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Quando Hardin aveva negato di possedere il «Journal» di Terminus aveva forse detto la verità formalmente, ma niente di più. Hardin era stato il sostenitore principale della costituzione su Terminus di un Municipio autonomo, e ne era stato il primo sindaco. Perciò non c’era da stupirsi se, pur non possedendo nemmeno un’azione del «Journal», ne controllava indirettamente almeno il sessanta per cento.
Di conseguenza, quando Hardin cominciò a suggerire a Pirenne che gli fosse permesso di partecipare al Consiglio dei fiduciari, non fu solo per una coincidenza che il «Journal» cominciò una campagna per sostenere questa tesi. Per la prima volta da quando la Fondazione era stata creata, l’intera popolazione si riunì in assemblea per chiedere che la città fosse rappresentata dal governo “nazionale”.
Sebbene di malavoglia, Pirenne fu costretto a cedere.
Hardin, che sedeva in fondo alla lunga tavola, si chiedeva per quale ragione gli scienziati fossero pessimi amministratori. Forse dipendeva dal fatto che erano troppo abituati alle inflessibili leggi che regolano i fenomeni fisici e del tutto ignari della tendenza al compromesso che contraddistingue molti uomini.
E ora, eccoli riuniti: Tomaz Sutt e Jord Fara erano alla sua sinistra; Lundin Crast e Yate Fulman alla sua destra; Pirenne, al centro, presiedeva l’assemblea. Li conosceva tutti, naturalmente, ma sembrava che quel giorno avessero un’oncia di pomposità in più.
Durante le formalità iniziali Hardin si appisolò quasi e cominciò a prestare attenzione solo quando Pirenne, dopo aver bevuto una sorsata dal bicchiere che gli stava davanti, si schiarì la voce per parlare.
«Sono molto lieto di informare il Consiglio che, dopo la nostra ultima riunione, ho ricevuto notizia che lord Dorwin, cancelliere imperiale, giungerà a Terminus fra due settimane. Possiamo essere certi che i nostri problemi di vicinato con Anacreon saranno risolti in modo soddisfacente non appena l’imperatore sarà informato della situazione.»
Sorrise. «Informazioni in questo senso sono già state comunicate al “Journal”» aggiunse rivolgendosi a Hardin.
Hardin trattenne un lieve sorriso. Era evidente che il desiderio di sorprenderlo con quella dichiarazione era stata una delle ragioni che aveva convinto Pirenne a farlo ammettere al sancta sanctorum.
Hardin replicò con distacco. «Lasciando da parte espressioni troppo imprecise, che cosa vi aspettate che faccia lord Dorwin?»
Rispose Tomaz Sutt. Aveva la brutta abitudine di rivolgersi all’interlocutore in terza persona quando doveva esprimere un’opinione importante.
«Pare evidente che il sindaco Hardin sia un cinico di professione. Egli non può non ammettere che l’imperatore impedirà a chiunque di infrangere i suoi poteri sovrani.»
«Che cosa potrebbe fare, l’imperatore, nel caso questo accadesse?» chiese Hardin.
Tutti lo guardarono seccati. «Sta dicendo una sciocchezza» commentò Pirenne. «A parte il fatto che le sue parole sono praticamente sovversive.»
«È questa la sua risposta conclusiva?»
«Sì! Se non ha altro da aggiungere...»
«Non saltiamo alle conclusioni. Vorrei farle una domanda. Oltre a questa azione diplomatica, che può avere qualche effetto così come non averne alcuno, sono stati fatti dei passi concreti per parare l’incombente minaccia di Anacreon?»
Yate Fulman si passò una mano sui baffi imponenti. «Lei pensa ad Anacreon come a una minaccia?»
«Perché lei no?»
«Relativa» rispose Fulman in tono indulgente. «L’imperatore...»
«Per lo spazio!» Hardin stava cominciando a perdere la pazienza. «Qui non si fa che parlare di “impero” o “imperatore” come se si trattasse di parole magiche. L’imperatore si trova a cinquantamila parsec di distanza, e dubito che si interessi minimamente di noi. E ammesso che gli stia a cuore la nostra sorte, che cosa potrebbe fare? Quanto era rimasto della flotta imperiale in queste regioni è ora nelle mani dei Quattro Regni, e anche Anacreon se n’è presa una parte. Ascoltatemi, noi dobbiamo combattere con le armi, non con belle parole. Rendetevi conto che se abbiamo avuto due mesi di tregua è stato perché abbiamo lasciato credere ad Anacreon di essere in possesso di armi nucleari. Bene, noi tutti sappiamo che si tratta di una bugia bella e buona. Noi possediamo energia atomica solo per usi industriali, e assai poca pure di quella. Prima o poi lo scopriranno e, se pensate che saranno contenti di essere stati giocati a questo modo, be’, vi sbagliate.»
«Mio caro signore...»
«Un momento! Non ho ancora finito.» Hardin si stava scaldando e ne provava un intimo piacere. «È una gran bella cosa nascondersi dietro ai cancellieri, ma sarebbe molto meglio se tirassimo fuori alcune di quelle armi adatte a lanciare bombe atomiche. Abbiamo già perso due mesi, signori. Che cosa proponete?»
Prese la parola Lundin Crast: era talmente agitato che gli vibravano le narici. «Se lei sta cercando di proporre la militarizzazione della Fondazione, non voglio sentire altro. Questo sancirebbe il nostro definitivo ingresso nel campo della politica. Noi, signor sindaco, siamo una fondazione scientifica e niente più.»
«Il signor Hardin non si rende conto che la costituzione di un esercito sottrarrebbe uomini, uomini di valore, al lavoro dell’Enciclopedia» aggiunse Sutt. «Non possiamo farlo, qualunque cosa accada.»
«Giustissimo,» approvò Pirenne «l’Enciclopedia viene prima di tutto, sempre.»
Hardin scosse il capo, sconsolato. Il Consiglio sembrava affetto dal complesso dell’Enciclopedia.
«Non vi è mai venuto in mente» disse con voce tagliente «che Terminus possa avere altri interessi oltre al lavoro degli enciclopedisti?»
«Non è ammissibile che la Fondazione ne abbia» ribatté Pirenne.
«Io non ho parlato della Fondazione. Io ho detto: Terminus. Temo che voi non comprendiate perfettamente la situazione. Su Terminus vivono più di un milione di persone, e solo centocinquantamila lavorano per l’Enciclopedia. Per gli altri, questa è la “casa”. Siamo nati qui e qui viviamo. A confronto delle nostre fattorie, delle nostre abitazioni, delle nostre officine, l’Enciclopedia significa ben poco. Noi vogliamo che le nostre case siano protette...»
«L’Enciclopedia prima di tutto» gridò Crast. «Abbiamo una missione da compiere.»
«Al diavolo la missione» disse Hardin. «Questa affermazione poteva essere vera cinquant’anni fa. Ma la nostra è una nuova generazione.»
«Che cosa c’entra la nuova generazione?» chiese Pirenne. «Noi siamo scienziati.»
Hardin prese la palla al balzo. «Lo siete veramente? A me sembra che la vostra sia un’allucinazione. Tutti voi, qui intorno a me, siete la personificazione esatta di tutti gli errori che affliggono la galassia da migliaia di anni. Che genere di scienza è mai la vostra? Rimanere isolati per centinaia di anni a classificare il lavoro degli scienziati dell’ultimo millennio? Non avete mai pensato di lavorare per il futuro, di estendere le conoscenze umane, di cercare di migliorarle? No! A voi basta vegetare. Tutta la galassia vegeta, da chissà quanti anni. Ecco perché la periferia si rivolta; ecco perché le comunicazioni si interrompono, le guerricciole diventano eterne, l’universo a poco a poco sta dimenticando l’energia atomica e precipita indietro, alla tecnica barbarica dell’energia chimica. Se volete sapere la mia opinione,» concluse gridando «la galassia sta andando in rovina!»
Smise di parlare e si abbandonò contro lo schienale per riprendere fiato, senza nemmeno curarsi dei due o tre che tentavano di rispondergli contemporaneamente.
Fu Crast che prese infine la parola. «Non so dove voglia arrivare con le sue orazioni isteriche, signor sindaco. È certo che il suo apporto alla discussione non è costruttivo. Propongo, signor presidente, che le parole del sindaco vengano cancellate dal verbale e che la discussione riprenda da dove è stata interrotta.»
Jord Fara si alzò in piedi per la prima volta da quando la riunione era cominciata. Non aveva aperto bocca nemmeno quando la discussione si era fatta più accalorata. Ma ora la sua voce, poderosa come la sua figura – Fara pesava un quintale e mezzo –, risuonò con tonalità di basso.
«Non abbiamo forse dimenticato qualche cosa, signori?»
«Che cosa?» domandò Pirenne irritato.
«Fra un mese celebreremo il nostro cinquantesimo anniversario.»
«E allora?»
«In quell’occasione» continuò imperterrito Fara «sarà aperta la Volta di Hari Seldon. Non vi siete mai domandati che cosa può contenere la Volta?»
«Non so. Probabilmente cose di ordinaria amministrazione. Forse discorsi di congratulazione. Non credo che si debba dare un particolare significato all’apertura della Volta; anche se il nostro giornale» e Pirenne volse lo sguardo verso Hardin «ha cercato di presentarla come un avvenimento straordinario. Io ho creduto bene di far cessare questa campagna.»
«Forse si sbagliava» replicò Fara. «Non la colpisce il fatto» e si toccò il naso con la punta dell’indice «che la Volta venga aperta in un momento così delicato?»
«Un momento molto inopportuno, vorrà dire» corresse Fulman. «Abbiamo problemi ben più seri di cui occuparci.»
«Più importanti del messaggio di Hari Seldon? Non credo.» Fara parlava con un tono di voce sempre più grave, e Hardin lo osservava pensieroso. Dove voleva arrivare?
«In realtà» riprese Fara «voi tutti sembrate dimenticare che Seldon è stato il più grande psicostorico di tutti i tempi e che ha creato la Fondazione. Si deve immaginare quindi che abbia fatto uso della sua scienza per determinare il probabile corso della storia dell’immediato futuro. Se così è stato, com’è verosimile, avrà certo cercato un mezzo per avvertirci del pericolo, e forse per indicarcene la soluzione. L’Enciclopedia gli stava particolarmente a cuore, questo lo sapete.»
Un clima di scetticismo sembrò pervadere l’assemblea. Pirenne borbottò: «Ecco, ora non saprei proprio. La psicologia è certo una grande scienza, ma non credo che al momento esistano psicostoriografi tra noi. Mi sembra che attualmente ci troviamo in una posizione poco sicura».
«Lei non ha per caso studiato psicologia sotto Alurin?» chiese Fara rivolgendosi a Hardin.
Hardin era immerso nei suoi pensieri. «Sì,» rispose «ma non ho mai terminato i miei studi. Mi sono stancato della teoria. Volevo laurearmi in Psicologia applicata, ma qui non ne avevamo la possibilità. Perciò ho scelto la materia più simile, la politica. È praticamente la stessa cosa.»
«Bene, e che cosa pensa della Volta?»
«Non lo so» rispose Hardin cauto.
Non parlò più per il resto della riunione, sebbene avessero ripreso a discutere della venuta del cancelliere imperiale. Ormai non li ascoltava più. Lo avevano fatto deviare su un altro ordine di pensieri, e alcuni elementi del mosaico stavano pian piano andando a posto.
La psicologia era la chiave del problema.
Ne era sicuro.
Ora Hardin tentava disperatamente di richiamare alla memoria la teoria psicologica che aveva studiato. Trovò in quelle poche nozioni il punto di partenza.
Un grande psicologo come Seldon poteva analizzare con sufficiente esattezza le reazioni emotive dell’uomo e poteva prevedere approssimativamente l’evoluzione storica del futuro.
E questo significava...