15

Muschio

LXVI

Trevize era grottesco nella tuta spaziale. L’unica parte che rimanesse all’esterno erano le fondine, non quelle che allacciava normalmente sui fianchi, bensì quelle più solide che facevano parte della tuta stessa. Trevize infilò attentamente il fulminatore nella fondina di destra e la frusta neuronica in quella di sinistra. Le armi erano state ricaricate e questa volta nulla sarebbe riuscito a strappargliele, pensò Trevize con rabbia.

Bliss sorrise. «Porti le armi anche su un mondo senz’aria e... Come non detto! Non discuterò le tue decisioni.»

«Bene» annuì Trevize e si girò per aiutare Pelorat a infilare il casco, prima di mettere il proprio.

L’altro, che non aveva mai indossato una tuta spaziale, domandò in tono piagnucoloso: «Ma riuscirò davvero a respirare chiuso in questo aggeggio, Golan?».

«Te lo garantisco.»

Bliss rimase a osservare cingendo le spalle di Fallom, mentre le ultime giunture venivano sigillate. La giovane solariana fissava allarmata le due figure in tuta; tremava e Bliss le diede una lieve stretta rassicurante.

Il portello della camera stagna si aprì e i due entrarono agitando le braccia in segno di saluto. Poi il portello si richiuse, si aprì quello esterno e Trevize e Pelorat sbarcarono goffamente sul pianeta morto.

Era l’alba. Naturalmente il cielo era limpido e sfumato di porpora, ma il sole non era ancora sorto. All’orizzonte, leggermente più chiaro, si notava una lieve foschia.

«C’è freddo» esordì Pelorat.

«Tu hai freddo?» fece Trevize sorpreso. Le tute erano ben isolate e se mai l’inconveniente era che di tanto in tanto vi si accumulava troppo calore corporeo.

«No, assolutamente» rispose Pelorat. «Ma guarda...» E indicò qualcosa, mentre la sua voce giungeva chiara a Trevize via radio.

Nella luce purpurea dell’alba, la facciata cadente di pietra dell’edificio verso cui si stavano dirigendo era coperta di brina.

«Con un’atmosfera rarefatta» disse Trevize «la notte è molto fredda e il giorno caldissimo. Questa dovrebbe essere la parte più gelida della giornata e dovrebbero trascorrere parecchie ore prima che la temperatura salga troppo perché ci si possa esporre al sole.»

Fu come se avesse pronunciato una parola magica, perché il bordo del sole affiorò sull’orizzonte.

«Non guardarlo» disse Trevize. «La tua visiera è riflettente e filtra gli ultravioletti, ma sarebbe ugualmente pericoloso.»

Volse le spalle al sole e lasciò che la propria ombra si allungasse sull’edificio. Il sole stava già sciogliendo la brina. Per alcuni istanti il muro diventò scuro, macchiandosi di umidità, poi scomparve anche quella.

«Gli edifici non sono tanto in buono stato, visti da vicino» osservò Trevize. «Sono pieni di crepe e si stanno sgretolando. È il risultato del cambiamento di temperatura, immagino, e del fatto che le tracce d’acqua gelano e si sciolgono ogni notte e ogni giorno, magari da migliaia di anni.»

«Ci sono delle lettere incise nella pietra sopra l’ingresso, ma non è facile leggere con tutte quelle crepe.»

«Riesci a capire qualcosa, Janov?»

«Dovrebbe trattarsi di una specie di istituto finanziario. Almeno, mi pare di distinguere una parola che potrebbe essere “banca”.»

«Sarebbe?»

«Un edificio in cui i beni vengono depositati, ritirati, investiti, scambiati, prestati. Se non sbaglio.»

«Un intero edificio adibito a questo? Senza computer?»

«Senza il controllo completo dei computer.»

Trevize alzò le spalle. Certi particolari della storia antica non gli interessavano.

Perlustrarono la zona sempre più in fretta, soffermandosi in ogni edificio il minimo indispensabile. Il silenzio, l’aria di morte che li circondava erano deprimenti. Il collasso millenario che erano venuti a disturbare aveva trasformato quel posto in uno scheletro di città, di cui non restavano che le costole.

Erano abbondantemente nella zona temperata, ma Trevize aveva l’impressione di sentire sulla schiena il calore del sole.

Un centinaio di metri alla sua destra, Pelorat disse d’un tratto: «Guarda qua!».

Trevize sussultò. «Non urlare, Janov. Posso sentirti benissimo anche se parli sottovoce, a qualsiasi distanza. Cosa c’è?»

Pelorat, abbassando la voce, disse: «Questo edificio è il “Palazzo dei Mondi”. Cioè, credo che sia questo il significato della scritta».

Trevize lo raggiunse. Di fronte a loro c’era una costruzione di due piani. La linea del tetto era irregolare, ingombra di frammenti di roccia; sculture crollate, forse.

«Ne sei certo?» chiese Trevize.

«Se entriamo, lo scopriremo.»

Salirono cinque ampi gradini e attraversarono una piazza in cui lo spazio si sprecava. Nell’aria rarefatta le calzature metalliche producevano una vibrazione frusciante più che un rumore vero e proprio.

«Adesso capisco cosa intendevi quando hai parlato di qualcosa di “imponente, inutile e dispendioso”» borbottò Trevize.

Entrarono in un salone. La luce del sole penetrava attraverso alcune grandi finestre, illuminando l’interno in modo troppo vivido e fastidioso nei punti che colpiva, ma lasciando sacche di oscurità. Anche questo dipendeva dalla rarefazione dell’atmosfera.

Al centro della sala c’era una figura umana di grandezza superiore al naturale, apparentemente di pietra sintetica. Un braccio era caduto, l’altro era spezzato all’altezza della spalla e Trevize rifletté che sarebbe bastata una lieve pressione per far cadere anche quello. Indietreggiò, come se temesse di cedere a una simile tentazione vandalica.

«Chissà chi è? Non vedo scritte. Senza dubbio doveva essere un personaggio famoso, se chi ha collocato la scultura ha pensato bene di tralasciare un’indicazione.»

Pelorat guardava in alto e Trevize seguì la direzione del suo sguardo. Su una parete erano incisi dei simboli che non fu in grado di leggere.

«Sorprendente!» esclamò Pelorat. «Avranno forse ventimila anni, eppure, trovandosi al riparo dal sole e dall’umidità, sono ancora leggibili.»

«Non per me.»

«Sono caratteri antichi e particolarmente elaborati. Vediamo: sette, uno, due...» La sua voce si perse in un borbottio confuso, poi tornò comprensibile. «Sono riportati cinquanta nomi e, dal momento che i Mondi spaziali dovrebbero essere stati cinquanta e che questo è il Palazzo dei Mondi... sì, secondo me, quelli sono i nomi dei mondi, probabilmente in ordine di fondazione. Aurora è il primo e Solaria l’ultimo. Come puoi notare ci sono sette colonne, con sette nomi nelle prime sei e otto nell’ultima. Si direbbe quasi che avessero progettato uno schema simmetrico, sette per sette, e che abbiano aggiunto Solaria in seguito. A mio avviso, amico mio, quella lista risale a un periodo precedente alla terraformazione e al popolamento di Solaria.»

«E noi su quale pianeta ci troveremmo? Sapresti dirlo?»

«Se guardi bene, vedrai che il quinto nome della terza colonna, il diciannovesimo, è scritto in lettere un po’ più grandi delle altre. Gli autori di questo elenco dovevano essere abbastanza egocentrici da volersi porre in primo piano. Inoltre...»

«Quale sarebbe il nome?»

«Per quel che riesco a leggere io, Melpomenia. È un nome che non ho mai sentito.»

«Potrebbe rappresentare la Terra?»

Pelorat scosse il capo deciso, anche se esternamente il casco non si muoveva. «Nelle vecchie leggende la Terra viene indicata con decine di nomi. Come sai, Gaia è uno di questi. Poi abbiamo Earth, Erda e molti altri. Sono tutti brevi, non mi risulta che in questo caso esistano nomi lunghi e nemmeno che esista qualche nome corrispondente a una forma abbreviata di Melpomenia.»

«Dunque, siamo su Melpomenia e non è la Terra.»

«Già. Inoltre, come stavo per dire prima, un indizio ancora più significativo delle lettere più grandi è che le coordinate di Melpomenia vengono indicate con 0, 0, 0, il che è logico se si tratta di coordinate che si riferiscono al proprio pianeta.»

«Quella lista dà anche le coordinate?» chiese Trevize frastornato.

«Ci sono tre cifre per ogni nome, che altro potrebbero essere?»

Trevize non rispose. Aprì un piccolo scomparto della tuta sulla coscia destra ed estrasse un minuscolo apparecchio collegato alla tuta da un cavetto. Lo accostò all’occhio e lo mise a fuoco inquadrando con cura le scritte sulla parete, muovendo le dita guantate con una certa difficoltà.

«Una telecamera?» fu la domanda superflua di Pelorat.

«Riverserà l’immagine direttamente nel computer di bordo.»

Trevize scattò diversi fotogrammi da angolazioni diverse, poi disse: «Un attimo, devo salire più in alto. Aiutami, Janov».

Pelorat intrecciò le mani, ma Trevize fece cenno di no. «Così non sosterrai il mio peso. Mettiti carponi.»

Pelorat si inginocchiò a fatica e altrettanto faticosamente, Trevize, dopo aver riposto la camera nella tuta, montò sulle spalle dell’amico e da lì passò sul piedistallo della statua. Provò a scuotere adagio la statua per stabilirne la solidità, poi appoggiò il piede su un ginocchio piegato e lo usò come base per aggrapparsi alla spalla mutilata. Puntando i piedi contro alcune sporgenze irregolari del torace, si sollevò e finalmente riuscì a sedersi sulla spalla, sbuffando. Non era certo un gesto riguardoso, se si pensava alle persone scomparse che un tempo avevano venerato la statua e ciò che rappresentava: Trevize se ne rendeva conto e cercò di sedere con la maggiore leggerezza possibile.

«Cadrai! Ti farai male» esclamò Pelorat ansioso.

«Non cadrò e non mi farò male. Tu piuttosto, vuoi farmi diventare sordo?» Trevize prese di nuovo l’apparecchio e mise a fuoco. Dopo parecchi scatti tornò a riporlo e si calò con cautela, finché i suoi piedi non toccarono il piedistallo. Saltò a terra e le vibrazioni dell’impatto diedero evidentemente il colpo decisivo, perché il braccio ancora intatto si sbriciolò senza che si sentisse alcun rumore, formando un mucchietto di frammenti sul pavimento.

Trevize raggelò, per un attimo provò l’impulso di correre a nascondersi, come se temesse l’arrivo del custode dopo aver rotto qualcosa di importante. Durò pochissimo, ma fu una sensazione dolorosa.

La voce di Pelorat era mesta come quella di chi è stato appena testimone, se non complice, di un atto vandalico.

Comunque, Pelorat cercò di consolare l’amico. «Non... non importa, Golan. Tanto sarebbe caduto da solo, comunque.»

Si avvicinò ai frammenti sul piedistallo e sul pavimento, come se cercasse una prova ulteriore della fragilità della statua, prese uno dei frammenti più grossi e disse: «Golan, vieni qui».

Trevize si portò accanto a lui e Pelorat, indicando un pezzo di pietra che apparteneva evidentemente al punto in cui il braccio si univa alla spalla, chiese: «Cos’è questo?».

Trevize guardò. C’era una chiazza di lanugine verde vivo. Travize la sfregò con un dito staccandola facilmente.

«Sembrerebbe muschio» disse Trevize.

«La forma di vita inerte, priva di mente, di cui parlavi?»

«Non so fino a che punto “priva di mente”. Scommetto che Bliss sosterrebbe che anche questo muschio è cosciente.»

«Credi che sia questa specie di muschio a sgretolare la roccia?»

«Sì, può darsi che influisca. Su questo mondo c’è parecchia luce e una certa quantità d’acqua. Una metà della sua atmosfera è costituita da vapore acqueo, il resto è azoto e gas inerti. La percentuale di anidride carbonica è infinitesimale, il che farebbe supporre l’assenza di vegetazione, ma l’anidride carbonica potrebbe essere così scarsa in quanto fusa per lo più nella crosta rocciosa. Ora, se lo strato roccioso contiene del carbonato, può darsi che questo muschio lo scinda con qualche secrezione acida e sfrutti poi l’anidride carbonica generata. Il muschio potrebbe essere la forma di vita principale rimasta sul pianeta.»

«Affascinante.»

«Sicuro,» convenne Trevize «ma fino a un certo punto. Le coordinate dei Mondi spaziali sono molto interessanti e tuttavia quello che ci serve sono le coordinate della Terra. Se non sono qui, potrebbero essere in un altro punto dell’edificio o altrove. Andiamo, Janov.»

«Senti...»

«No, no» disse Trevize impaziente. «Parleremo dopo. Adesso dobbiamo vedere se questo palazzo può rivelarci qualche altra informazione preziosa. La temperatura sale.» Controllò il minuscolo indice termico sul dorso del guanto sinistro. «Andiamo.»

Attraversarono le stanze il più delicatamente possibile, per paura di produrre vibrazioni troppo forti e causare ulteriori danni. I loro passi sollevavano un po’ di polvere, che ristagnava alcuni istanti e tornava a depositarsi nell’aria rarefatta, accanto alle loro impronte.

Di tanto in tanto, in qualche angolo buio, si notavano altri esempi di formazione di muschio. La presenza di una forma di vita, per quanto di grado inferiore, non era abbastanza consolante e non alleviava la sensazione soffocante che provavano nell’esplorare quel mondo morto; un pianeta che, a giudicare dai resti che li circondavano nella loro imponenza, un tempo era stato vivo e fiorente.

D’un tratto Pelorat annunciò: «Questa deve essere una biblioteca».

Trevize si guardò intorno incuriosito. C’erano degli scaffali e, ora che osservava più attentamente, gli sembrava di vedere qualcosa di simile a dei videolibri, mentre a una prima occhiata frettolosa aveva pensato che si trattasse di semplici oggetti ornamentali. Ne prese uno con circospezione. Erano spessi e ingombranti, ma poi capì che si trattava soltanto degli astucci. Armeggiando con le dita, aprì finalmente il contenitore e all’interno vide parecchi dischi. Anche i dischi erano spessi e sembravano fragili, ma non era il caso di collaudarne la robustezza.

«Incredibilmente primitivi» disse Trevize.

«Hanno ventimila anni» osservò Pelorat, come a difendere i melpomeniani dall’accusa di arretratezza.

Trevize indicò il dorso del videolibro, dov’erano presenti degli strani svolazzi ancora leggibili ma incomprensibili. «È il titolo? Cosa c’è scritto?»

Pelorat lo studiò. «Non sono molto sicuro, amico mio. Credo che una delle parole si riferisca alla vita microscopica. Una parola che sta per “microrganismo”, forse. E ho l’impressione che questi siano termini tecnici di microbiologia, che non capirei nemmeno in galattico standard.»

«Probabile» borbottò Trevize cupo. «Ed è altrettanto probabile che non ci sarebbero di alcuna utilità se anche riuscissimo a leggerli. A noi i germi non interessano. Fammi un favore, Janov. Dai un’occhiata ad alcuni di questi libri e vedi se c’è qualcosa con un titolo interessante. Intanto, io darò un’occhiata ai visori.»

«Perché, sono visori?» chiese Pelorat. Si trattava di strutture cubiche tozze, sormontate da uno schermo inclinato e da un prolungamento curvo sulla sommità. Forse una specie di bracciolo, o forse un punto dove appoggiare un elettrotaccuino. Ammesso che esistessero, su Melpomenia.

«Se questa è una biblioteca,» rispose Trevize «devono pur esserci strumenti di lettura. A me sembrano proprio visori.»

Spolverò piano uno schermo che per fortuna non si sbriciolò, poi azionò i comandi, sempre con delicatezza, uno dopo l’altro. Non accadde nulla. Provò un altro visore, ne provò un terzo, con gli stessi risultati negativi.

Prevedibile. Anche se fossero stati conservati in perfetta efficienza, e per venti millenni si fossero deteriorati ben poco grazie all’atmosfera rarefatta e a una minima presenza di vapore acqueo, c’era ugualmente il problema dell’alimentazione. L’energia immagazzinata, per quanto protetta da schermature, tendeva a disperdersi. Era un altro aspetto generale e inevitabile della seconda legge della termodinamica.

Pelorat si portò alle spalle di Trevize. «Golan?»

«Sì?»

«Ho qui un videolibro.»

«Di che genere?»

«Credo che sia una storia del volo spaziale.»

«Perfetto, ma non ci servirà a nulla se non riesco a mettere in funzione questo visore.»

«Potremmo portare il videolibro sull’astronave.»

«Non saprei come adattarlo al nostro visore e il sistema di scansione a bordo è sicuramente incompatibile.»

«Ma tutto questo è proprio necessario, Golan? Se noi...»

«Sì, Janov, è necessario. Adesso non interrompermi, sto cercando di decidere cosa fare. Potrei provare a dare energia al visore, forse non occorre altro.»

«E dove trovi l’energia?»

«Be’...» Trevize estrasse le armi e le osservò per un attimo, quindi ripose il fulminatore. Aprì la frusta neuronica e controllò il livello di carica: era al massimo.

Trevize si stese sul pavimento e strinse il visore, cercando di spingerlo in avanti. Il visore si spostò leggermente e Trevize studiò quello che aveva appena scoperto.

Uno dei cavi doveva essere quello d’alimentazione e sicuramente era quello che usciva dalla parete. Non si vedeva alcuna spina, né una derivazione. Era difficile fare i conti con una cultura aliena e antica dal momento che anche le cose più semplici e scontate apparivano irriconoscibili.

Tirò piano il cavo, poi più forte. Lo girò da una parte, poi dall’altra. Premette la parete nei pressi del cavo e il cavo vicino alla parete. Provò a tastare il pannello posteriore seminascosto del visore, ma non cambiò nulla.

Allora appoggiò una mano sul pavimento per drizzarsi e, mentre si alzava, il cavo che stringeva si staccò misteriosamente.

Non sembrava rotto né lacerato. L’estremità era liscia come il punto della parete dov’era fissato un attimo prima.

Pelorat lo chiamò sottovoce: «Golan, posso...».

Trevize agitò il braccio perentoriamente. «Non ora, Janov. Per favore!»

Si accorse di avere della lanugine verde nelle pieghe del guanto sinistro. Doveva aver raccolto quel muschio dietro il visore, schiacciandolo. Il guanto sembrava lievemente umido, ma asciugò subito e la macchia verdastra diventò marrone.

Trevize rivolse la propria attenzione al cavo, fissando l’estremità staccata. Sì, c’erano due forellini. Si potevano inserire dei fili, lì.

Si sedette sul pavimento, aprendo l’alimentatore della frusta neuronica. Depolarizzò uno dei fili e lo staccò, poi, lentamente, lo infilò in un foro e spinse finché il filo si fermò. Quando provò a staccarlo con deboli strattoni, il filo non si mosse, sembrava bloccato. Allora depolarizzò l’altro filo e lo inserì nella seconda apertura. In questo modo, teoricamente, il circuito si sarebbe chiuso, fornendo energia al visore.

«Janov, immagino che avrai maneggiato videolibri di ogni tipo. Vedi se riesci a inserire quello nel visore.»

«È proprio necessario.?»

«Per favore, basta con le domande inutili; non abbiamo molto tempo. Non voglio essere costretto ad aspettare che sia notte fonda e che l’edificio si raffreddi abbastanza da consentirci di tornare.»

«Credo che vada inserito qui, Golan, ma...»

«Bene. Se è una storia del volo spaziale, dovrà iniziare con la Terra, dato che il volo spaziale è stato inventato là. Forza, vediamo se questo aggeggio funziona.»

Pelorat, con cura un po’ eccessiva, inserì il videolibro nell’ovvia feritoia e cominciò a studiare i contrassegni dei vari controlli.

Mentre aspettava Trevize parlò sottovoce, in parte per scaricare la tensione. «Probabilmente anche su questo mondo ci saranno dei robot sparsi qua e là, forse ancora funzionanti grazie a un ambiente che garantisce il vuoto quasi assoluto. Il problema è che i loro alimentatori saranno scarichi da chissà quanto: se anche venissero ricaricati, come reagirebbero i loro cervelli? Le leve e gli ingranaggi possono resistere ai millenni, ma i microinterruttori e gli altri congegni subatomici che hanno senza dubbio nel cervello? Quelli si saranno deteriorati per forza, e anche se non si fossero deteriorati, cosa potrebbe sapere un robot della Terra? Cosa...»

«Il visore funziona, amico mio» annunciò Pelorat.

Nella penombra lo schermo cominciò a illuminarsi in modo tremulo, debolmente. Trevize alzò un po’ il livello di erogazione della frusta neuronica e la luminosità aumentò, mentre qualche macchia confusa scorreva sullo schermo.

«Va messo a fuoco» disse Trevize.

«Lo so,» annuì Pelorat «ma non riesco a regolarlo meglio di così. Il videolibro deve essersi consumato.»

Adesso le ombre scorrevano rapide e di tanto in tanto sembrava che apparissero dei brani scritti. Poi all’improvviso, dopo un attimo di chiarezza, tutto tornò a confondersi.

«Torna indietro e blocca, Janov.»

Pelorat stava già provando. Andò indietro, individuò il punto interessante, fece avanzare il videolibro e finalmente riuscì a fermare l’immagine.

Trevize cercò di leggere, smanioso, ma dovette rinunciare e disse con una punta di frustrazione: «Tu riesci a capire, Janov?».

«Non completamente» rispose Pelorat stringendo le palpebre. «Riguarda Aurora, mi pare. Parla della prima spedizione iperspaziale, il “primo espandimento”, dice.»

Proseguì e le immagini si annebbiarono e si sfocarono di nuovo. Infine disse: «Tutti i frammenti che riesco a decifrare parlano dei Mondi spaziali, Golan. Pare che non ci sia nulla sulla Terra».

Il tono amareggiato Trevize disse: «No, logico. Anche su questo mondo, come su Trantor, è stato cancellato tutto. Spegni quest’aggeggio».

«Ma non ha importanza» disse Pelorat spegnendolo.

«Perché possiamo provare in altre biblioteche? No, anche là non troveremo nulla. Le informazioni sono state cancellate, ovunque. Sai...» Mentre parlava Trevize guardava l’amico e infine lo fissò con un misto di orrore e ripugnanza. «Cos’ha la tua visiera?»

LXVII

Automaticamente Pelorat portò la mano guantata alla visiera, la staccò e guardò.

«Cos’è?» fece perplesso. Quindi guardò Trevize e continuò con voce stridula: «Anche la tua visiera ha qualcosa di strano, Golan».

Trevize si guardò intorno un istante, come se cercasse uno specchio. Ma non ce n’erano e in ogni caso avrebbe avuto bisogno di una luce. Mormorò: «Vieni al sole».

Trascinò Pelorat nel raggio luminoso che penetrava dalla finestra più vicina. Nonostante l’effetto isolante della tuta spaziale, avvertiva il calore del sole sulla schiena.

«Guarda verso il sole, Janov, poi chiudi gli occhi.»

Capì subito cosa avesse di strano la visiera. C’era del muschio che cresceva rigogliosamente nel punto in cui il vetro della visiera incontrava il tessuto metallizzato della tuta. La visiera era orlata di lanugine verde e Trevize si rese conto che anche la sua doveva essere in condizioni identiche.

Passò un dito sul muschio che aderiva al casco di Pelorat. Una parte si staccò macchiandogli il guanto. Mentre Trevize osservava, il muschio che luccicava nel riflesso del sole sembrò irrigidirsi ed essiccarsi. Lui provò ancora e questa volta il muschio si sbriciolò staccandosi. Stava diventando marrone.

Trevize strofinò bene i bordi della visiera di Pelorat. «Adesso pulisci la mia, Janov» disse. E poco dopo: «Tolto tutto? Bene, anche la tua visiera è a posto. Andiamo. Non ci resta altro da fare, qui».

Il calore del sole era fastidioso nella città deserta e senz’aria. Gli edifici di pietra scintillavano in modo quasi doloroso. Trevize tenne gli occhi socchiusi e cercò se possibile di costeggiare il lato in ombra delle strade. Si fermò di fronte a una crepa nella facciata di una costruzione, una crepa abbastanza ampia da permettergli di infilare un dito. Quando ebbe ritratto il dito, lo guardò e mormorò: «Muschio». E deliberatamente si portò al sole e alzò la mano per un po’.

«Il passaggio obbligato è l’anidride carbonica» disse Trevize. «Cresce dove trova l’anidride carbonica e in pratica la può trovare in mille posti. Noi stessi siamo un’ottima fonte di anidride, probabilmente la più ricca su questo mondo quasi morto. È probabile che tracce di questo gas filtrino attraverso i bordi delle visiere.»

«Così il muschio cresce lì intorno.»

«Sì.»

Il tragitto di ritorno all’astronave sembrò molto più lungo e naturalmente più caldo dell’andata. L’astronave era ancora all’ombra, quando la raggiunsero: per fortuna, al momento di atterrare Trevize aveva calcolato giusto, almeno su quel particolare.

«Guarda!» esclamò Pelorat subito.

Trevize annuì. I bordi del portello erano striati di muschio.

«Altra perdita?» chiese Pelorat.

«Certo. Da un punto di vista quantitativo insignificante, ma il muschio individua anche la più piccola fuoriuscita di anidride carbonica. Le sue spore devono essere dappertutto e, se trovano qualche molecola del prezioso gas, attecchiscono subito.» Trevize regolò la lunghezza d’onda della radio mettendosi in contatto con l’astronave. «Bliss, mi senti?»

La voce della ragazza risuonò in entrambi i caschi. «Sì. Pronti a entrare? Avete avuto fortuna?»

«Siamo qui fuori, ma non aprire il portello. Lo apriremo noi dall’esterno. Ripeto, non aprire il portello.»

«Perché?»

«Bliss, fai come ti dico, d’accordo? Discuteremo dopo.»

Trevize estrasse il fulminatore, ne abbassò l’intensità fino al minimo e lo fissò incerto. Non l’aveva mai usato al minimo. Si guardò intorno, non c’era niente di abbastanza fragile su cui collaudarlo.

Allora, nell’assoluta disperazione, lo puntò sul fianco dell’altura che riparava dal sole la Stella lontana. Il bersaglio non diventò incandescente. Trevize provò a toccare il punto colpito. Era caldo? Impossibile dirlo con sicurezza, dato il tessuto isolante della tuta.

Trevize esitò ancora, poi decise che lo scafo dell’astronave doveva avere all’incirca la stessa resistenza del fianco della collina. Puntò il fulminatore sul bordo del portello e fece scattare brevemente il contatto, trattenendo il respiro.

Parecchi centimetri di muschio diventarono subito scuri. Trevize agitò la mano vicino al tratto annerito e il lieve spostamento dell’aria rarefatta fu sufficiente a disperdere i resti del vegetale.

«Funziona?» chiese Pelorat ansioso.

«Certo. Ho trasformato il fulminatore in un debole raggio termico.»

Trevize finì di disinfestare i margini del portello, poi lo colpì per creare una vibrazione che provocasse il distacco del muschio ormai morto e un pulviscolo marrone scese lentamente a depositarsi al suolo.

«Credo che possiamo aprire, adesso» disse Trevize. Servendosi dei comandi che aveva al polso emise l’onda radio che azionava il congegno di apertura. Il portello non si era ancora aperto del tutto, quando Trevize incitò l’amico dicendo: «Non restare lì impalato, Janov, entra. Non aspettare gli scalini, arrampicati».

Quindi seguì Pelorat, irrorò col fulminatore gli scalini che si stavano abbassando e batté il segnale di chiusura del portello, continuando a tenere in funzione il raggio termico finché non si ritrovarono in un ambiente chiuso.

«Siamo nella camera stagna, Bliss. Ci resteremo per qualche minuto. Mi raccomando, tu non fare nulla.»

La voce di Bliss ribatté: «Ditemi almeno qualcosa. Stai bene, tu? E Pel?».

«Sono qui, Bliss» rispose Pelorat. «Sto bene. Non c’è motivo di preoccuparsi.»

«Se lo dici tu, Pel. Ma dopo pretendo delle spiegazioni.»

«Promesso» disse Trevize e accese la luce della camera stagna.

Le due figure in tuta spaziale si trovavano di fronte.

«Stiamo pompando all’esterno tutta l’aria del pianeta,» spiegò Trevize «quindi aspetteremo che l’operazione sia terminata.»

«E l’aria di bordo? La lasceremo entrare?»

«Per un po’, no. Anch’io sono ansioso di togliermi la tuta, Janov, ma prima voglio che ci sbarazziamo delle spore che sono entrate con noi o che abbiamo addosso.»

Nell’illuminazione un po’ scarsa della camera stagna, Trevize puntò il fulminatore sui bordi interni del portello e passò metodicamente il raggio termico tutt’intorno, ripetendo l’operazione un paio di volte.

«Adesso tocca a te, Janov.»

Pelorat si agitò allarmato e Trevize lo tranquillizzò. «Forse sentirai caldo, nient’altro. Se il calore sarà eccessivo, dillo.»

Passò il raggio invisibile sulla visiera, in particolare lungo i margini, poi lentamente sul resto della tuta.

«Ora alza le braccia, Janov. Ecco, appoggiale sulle mie spalle e alza un piede. Devo disinfestare le suole. L’altro piede, adesso. Hai caldo? Troppo caldo?»

«Non sento esattamente un fresco alito di brezza, Golan.»

«Bene, allora fammi assaggiare la mia medicina, adesso.»

«Ma Golan, io non ho mai impugnato un fulminatore.»

«Devi farlo! Stringilo così e col pollice spingi questo piccolo pulsante. Stringi bene, ecco fatto. Adesso punta il raggio sulla mia visiera. Muovilo in modo uniforme, non tenerlo troppo a lungo su un unico punto. Adesso il resto del casco, poi il collo.»

Trevize continuò a guidare i movimenti dell’amico e, quando si ritrovò sudato da capo a piedi per quella doccia termica, riprese in mano il fulminatore e controllò il livello di carica.

«Ne rimane meno di metà» disse e irrorò l’interno della camera stagna in ogni angolo, finché l’arma non ebbe esaurito l’energia.

Allora la ripose nel fodero e azionò l’apertura del portello interno. Accolse con sollievo il sibilo dell’aria che entrava. Era fresca e il suo potere convettivo avrebbe raffreddato in fretta le tute spaziali. Probabilmente era uno scherzo dell’immaginazione, ma Trevize avvertì subito l’effetto refrigerante. Fantasia o meno, l’accolse con piacere.

«Giù la tuta, Janov, e lasciala qui nella camera stagna.»

«Se non ti dispiace,» disse Pelorat «innanzitutto gradirei una doccia.»

«Non credo sia possibile. Prima della doccia e prima di poter svuotare la vescica, ho la sensazione che dovrai parlare a Bliss.»

Bliss aspettava con un’espressione preoccupata e alle sue spalle faceva capolino Fallom, aggrappata a lei.

«Cos’è successo?» domandò Bliss seria.

«Misure preventive di disinfestazione» rispose Trevize conciso. «Adesso accenderò gli ultravioletti. Presto, le lenti scure.»

Con gli ultravioletti in funzione Trevize si tolse gli indumenti umidi a uno a uno e li rigirò scuotendoli.

«Semplice precauzione. Fallo anche tu, Janov. Bliss, dovrò spogliarmi completamente. Se questo può metterti in imbarazzo, vai nell’altra cabina.»

«Perché dovrei essere imbarazzata? So come sei fatto e sicuramente non scoprirò nulla di nuovo. Ma perché questa disinfezione? Cosa c’è che non va?»

«Oh, nulla, solo una cosuccia che se potesse diffondersi liberamente causerebbe gravi danni all’umanità, credo.»

LXVIII

Era tutto sistemato. La luce ultravioletta aveva fatto la propria parte. Ufficialmente, stando ai complessi videomanuali di istruzioni che corredavano la Stella lontana, gli ultravioletti erano stati installati appunto a scopo di disinfestazione. Trevize, comunque, aveva il sospetto che la tentazione fosse sempre presente e che a volte si potessero usare per procurarsi una bella abbronzatura, che su certi mondi era di moda.

L’astronave decollò e Trevize la fece avvicinare il più possibile al sole di Melpomenia, girandola più volte in modo da esporne tutta la superficie esterna a una dose massiccia di raggi ultravioletti.

Infine recuperò le due tute rimaste nella camera stagna e le esaminò finché non si ritenne soddisfatto.

«Tutto questo per un po’ di muschio» osservò Bliss. «Hai detto che era muschio, vero Trevize?»

«L’ho chiamato così perché mi ricordava del muschio. Comunque, non sono un botanico. Posso dire soltanto che è di un colore verde intenso e che probabilmente si accontenta di pochissima energia luminosa.»

«Perché pochissima?»

«Il muschio è sensibile agli ultravioletti e non può crescere e tanto meno sopravvivere esposto alla luce diretta. Le sue spore sono ovunque e cresce in angoli nascosti, nelle crepe, alla base dei muri, nutrendosi dell’energia luminosa dei fotoni sparsi, ovunque sia disponibile una fonte di anidride carbonica.»

«E mi pare di capire che lo consideri pericoloso» disse Bliss.

«Già. Se avessimo portato a bordo delle spore, le spore qui avrebbero trovato un’illuminazione abbondantissima e priva di dannosi raggi ultravioletti. Avrebbero trovato acqua in quantità e una fonte di anidride carbonica praticamente inesauribile.»

«Solo lo 0,03 per cento della nostra atmosfera» disse Bliss.

«Parecchia per le spore, più il quattro per cento del nostro fiato. Potrebbero crescerci nelle narici e sulla pelle, alterare e guastare i viveri, produrre tossine letali. E anche riuscendo a distruggerle quasi tutte, le poche spore superstiti potrebbero infestare altri pianeti, una volta trasportate involontariamente da noi, cominciare a diffondersi su altri mondi. Chissà quali disastri provocherebbero.»

Bliss scosse il capo. «La vita non è necessariamente pericolosa solo perché è diversa. Sei sempre così pronto a uccidere, tu.»

«Quella che parla è Gaia» osservò Trevize.

«Certo, ma spero di farmi capire ugualmente. Il muschio si è adattato alle condizioni esistenti su Melpomenia. Sfrutta piccole quantità di luce, ma troppa luce gli è fatale. Sfrutta tracce minime di anidride carbonica e può darsi che quantità maggiori lo uccidano. Quindi, può darsi che non sia in grado di sopravvivere su altri mondi.»

«Avrei dovuto correre il rischio?» chiese Trevize.

Bliss alzò le spalle. «D’accordo, non stare sulla difensiva. Capisco il tuo punto di vista. Essendo un isolato, probabilmente hai dovuto comportarti così. Non avevi scelta.»

Trevize stava per ribattere quando la voce acuta di Fallom si intromise nel discorso, parlando in solariano.

Lui si rivolse a Pelorat. «Cosa dice?»

Pelorat cominciò a tradurre: «Dice che...».

Ma Fallom, che aveva ricordato un attimo troppo tardi che la sua lingua non era capita da tutti, ricominciò daccapo.

«C’era Jemby, laggiù?»

La pronuncia delle parole era esatta e Bliss si illuminò. «Lo parla bene, il galattico, vero? E ha imparato in pochissimo tempo.»

Sottovoce, Trevize disse: «Preferisco non risponderle per non creare complicazioni. Spiegaglielo tu, Bliss, che non abbiamo trovato nessun robot sul pianeta».

«Le parlerò io» si offrì Pelorat. «Vieni, Fallom.» E le cinse le spalle. «Andiamo in camera nostra e ti darò un altro libro da leggere.»

«Un libro? Su Jemby?»

«Non proprio.» E la porta si chiuse dietro di loro.

«Bah» fece Trevize spazientito, osservando i due che si ritiravano. «Sprechiamo il nostro tempo facendo da bambinaie a quella ragazzina.»

«Sprechiamo? Non mi pare che questo intralci la tua ricerca, Trevize. Assolutamente. E comportandoci così instauriamo la comunicazione, allontaniamo le paure, le diamo un po’ di affetto. Ti sembrano cose trascurabili?»

«Di nuovo Gaia che parla.»

«Sì. E cerchiamo di essere pratici, allora. Abbiamo visitato tre Mondi spaziali e non abbiamo ottenuto nulla.»

Trevize annuì. «Vero.»

«Anzi, abbiamo scoperto che tutti e tre erano pericolosi. Su Aurora c’erano cani selvatici, su Solaria esseri umani strani e letali; su Melpomenia un muschio parassita. A quanto pare, quando un mondo viene lasciato a se stesso e indipendentemente dalla presenza dell’umanità, diventa un pericolo per la comunità interstellare.»

«Non puoi considerarla una regola generale.»

«Tre casi su tre sono certamente una percentuale significativa.»

«In che senso, Bliss?»

«Ti rispondo subito, e per favore ascoltami senza preconcetti. Nella galassia ci sono milioni di mondi e ognuno è composto interamente di isolati; su ognuno gli esseri umani rappresentano la forma di vita dominante e possono imporre la propria volontà alle altre forme di vita, all’ambiente geologico e perfino ai propri simili. La galassia, dunque, è una specie di Galaxia molto primitiva, dal funzionamento imperfetto. L’inizio di un’unità, è chiaro?»

«Capisco cosa cerchi di dire, ma questo non significa che sarò d’accordo quando avrai finito di parlare.»

«Non devi essere d’accordo per forza, ma devi ascoltarmi. La galassia può funzionare solo in quanto proto-Galaxia, e più si avvicinerà a uno stadio adulto meglio sarà. L’impero galattico è stato un tentativo di creare una proto-Galaxia più forte; quando è crollato, la situazione è peggiorata rapidamente e si è avuta una tendenza costante a ricostituire il concetto di proto-Galaxia. La Federazione della Fondazione è un esempio di questa tendenza, come lo era l’impero del Mulo. Lo stesso impero che la Seconda Fondazione mira a realizzare fa parte del disegno, ma anche se non ci fossero imperi e federazioni, anche se l’intera galassia fosse in tumulto, si tratterebbe di un fermento di mondi collegati, coordinati e in reciproca interazione, sia pur di carattere ostile. Questa sarebbe di per sé una specie di unione, ben lontana dal caso peggiore.»

«Che invece è...?»

«Conosci già la risposta, Trevize, l’hai vista. Se un mondo abitato dagli esseri umani si sfascia completamente, piomba nell’isolamento totale e perde qualsiasi legame con gli altri mondi abitati. Allora degenera in modo maligno.»

«Una specie di cancro?»

«Sì. Non è questo, Solaria? È contro tutti i mondi e i suoi abitanti sono gli uni contro gli altri. Se gli esseri umani scompaiono, si perde anche l’ultima traccia di disciplina. L’ostilità, la legge del “tutti contro tutti” diventa una forza cieca come nel caso dei cani, o una semplice forza degli elementi come nel caso del muschio. Dovresti capire che più ci avviciniamo a Galaxia, più vediamo migliorare la società. Perché non puntare alla realizzazione finale, dico io?»

Trevize rifletté per un po’, fissando Bliss in silenzio. «Ci sto pensando ma mi sembra errato supporre che la questione quantitativa sia a senso unico. Cioè che se una cosa a piccole dosi è positiva, aumentando la dose migliorerà sempre. Tu stessa hai fatto notare che forse quel muschio si è adattato a vivere con pochissima anidride carbonica e che troppa potrebbe ucciderlo, vero? Un essere umano alto due metri è avvantaggiato rispetto a uno alto un metro, ma sta anche meglio di un individuo di tre metri. Un topo non starebbe certo meglio se avesse le dimensioni di un elefante. Non potrebbe vivere, e lo stesso discorso varrebbe per un elefante ridotto alle dimensioni di un topo.

«C’è un formato naturale, una complessità naturale e un optimum per ogni cosa, dalla stella all’atomo, per gli esseri viventi e per le società. Non dico che il Vecchio impero galattico fosse l’ideale e che la Federazione non sia esente da difetti, ma non mi sento di affermare che, in quanto l’isolamento totale è negativo, l’unificazione totale è per forza positiva. I due estremi potrebbero essere ugualmente orribili e forse un impero galattico strutturato in modo antiquato è la soluzione migliore alla quale possiamo aspirare.»

Bliss scosse il capo. «Chissà se credi davvero a quel che dici, Trevize. Vorresti sostenere che un virus e un essere umano sono due estremi insoddisfacenti e sceglieresti una soluzione intermedia, per esempio una muffa?»

«No. Ma potrei sostenere che un virus e un superuomo sono altrettanto insoddisfacenti e come soluzione intermedia potrei scegliere un essere umano normale. Comunque, è inutile discutere. Avrò la soluzione quando troverò la Terra. Su Melpomenia abbiamo scoperto le coordinate di altri quarantasette Mondi spaziali.»

«E intendi visitarli tutti?»

«Sì, se necessario.»

«Rischiando di incontrare nuovi pericoli su ognuno?»

«Lo confermo, se servirà a trovare la Terra.»

Pelorat era uscito dalla cabina in cui aveva lasciato Fallom e sembrava stesse per dire qualcosa, ma fu bloccato dal rapido scambio verbale tra Bliss e Trevize.

«Quanto tempo occorrerà?» chiese Bliss.

«Tutto il tempo necessario». Può darsi che troviamo quello che cerchiamo sul prossimo pianeta.»

«O su nessuno.»

«Lo sapremo solo provando.»

Finalmente Pelorat riuscì a inserirsi nella discussione. «Ma che senso ha cercare, Golan? Abbiamo già la risposta!»

Trevize agitò brusco la mano per liquidare l’intervento dell’amico, poi rifletté per un attimo e si girò di colpo. «Cosa?»

«Ho detto che abbiamo già la risposta. Su Melpomenia ho provato a dirtelo almeno cinque volte, ma eri talmente preso da quello che facevi.»

«Che risposta abbiamo? Di che stai parlando?»

«Della Terra. Adesso conosciamo la posizione della Terra, credo.»

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