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Un’ampia sala, che sembrava ancora più ampia perché era priva di qualsiasi arredo. Non c’erano sedie né panche, e nemmeno altri sedili. Non c’era nessuna piattaforma, né drappi. Niente decorazioni.
Non c’erano lampade ma un’illuminazione fioca e uniforme. Le pareti non erano completamente spoglie. Qui e là, a varie altezze e in ordine sparso, si notavano piccoli schermi televisivi, primitivi e bidimensionali, tutti in funzione. Dal punto in cui si trovavano Seldon e Dors non si aveva nemmeno l’illusione di una terza dimensione, neanche una parvenza della vera olovisione.
C’erano poche e isolate persone, ognuna delle quali stava per proprio conto, in ordine sparso come gli schermi televisivi. Tutti indossavano la toga bianca e la fascia.
Per lo più regnava il silenzio: non si poteva dire che qualcuno parlasse davvero. Alcuni muovevano le labbra, mormorando sommessamente, e quelli che camminavano lo facevano con passo furtivo, tenendo gli occhi bassi.
L’atmosfera era decisamente funerea.
Seldon si chinò verso Dors, che portò subito un dito alle labbra, poi indicò un monitor. Lo schermo mostrava un giardino idilliaco pieno di fiori, inquadrato con una lenta panoramica dall’obiettivo.
Si incamminarono verso il monitor imitando le altre persone, a passi lenti e leggeri.
Quando furono a mezzo metro dallo schermo, si udì una voce sommessa e insinuante. «Il giardino di Antennin, ricostruito da antiche guide e fotografie, situato nella zona periferica di Eos. Notate...»
«Si accende quando qualcuno è abbastanza vicino e si spegne se ci si allontana» sussurrò Dors con un filo di voce. Col suono proveniente dall’apparecchio, Seldon faticò a sentirla. «Se ci avviciniamo abbastanza, possiamo parlare approfittando del sonoro, ma non girarti e taci subito se arriva qualcuno.»
Seldon, il capo chino, le mani intrecciate di fronte a sé (aveva notato che quella era una posa molto in voga), disse: «Mi aspetto sempre che da un momento all’altro qualcuno cominci a lamentarsi».
«Può darsi. Stanno piangendo il loro Mondo perduto.»
«Spero che cambino trasmissioni di tanto in tanto. Sarebbe tremendo vedere sempre le stesse.»
«Sono tutte diverse» mormorò Dors spostando lo sguardo con circospezione. «Forse cambiano periodicamente. Non so.»
«Aspetta!» disse Seldon, appena troppo forte. Abbassò la voce e continuò: «Da questa parte».
Dors corrugò la fronte, non avendo capito, ma lui le rivolse un cenno con il capo. Si mossero ancora adagio, ma lui impaziente allungò il passo e lei, raggiungendolo, gli diede un breve strattone alla toga per farlo rallentare.
«Dei robot» disse Seldon, quando entrò in funzione il sonoro.
L’immagine mostrava l’angolo di una residenza, con un prato ondulato, siepi in primo piano e tre oggetti che potevano essere descritti solo come robot. Metallici, in apparenza, e vagamente umani come forma.
La registrazione spiegò: «Questa è una veduta, di recente ricostruzione, della famosa tenuta di Wendome, terzo secolo. Il robot che si può notare nel centro si chiamava Bendar, almeno secondo la tradizione. Stando agli antichi documenti servì per ventidue anni prima di essere sostituito».
«“Di recente ricostruzione”,» osservò Dors. «Quindi le trasmissioni cambiano.»
«A meno che non dicano “di recente ricostruzione” da un migliaio d’anni.»
Un micogenese si avvicinò al monitor e a bassa voce, ma non quanto i sussurri di Seldon e Dors, disse: «Salve, Fratelli».
Parlò senza guardarli e, dopo un’involontaria occhiata d’allarme, Seldon tornò a girarsi. Dors non si era minimamente scomposta.
Seldon esitò perché Micelio Settantadue aveva detto che nel Sacratorium nessuno parlava. Forse aveva esagerato: del resto, non era più stato lì dentro da quando era piccolo.
Disperato, Seldon decise che doveva dire qualcosa e mormorò: «Salve a te, Fratello».
Non sapeva se fosse la formula di risposta appropriata o se ci fosse una formula, ma non sembrò che il micogenese giudicasse le sue parole negativamente.
«Lunga vita su Aurora» disse il Fratello.
«Anche a te lunga vita» ribatté Seldon. E poiché aveva l’impressione che l’altro si aspettasse di più, aggiunse: «Su Aurora». E ci fu un impercettibile allentarsi della tensione. Seldon aveva la fronte umida.
«Stupenda!» esclamò il micogenese. «È la prima volta che vedo questa immagine.»
«Un lavoro eccellente» ammise Seldon. Poi, in un impeto di audacia, aggiunse: «Una perdita indimenticabile».
L’altro parve sorpreso. «Proprio. Già» e si allontanò.
«Non rischiare inutilmente» sibilò Dors. «Non dire quello che non devi dire.»
«Mi sembrava una cosa naturale. Comunque, questo è materiale recente. Ma quei robot sono una delusione: quello che ci si aspetta di vedere pensando a degli automi. Io voglio vedere i robot organici, umanoidi.»
«Ammesso che esistessero» osservò Dors esitante «credi che li utilizzassero per lavori di giardinaggio?»
«No, è vero» convenne Seldon. «Dobbiamo trovare la guglia degli Anziani.»
«Sempre che esista. A me pare che in questo salone vuoto non ci sia nulla, a parte un salone vuoto.»
«Diamo un’occhiata.»
Camminarono lungo la parete, passando da uno schermo all’altro e cercando di variare la durata delle soste di fronte a ogni monitor, finché Dors non strinse il braccio di Seldon. Tra due schermi si vedevano le linee di un rettangolo.
«Una porta» disse Dors. Poi, non più tanto convinta, aggiunse: «Secondo te?».
Seldon si guardò intorno furtivamente. Per fortuna, in armonia con l’atmosfera di cordoglio, ogni volto, quando non fissava uno schermo televisivo, era chino verso il pavimento con un’espressione triste e concentrata.
«Come si aprirà?» chiese Seldon.
«Con una placca d’apertura.»
«Io non ne vedo.»
«Be’, non è segnata, ma là c’è un punto scolorito. Vedi? Sai, chissà quante volte hanno appoggiato la mano.»
«Ora provo. Occhi aperti, e dammi un calcio se qualcuno guarda da questa parte.»
Seldon trattenne il respiro, toccò la chiazza scolorita ma non accadde nulla. Allora vi appoggiò il palmo e premette.
La porta si aprì senza un cigolio, senza il minimo scricchiolio. Si affrettò a varcarla e lei lo seguì. La porta si richiuse.
«Il problema è: ci avrà visto qualcuno?» disse Dors.
«Di sicuro gli Anziani passano spesso da questa porta.»
«Già, penseranno che lo siamo.»
Seldon attese, quindi disse: «Se ci avessero osservati e avessero notato qualcosa che non andava, questa porta si sarebbe spalancata al massimo quindici secondi dopo il nostro ingresso».
«Può darsi. O forse non c’è nulla da vedere o da fare, e a nessuno importa chi entra qui.»
«È tutto da dimostrare» borbottò Seldon.
Si trovavano in una stanza stretta, piuttosto buia, ma quando avanzarono la luce aumentò.
C’erano sedie ampie e comode, tavolini, parecchi divani, un frigorifero capiente, armadietti.
«Se questa è la guglia degli Anziani,» commentò Seldon «pare che si trattino bene, nonostante l’austerità del Sacratorium.»
«Come prevedibile. L’ascetismo in una classe dirigente è molto raro, a parte la facciata da presentare al pubblico. Annotalo sul tuo taccuino degli aforismi psicostorici.» Si guardò intorno. «E non c’è nessun robot.»
«Ah, ma una guglia è un posto elevato, ricordi? E questo soffitto è basso. Dobbiamo cercare i piani superiori e la strada dev’essere quella.» Seldon indicò una scala ricoperta da una passatoia.
Non si diresse verso la scala ma si guardò intorno, perplesso.
Dors immaginò cosa stesse cercando. «Dimentica gli ascensori: a Micogeno c’è il culto del primitivismo. Non l’hai dimenticato, no? E non è tutto: scommetto che se andremo sul primo gradino la scala non comincerà a muoversi verso l’alto. Dovremo salire noi, forse parecchie rampe.»
«Salire la scala?»
«Ovvio, deve portare alla guglia, sempre che porti da qualche parte. Vuoi vedere la guglia, no?»
Si avviarono alla scala e cominciarono a salire.
Fecero tre rampe e via via che salivano la luce si abbassò in maniera percettibile. Seldon respirò a fondo e mormorò: «Penso di essere in ottima forma, ma questa è una cosa che detesto».
«Non sei abituato allo sforzo fisico.» Dors non mostrava alcun segno di stanchezza.
Alla sommità della terza rampa la scala terminava. Di fronte a loro c’era una nuova porta.
«E se è bloccata?» chiese Seldon rivolto più che altro a se stesso. «Cerchiamo di sfondarla?»
«Perché dovrebbe esserlo, dal momento che quella di sotto non lo era? Se questa è la guglia degli Anziani, c’è senza dubbio un tabù che impedisce a chi non è dei loro di spingersi fin qui. Un tabù è molto più efficace di qualsiasi serratura.»
«Per chi accetta il tabù» ribatté Seldon, ma non accennò ad avvicinarsi alla porta.
«Siamo ancora in tempo ad andarcene, visto che esiti. In effetti, ti consiglierei di lasciar perdere.»
«Esito soltanto perché non so cosa troveremo all’interno. Se non c’è nulla...» Poi Seldon alzò la voce e aggiunse: «Be’, se non c’è nulla, non c’è nulla e basta». E avanzò, premendo il riquadro d’apertura.
La porta si aprì rapida e silenziosa, e Seldon arretrò di un passo, colpito dalla luce intensissima che sgorgò all’esterno.
E lì di fronte a lui, con gli occhi accesi e luminosi, le braccia alzate a metà e un piede leggermente più avanti dell’altro, c’era una figura umana. Sprigionava uno scintillio metallico, giallognolo. Per alcuni secondi Seldon ebbe l’impressione che indossasse una tunica aderente, ma osservando meglio si accorse che la tunica faceva parte della struttura dell’oggetto.
«È il robot» disse intimidito. «Ma è metallico.»
«Peggio» fece Dors, che si era spostata rapidamente a destra e a sinistra. «Ha lo sguardo fisso. Le sue braccia sono perfettamente immobili. Non è vivo, sempre che si possa usare questa espressione a proposito di un robot.»
A quel punto un uomo – perché quello era un uomo, non c’era alcun dubbio – uscì da dietro il robot e disse: «Forse no. Ma io sono vivo».
E, quasi automaticamente, Dors avanzò e si piazzò tra Seldon e l’uomo apparso all’improvviso.