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Hari Seldon sedeva nella nicchia che gli era stata assegnata grazie all’intervento di Dors Venabili. Era insoddisfatto.
A dire il vero, anche se era quello l’aggettivo che aveva in mente, Seldon sapeva che la parola esprimeva solo in minima parte quel che provava. Non era solo insoddisfatto, era furioso, soprattutto perché non sapeva di preciso cosa avesse suscitato tanta rabbia. Le storie? Gli autori e i compilatori delle storie? I mondi e le persone alla base delle storie?
Quale fosse l’oggetto della collera di Seldon, si trattava di un particolare trascurabile. Il fatto grave era che i suoi appunti erano inutili, le sue nuove conoscenze erano inutili, tutto era inutile.
Ormai si trovava all’università da quasi sei settimane. Aveva individuato subito un terminale disponibile e si era messo al lavoro, senza guida, usando l’istinto frutto di lunghi anni di ricerca. Era stata un’impresa lenta, incerta, ma si provava un certo piacere nell’individuare, per gradi, i percorsi da seguire per arrivare alle risposte desiderate.
Poi c’era stato il corso settimanale di Dors, che gli aveva insegnato decine di scorciatoie e che aveva mostrato due lati negativi. Primo lato negativo: le occhiate di traverso degli studenti, che avevano un atteggiamento sprezzante nei confronti della sua maggiore età e che tendevano ad assumere un’espressione corrucciata quando Dors si rivolgeva a lui chiamandolo “dottore”.
«Non voglio che ti scambino per uno studente tardo di mente costretto a seguire un corso integrativo» aveva spiegato Dors.
«Mi pare che tu sia stata abbastanza chiara. A questo punto direi che puoi chiamarmi semplicemente “Seldon”.»
«No.» Dors aveva sorriso di colpo. «E poi, mi piace chiamarti “dottor Seldon”. Mi piace la faccia imbarazzata che fai sempre.»
«Hai uno strano senso dell’umorismo. Sadico.»
«Vorresti togliermelo?»
Al che, chissà perché, Seldon aveva riso. La reazione naturale sarebbe stata quella di negare una componente sadica. Comunque, Seldon era contento che lei fosse stata al gioco verbale e gli avesse rilanciato la palla. Quindi era sbocciata una domanda automatica. «Giocate a tennis, qui all’università?»
«Abbiamo dei campi, ma io non gioco.»
«Bene. T’insegnerò io. E ti chiamerò “professoressa Venabili”.»
«Tanto lo fai già durante il corso.»
«Sì, ma vedrai come sarà ridicolo sul campo da tennis.»
«Può darsi che finisca per piacermi.»
«In tal caso, cercherò di scoprire cos’altro potrebbe piacerti.»
«Vedo che hai uno strano senso dell’umorismo. Salace.»
Dors l’aveva detto di proposito e Seldon aveva ribattuto: «Vorresti togliermelo?».
Lei aveva sorriso, e in seguito si era dimostrata sorprendentemente in gamba sul campo da tennis. «Sicura di non avere mai giocato?» le aveva chiesto Seldon, ansimando, quando avevano finito.
«Sicurissima.»
L’altro lato negativo del corso era più personale. Seldon aveva appreso le tecniche necessarie di ricerca storica, e in privato aveva affrontato smanioso i primi tentativi di utilizzo della memoria del computer. Era un procedimento completamente diverso da quello utilizzato in matematica. Era altrettanto logico, dato che consentiva di muoversi con coerenza e precisione in qualsiasi direzione, ma era un tipo di logica sostanzialmente diverso da quello a cui Seldon era abituato.
Tuttavia, con o senza istruzioni, avanzando a fatica o procedendo spedito, lui non aveva ottenuto risultati.
La sua irritazione si era manifestata sul campo da tennis. Dati i rapidi progressi di Dors, ben presto non era stato più necessario lanciarle palle alte e facili per darle il tempo di valutare direzione e distanza. Così era stato facile dimenticare che lei era solo una principiante, e Seldon aveva sfogato la propria rabbia scagliandole la palla come se fosse un raggio laser fatto di sostanza solida.
Avvicinandosi alla rete, Dors aveva detto: «Certo, capisco, vuoi uccidermi, dev’essere seccante vedermi sbagliare tanti colpi. Ma com’è che stavolta mi hai mancato la testa di circa tre centimetri? Insomma, non mi hai nemmeno presa di striscio. Se è tutto qui quel che sai fare...».
Inorridendo, Seldon aveva cercato di spiegarle, ma era riuscito solo a farfugliare frasi confuse.
Dors allora aveva detto: «Oggi non voglio più affrontare i tuoi colpi sul campo, quindi facciamo una doccia e poi andiamo a prendere un tè insieme, così potrai dirmi con cos’è che ce l’hai a morte. Se non si tratta della mia povera testa e se non riesci a sfogarti subito, sarai troppo pericoloso al di là della rete, e io non ho intenzione di prestarmi come bersaglio».
Mentre bevevano il tè, Seldon aveva detto: «Dors, ho dato una scorsa alla storia. Solo un’occhiata veloce, non ho ancora avuto tempo per uno studio approfondito. Comunque, una cosa mi pare evidente: tutti i videolibri parlano di pochi avvenimenti e sempre di quelli».
«Avvenimenti cruciali. Avvenimenti che “fanno” la storia.»
«Questa è solo una scusa, in realtà sono ripetizioni sterili. Ci sono venticinque milioni di mondi, nello spazio, e quelli citati in modo significativo saranno sì e no venticinque.»
«Perché ti sei soffermato sulla storia galattica generale. Dai un’occhiata a quella individuale di un mondo minore. Su ogni pianeta, per quanto piccolo, i bambini imparano la storia locale ancora prima di scoprire che all’esterno c’è un’enorme galassia. Prendiamo te, per esempio: sai più cose su Helicon che non sulla nascita di Trantor o sulla Grande guerra interstellare, giusto?»
«Si tratta sempre di conoscenza limitata» aveva risposto cupo Seldon. «Conosco la geografia di Helicon, la storia della sua colonizzazione e degli illeciti e abusi del pianeta Jennisek, che sarebbe il nostro nemico tradizionale, anche se gli insegnanti ci hanno spiegato che bisognerebbe dire “rivale tradizionale”. Ma non so nulla del contributo di Helicon alla storia galattica generale.»
«Forse non c’è stato alcun contributo.»
«Non dire sciocchezze, certo che c’è stato. Helicon non sarà un protagonista di grandi battaglie spaziali, né di rivolte importanti o trattati di pace; non sarà stato scelto come base da qualche pretendente al trono imperiale, ma un’influenza pur lieve deve averla avuta. Gli avvenimenti che si svolgono in un luogo si ripercuotono ovunque, mi pare. Eppure, non riesco a trovare nulla che mi aiuti. Vedi, Dors, in matematica si può trovare tutto nel computer: quello che sappiamo ora e quello che abbiamo scoperto in ventimila anni. Con la storia, il discorso cambia. Gli storici scelgono e selezionano, e qui tutti scelgono e selezionano la stessa cosa.»
«Ma, Hari, la matematica è una costruzione ordinata inventata dall’uomo. Ogni cosa è concatenata. Ci sono definizioni, assiomi, tutti noti. È un complesso omogeneo. La storia è diversa, è il risultato inconscio delle azioni e dei pensieri di trilioni di esseri umani. Gli storici devono per forza scegliere e selezionare.»
«Già, ma se voglio arrivare alle leggi della psicostoria io devo conoscerla tutta.»
«In questo caso, le leggi della psicostoria non le formulerai mai.»
La discussione risaliva al giorno prima. Ora Seldon sedeva nella nicchia dopo un’altra giornata di lavoro infruttuoso e gli sembrava quasi di sentire la voce di Dors che ripeteva: “In questo caso, le leggi della psicostoria non le formulerai mai”.
Era quello che aveva pensato fin dall’inizio e avrebbe continuato a pensarlo se non fosse stato per Hummin, che era convinto del contrario e che chissà come era riuscito a contagiare Seldon, trasmettendogli la propria convinzione.
D’altra parte, non poteva arrendersi così. Possibile che non ci fosse una soluzione?
Non gliene veniva in mente nessuna.