La detonazione avrebbe spaventato gli altri e lui avrebbe risparmiato energia.
Mirò attentamente a un cane in mezzo al branco, un animale che (almeno, secondo l’immaginazione di Trevize) sembrava trasudare più ferocia degli altri. Era forse perché se ne stava accovacciato con maggiore tranquillità, come se studiasse la preda con fredda determinazione. Adesso il cane fissava proprio l’arma, come se sfidasse Trevize a usarla e si sentisse invulnerabile.
Fu allora che Trevize si rese conto di non aver mai sparato con un fulminatore a un essere animato, né di averlo mai visto fare da altri. Durante l’addestramento si era sparato contro manichini di cuoio o di plastica riempiti d’acqua e l’acqua portata quasi istantaneamente al punto d’ebollizione lacerava l’involucro e lo faceva esplodere.
Ma, in tempo di pace, chi avrebbe mai sparato a un essere animato? E chi avrebbe opposto resistenza di fronte a un fulminatore, costringendo l’antagonista a usarlo? Solo lì, su un mondo aberrante per la scomparsa degli esseri umani, certe azioni violente sembravano concepibili.
Per la strana capacità del cervello di registrare particolari superflui in determinati frangenti, Trevize notò che una nuvola aveva coperto il sole in quel preciso istante, quindi sparò.
Ci fu uno strano luccichio dell’aria, lungo una linea retta che andava dalla canna del fulminatore al cane; un vago scintillio che sarebbe passato inosservato se il sole non fosse stato velato dalla nube.
Il cane avvertì l’immediato aumento di calore e fece un piccolo movimento, come per balzare via. Quindi esplose, mentre una parte del sangue e delle componenti cellulari evaporava.
L’esplosione produsse un rumore di scarsa entità, un botto molto fiacco, perché i tegumenti del cane non avevano la robustezza degli involucri dei manichini da esercitazione. Carne, pelle, sangue e ossa schizzarono tutt’intorno e Trevize avvertì il moto di protesta del proprio stomaco.
I cani arretrarono impercettibilmente. Alcuni erano stati bombardati dai frammenti sgradevolmente caldi. Ma l’esitazione durò solo un istante. A un tratto gli animali si accalcarono l’uno contro l’altro per mangiare i bocconi inattesi. La nausea di Trevize crebbe. Invece di spaventarli, li stava nutrendo. Con quel sistema non se ne sarebbero mai andati. Anzi, l’odore del sangue fresco e della carne calda avrebbe attratto altri cani, forse altri piccoli predatori.
«Trevize! Cosa...» chiamò una voce.
Lui spostò lo sguardo. Bliss e Pelorat erano sbucati dai ruderi e la ragazza si era arrestata di colpo, tendendo le braccia tempestivamente per trattenere Pelorat. Ora fissava i cani: la situazione era ovvia, non c’era bisogno di fare domande.
«Ho cercato di scacciarli senza fare intervenire te e Janov. Puoi tenerli a bada?» gridò Trevize.
«A stento» rispose Bliss senza alzare la voce. Trevize afferrò le sue parole con una certa difficoltà, anche se il ringhiare dei cani si era calmato, come se qualcuno avesse gettato su di loro una barriera fonoassorbente.
«Sono troppi e non ho dimestichezza col loro modello neuronico» disse Bliss. «Su Gaia non abbiamo animali così selvatici.»
«Non ci sono nemmeno su Terminus, né sugli altri mondi civili» gridò Trevize. «Ne eliminerò il più possibile, tu cerca di occuparti degli altri. Con un numero ridotto dovresti avere meno problemi.»
«No, Trevize, uccidendoli riuscirai solo ad attirarne altri. Resta alle mie spalle, Pel, tanto non puoi proteggermi in alcun modo. Trevize, l’altra tua arma.»
«La frusta neuronica?»
«Sì. Quella provoca dolore, no? Bassa intensità. Mi raccomando, bassa!»
«Hai paura di farli soffrire troppo?» sbottò Trevize arrabbiato. «Ti pare il momento di soffermarsi a considerare la sacralità della vita?»
«Sto pensando alla vita di Pel e alla mia. Fai come dico. Bassa intensità e spara a uno dei cani. Non posso tenerli a bada ancora a lungo.»
I cani si erano staccati dall’albero e avevano circondato Bliss e Pelorat, che si tenevano a ridosso di un muro diroccato. Quelli alla testa del branco tentarono di avvicinarsi ulteriormente alla coppia, emettendo deboli guaiti. Evidentemente cercavano di capire cosa li avesse bloccati, dal momento che non percepivano alcun ostacolo. Alcuni provarono, senza riuscirci, ad arrampicarsi sul muro per attaccare le due prede alle spalle.
Con mani tremanti Trevize regolò l’intensità operativa della frusta neuronica. Consumava meno energia di un fulminatore, la ricarica produceva centinaia di sferzate, ma ora che ci pensava, Trevize non ricordava quando avesse caricato l’arma l’ultima volta. Lo stesso valeva per il fulminatore.
In questo caso la precisione della mira non era importante. Dato che il consumo energetico era basso, Trevize avrebbe potuto sparare a raffica su tutto il branco. Di solito si faceva così quando bisognava tenere sotto controllo un assembramento di persone che mostravano intenzioni ostili.
Comunque seguì il suggerimento di Bliss, prese di mira un cane e sparò. L’animale stramazzò a terra, dimenando le zampe e lanciando lunghi guaiti striduli.
Gli altri cani indietreggiarono, allontanandosi dall’animale colpito e piegando le orecchie all’indietro. Poi, emettendo guaiti a loro volta, fecero dietrofront e se ne andarono, dapprima lentamente, poi a gambe levate. Il cane che aveva subìto l’effetto della frusta neuronica si drizzò lentamente sulle zampe e si trascinò via continuando a lamentarsi.
Gli uggiolii si persero in lontananza e Bliss disse: «Ci conviene salire sull’astronave. Torneranno. O quelli o altri torneranno».
Trevize azionò il meccanismo di apertura della Stella lontana con una rapidità senza precedenti e si augurò di non dover più ripetere quel gesto.
XXXVIII
Era ormai calata la notte e Trevize non aveva ancora assorbito completamente gli effetti dell’esperienza traumatica. Il minuscolo lembo di sintopelle sulla scalfittura alla mano aveva alleviato il dolore fisico, ma anche la sua psiche era stata scalfita e curare la lesione interiore non era altrettanto facile.
Non si trattava solo del pericolo corso. Trevize era in grado di reagire a situazioni rischiose come qualsiasi altra persona mediamente coraggiosa. No, era stata la direzione inattesa da cui il pericolo era arrivato. E la prospettiva di essere ridicolizzato. Che figura avrebbe fatto se si fosse saputo in giro che era stato costretto a rifugiarsi su un albero per sfuggire a un branco di cani ringhianti? La stessa che avrebbe fatto se fosse stato messo in fuga da uno stormo di canarini arrabbiati.
Per ore intere continuò a restare in ascolto, pronto a un nuovo attacco da parte dei cani e temendo di sentire un coro di ululati, di artigli che graffiavano lo scafo.
Pelorat sembrava invece piuttosto tranquillo. «Amico mio, sapevo fin dall’inizio che Bliss avrebbe affrontato egregiamente la situazione, ma devo dire che anche tu hai utilizzato bene la tua arma.»
Trevize alzò le spalle. Non aveva voglia di parlare di quell’argomento.
Pelorat aveva in mano la sua biblioteca (il minidisco in cui era racchiusa una vita di ricerche sui miti e le leggende) e si ritirò in camera, dove teneva il piccolo lettore.
Sembrava soddisfatto. Trevize notò la cosa, ma preferì evitare di chiedergli spiegazioni. Avrebbero discusso in seguito; prima doveva togliersi dalla mente la storia dei cani.
Quando lui e Bliss furono soli, Bliss disse con una certa titubanza: «Sei stato colto di sorpresa, immagino».
«Certo» rispose Trevize accigliato. «Non mi sarei mai aspettato di dover fuggire per salvarmi la vita da un cane.»
«Dopo ventimila anni senza uomini, un cane cambia. Adesso sono senza dubbio la principale specie di predatori del pianeta.»
Trevize annuì. «Esattamente quello che ho concluso anch’io mentre mi trovavo sul ramo nel ruolo di preda. Avevi ragione, quando hai parlato di squilibrio ecologico.»
«Squilibrio dal punto di vista umano, certo, ma se consideriamo l’efficienza con cui i cani svolgono la loro parte, almeno per quel che abbiamo potuto vedere, forse Pel ha ragione quando afferma che un sistema ecologico potrebbe raggiungere un nuovo e autonomo equilibrio, i cui vari settori verrebbero occupati da nuove varietà. Creature derivate dal numero abbastanza limitato di specie portate originariamente su di un mondo.»
«Strano» commentò Trevize. «Anch’io ci ho pensato.»
«Naturalmente, a patto che lo squilibrio non sia troppo accentuato, altrimenti il processo di stabilizzazione richiederebbe troppo tempo e durante un intervallo eccessivamente lungo il pianeta potrebbe diventare del tutto inagibile.»
Trevize sbuffò.
Bliss lo guardò pensierosa. «Come mai ti è venuto in mente di portare con te delle armi?»
«È servito a poco. È stata la tua capacità.»
«Fino a un certo punto. Senza preavviso, in contatto soltanto iperspaziale col resto di Gaia e con tante menti individuali di natura sconosciuta, non avrei potuto ottenere alcun risultato senza la tua frusta.»
«Il fulminatore non serviva. Avevo provato anche con quello.»
«Se usi un fulminatore, Trevize, riesci solo a far scomparire un cane. Forse gli altri rimarrebbero sorpresi, ma ci vorrebbe altro per spaventarli.»
«È andata peggio, hanno mangiato i resti del compagno. In pratica, li ho invitati a restare.»
«Sì, comprensibile. La frusta neuronica è diversa, come effetto. Provoca dolore; un cane che soffre emette lamenti particolari che gli altri cani riconoscono subito e per un riflesso condizionato si spaventano a loro volta. Coi cani già predisposti alla paura, io mi sono limitata a dare un tocco finale alle loro menti e sono fuggiti.»
«Già, ma hai capito che in questo la frusta era l’arma più efficace delle due che avevo. Io non l’avevo capito.»
«Sono abituata ad avere a che fare con le menti, tu no. È per questo che ho insistito su un’intensità bassa e su un unico bersaglio. Non volevo che una sofferenza eccessiva uccidesse il cane e gli impedisse di lamentarsi. Non volevo che il dolore si disperdesse su vari bersagli e causasse solo qualche lieve guaito. Volevo una sofferenza abbastanza forte e concentrata su un unico punto.»
«E l’hai avuta, Bliss. Ha funzionato perfettamente. Ti sono molto grato.»
«Ma non sei soddisfatto» aggiunse Bliss pensierosa. «Ti spiace, perché sei convinto di esserti reso ridicolo. Eppure, credimi, senza le tue armi non avrei combinato nulla. Ma c’è un fatto che mi lascia perplessa: perché le hai portate con te? Ti avevo assicurato che non avremmo trovato esseri umani su questo pianeta e ne sono tuttora certa. Hai previsto la presenza dei cani?»
«No, assolutamente» rispose Trevize. «Almeno, non a livello conscio. E di solito non giro armato. Su Comporellen non ho mai pensato di portare armi. Ma mi rifiuto di credere che si sia trattato di un fenomeno magico, non posso cadere in un trabocchetto del genere. Probabilmente, mentre discutevamo di squilibri ecologici prima di uscire, il mio inconscio ha visto immagini di animali diventati pericolosi in seguito all’assenza degli esseri umani. Mi pare una conclusione evidente a posteriori, e in effetti può darsi che abbia intuito qualcosa durante la discussione. Tutto qui.»
«Non è una dote trascurabile» osservò Bliss. «Io ho preso parte alla discussione sugli squilibri ecologici eppure non ho previsto niente del genere. È questa tua speciale capacità di previdenza che Gaia ritiene importantissima. Ma ti capisco, deve essere seccante possedere una dote nascosta di cui si ignora la natura, agire con decisione ma senza una visione chiara delle motivazioni.»
«Su Terminus usiamo l’espressione “agire in base a un presentimento”.»
«Su Gaia diciamo “sapere senza pensare”. Non ti piace il sapere senza pensiero, eh?»
«No, è seccante. Non mi va di essere guidato da vaghi presagi. D’accordo, dietro il presentimento si cela una ragione, ma il fatto di non sapere quale sia è spiacevole. Ho l’impressione di non poter controllare la mia mente, una specie di lieve pazzia.»
«E quando hai deciso in favore di Gaia e Galaxia, hai agito in base a un presentimento di cui adesso cerchi la ragione.»
«Te l’ho detto almeno una decina di volte.»
«E io mi sono rifiutata di accettare per vera la tua affermazione. Mi dispiace, non ti contraddirò più su questo punto. Spero, però, di poter continuare a sottolineare i lati positivi di Gaia.»
«Certo. Purché, a tua volta, mi lasci libero di non accettarli.»
«Non pensi che questo mondo sconosciuto stia tornando allo stato selvaggio, sia avviato verso la desolazione e l’inabitabilità, a causa della scomparsa di una singola specie capace di fungere da intelligenza guida? Se questo mondo fosse Gaia, o meglio ancora una parte di Galaxia, un fatto del genere non potrebbe accadere. L’intelligenza guida continuerebbe a esistere, incarnata dalla galassia come entità globale e l’ecologia, per quanto squilibrata, tenderebbe a riacquistare di nuovo l’equilibrio.»
«Vale a dire che i cani non mangerebbero più?»
«Certo che mangerebbero, proprio come gli esseri umani. Ma mangerebbero con uno scopo preciso, per equilibrare l’ecologia, diretti in modo adeguato, non agendo a caso.»
«Può darsi che ai cani non importi di perdere la libertà individuale, ma per gli esseri umani è una questione di estrema importanza. E se tutti gli esseri umani cessassero di esistere, ovunque, non solo su un mondo o su alcuni? Se Galaxia restasse senza esseri umani? Ci sarebbe ancora un’intelligenza guida? Tutte le altre forme di vita e la materia inerte riuscirebbero a mettere insieme un’intelligenza comune adatta allo scopo?»
Bliss esitò. «Una simile situazione non si è mai verificata e probabilmente anche in futuro non si verificherà mai.»
«Ma non capisci che la mente umana è qualitativamente diversa da qualsiasi altra cosa e che se venisse a mancare, la somma complessiva di tutte le altre forme coscienti non basterebbe a rimpiazzarla? Gli esseri umani costituiscono un caso speciale e devono essere trattati in quanto tali, se sei d’accordo. Non dovrebbero essere fusi nemmeno tra loro e a maggior ragione non dovrebbero fondersi con degli esseri estranei.»
«Eppure, tu hai deciso in favore di Galaxia.»
«Per una ragione impellente che non riesco ad afferrare.»
«Forse hai avuto una breve visione degli effetti delle ecologie squilibrate. Ne hai concluso che ogni mondo della galassia corre sul filo di una lama, minacciato dall’instabilità, e che solo Galaxia può impedire che avvengano disastri come quello che sta distruggendo questo mondo. Per non parlare dei disastri continui che interessano direttamente gli uomini, come la guerra e le insufficienze amministrative.»
«No, quando ho preso la mia decisione non pensavo a squilibri ecologici.»
«Ne sei sicuro?»
«Può darsi che non sappia quel che prevedo, ma se in seguito qualcuno mi suggerisce qualche spunto, sono in grado di riconoscere se esista o meno un collegamento fra una determinata situazione e la mia previsione. Per esempio, non escludo di aver pensato che su questo pianeta potessero esserci animali pericolosi.»
«Già, e avrebbero potuto ucciderci se non fosse stato per l’intervento congiunto dei nostri poteri, la tua previdenza e il mio mentalismo. Su, allora,» lo invitò Bliss «cerchiamo di essere amici.»
Trevize annuì. «Se vuoi.»
Il tono gelido della voce di Trevize le fece alzare le sopracciglia, ma in quel preciso istante Pelorat si precipitò nella cabina, annuendo vigorosamente come se volesse scrollarsi la testa dal collo.
«Ci sono arrivato, credo» disse semplicemente.
XXXIX
Di solito Trevize non credeva nelle vittorie facili, eppure volersi illudere a dispetto del proprio raziocinio è un difetto umano. Sentì che i muscoli della gola e del torace si contraevano, ma riuscì a chiedere: «La posizione della Terra? L’hai trovata, Janov?».
Pelorat fissò Trevize per un attimo e assunse un’espressione di delusione e sconcerto. «Be’, non proprio. Anzi per niente. Me n’ero dimenticato, ma ho scoperto qualcos’altro fra le rovine. Qualcosa di scarsa importanza, immagino.»
Trevize inspirò a fondo. «Non preoccuparti, Janov, tutte le scoperte sono importanti. Allora, cosa volevi dirci?»
«Ecco, bisogna premettere che non è sopravvissuto quasi nulla. Ventimila anni di tempeste e di vento non sono uno scherzo. Inoltre, la vegetazione degenera con effetti distruttivi e gli animali... Be’, veniamo al dunque. Il fatto è che “quasi nulla” e “nulla” non sono la stessa cosa.
«Le rovine sono quelle di un edificio pubblico, perché c’erano pietre diroccate o pezzi di cemento con scritte incise. Intendiamoci, amico mio, ben poco era visibile, ma ho scattato delle foto con una delle macchine che abbiamo a bordo, quelle speciali e computerizzate. Ehm, non ti ho chiesto il permesso di prenderne una, Golan, ma era importante, così...»
Trevize liquidò l’argomento con un cenno sbrigativo della mano. «Vai avanti!»
«Sono riuscito a identificare parte delle iscrizioni, che sono estremamente arcaiche. Ma nonostante l’aiuto del computer fotografico e le mie discrete capacità di lettura delle lingue antiche, ho potuto decifrare solo una brevissima scritta. Lì le lettere erano più grandi e un po’ più chiare del resto. Forse erano incise più a fondo appunto perché indicavano il mondo stesso. La scritta diceva “pianeta Aurora”, quindi immagino che il mondo su cui ci troviamo si chiami o si chiamasse “Aurora”.»
«Un nome doveva pur averlo» osservò Trevize.
«Sì, ma i nomi di solito non vengono scelti a caso. Ho appena compiuto una ricerca accurata nel materiale della mia biblioteca e ho trovato due vecchie leggende, di due mondi piuttosto lontani fra loro e quindi molto probabilmente di origine indipendente. Comunque, in entrambe Aurora veniva usato come nome per indicare l’alba. Possiamo supporre che in qualche lingua pre-galattica il termine Aurora significasse effettivamente “alba”.
«Teniamo presente inoltre che spesso si usano parole che significano “alba” o “spuntar del giorno” per battezzare stazioni spaziali o altre strutture che sono il primo esemplare costruito del loro genere. Se questo mondo si chiama “Aurora” o “Alba”, indipendentemente dalla lingua, può darsi dunque che sia il primo del suo genere.»
«Secondo te, allora, questo pianeta sarebbe la Terra e l’avrebbero chiamato Aurora in quanto rappresenterebbe l’alba della vita, l’inizio dell’umanità?»
«Non azzarderei una simile ipotesi, Golan.»
«Già, in fin dei conti non c’è una superficie radioattiva, né un grande satellite, né un gigante gassoso con degli anelli enormi» soggiunse Trevize con una punta di asprezza.
«Esattamente, però, su Comporellen, Deniador pensava che questo fosse uno dei mondi abitati un tempo dalla prima ondata di coloni, gli spaziali. Se è vero, e dato che si chiama Aurora, potrebbe essere il primo dei mondi spaziali. Può darsi che in questo momento ci troviamo sul più antico mondo umano della galassia, a parte ovviamente la Terra. Non è una prospettiva eccitante?»
«Interessante in ogni caso, Janov. Ma non ti sembra di dedurre troppe cose da un semplice nome?
«Oh, c’è dell’altro» fece Pelorat infervorandosi. «Stando al mio materiale di consultazione, oggi nella galassia non c’è nessun mondo che si chiami “Aurora” e sono sicuro che il tuo computer lo confermerà. Come ho detto esistono numerosi mondi e altri oggetti chiamati “Alba” in vari modi, ma in nessun caso si ricorre alla parola “Aurora”.»
«E chi dovrebbe usarla? Se è una parola arcaica, è probabile che non la conosca quasi nessuno.»
«Ma i nomi restano, anche quando diventano privi di significato. Se questo fosse il primo mondo colonizzato, sarebbe famoso; per un certo periodo potrebbe essere stato il mondo più autorevole della galassia. Ci sarebbero altri mondi con nomi come “Nuova Aurora”, “Aurora minore” o cose del genere. E altri...»
Trevize lo interruppe: «Forse non si tratta del primo mondo colonizzato. Forse non è mai stato importante».
«Secondo me, amico mio, c’è una spiegazione migliore.»
«Cioè?»
«Se la prima ondata di colonizzazione è stata soppiantata da una seconda e le attuali civiltà della galassia derivano da quest’ultima, come ha sostenuto Deniador, è molto probabile che ci sia stato un periodo di ostilità fra le due ondate. La seconda, fondatrice dei mondi che esistono ora, non ha più usato i nomi della prima ondata. Per cui, dal fatto che il nome “Aurora” non sia mai stato ripetuto, possiamo dedurre che ci sono state davvero due ondate di coloni e che questo mondo appartiene alla prima.»
Trevize sorrise. «Comincio a capire come lavorate voi mitologi, Janov. Costruite strutture splendide, ma a volte le fondamenta sono inesistenti. Le leggende dicono che i coloni della prima ondata erano accompagnati da numerosi robot, macchine ritenute responsabili della loro rovina. Ecco, se riuscissimo a trovare un robot su questo mondo sarei disposto ad accettare le tue teorie, ma dato che sono trascorsi ventimila anni non possiamo aspettarci...»
Pelorat, che già muoveva le labbra a vuoto, riuscì finalmente a dire: «Ma Golan, non te ne ho parlato? No, sono così eccitato che non riesco a dire le cose nell’ordine giusto. Un robot c’era!».
XL
Trevize si strofinò la fronte come se avesse mal di testa. «Un robot? E tu l’hai trovato?»
«Sì» annuì Pelorat con decisione.
«Come lo sai?»
«Perbacco, era un robot quello. Come avrei potuto non riconoscerlo?»
«Ne hai visto qualcuno in precedenza?»
«No, ma era un oggetto di metallo somigliante a un essere umano. Testa, braccia, gambe, torso. Chiaro, per metallo intendo per lo più un ammasso di ruggine e, quando mi sono avvicinato, le vibrazioni causate dai miei passi devono averlo danneggiato ulteriormente, perché allungando la mano per toccarlo...»
«Perché avresti dovuto toccarlo?»
«Be’, non credevo ai miei occhi. È stato un gesto automatico e appena l’ho toccato si è sbriciolato. Ma...»
«Continua.»
«Prima di sbriciolarsi del tutto, mi è sembrato che i suoi occhi luccicassero leggermente e ha emesso un suono, come se stesse cercando di dire qualcosa.»
«Vuoi dire che era ancora funzionante?»
«Appena appena, Golan. Dopo di che si è sfasciato.»
Trevize si rivolse a Bliss. «Confermi tutto questo?»
Lei rispose con voce incolore: «Era un robot e noi l’abbiamo visto».
«E funzionava ancora?»
«Mentre si sbriciolava ho percepito una debole attività neuronica.»
«Impossibile. Un robot non ha un cervello organico costituito da cellule.»
«Ha l’equivalente computerizzato di un cervello umano, suppongo» ribatté Bliss. «E io sono in grado di percepirlo.»
«Hai percepito un’intelligenza robotica nettamente distinta da quella umana?»
Bliss increspò le labbra. «Era molto debole per dare un giudizio preciso, comunque c’era.»
Trevize guardò Bliss e Pelorat, poi disse in tono esasperato: «Questo cambia tutto».