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Gleb Andorin fissava Namarti con occhi semichiusi. Quell’uomo non gli era mai piaciuto, ma c’erano occasioni in cui lo trovava ancora più sgradevole del solito e questa era appunto una di quelle. Perché Andorin, un membro della Real Casa di Wye (perché questo lui era, dopotutto), doveva lavorare con quel bifolco, quel paranoico praticamente psicotico?
Andorin sapeva il perché e doveva fare sfoggio di sopportazione, anche quando Namarti ricominciava a narrare di nuovo la storia di come era riuscito a ricostruire il partito nel corso di dieci anni, portandolo all’attuale livello di perfezione. Lo raccontava a tutti, un giorno dopo l’altro? Oppure aveva scelto proprio Andorin come suo ascoltatore preferito per quella storia?
Il volto di Namarti sembrava scintillare di livida gioia maligna mentre diceva, con una specie di bizzarra cantilena, come se fosse qualcosa di imparato a memoria: «E così, anno dopo anno, ho lavorato lungo queste linee, anche attraverso la disperazione e l’impotenza, costruendo un’organizzazione, scalfendo la fiducia nel governo, creando e intensificando il malcontento. Quando si è verificata la crisi delle banche e la settimana della sospensione dei pagamenti, io...».
Fece una pausa improvvisa. «Ti ho già raccontato questa storia molte volte e tu sei stanco di sentirla, non è vero?»
Le labbra di Andorin si piegarono in un rapido sorriso amaro. Namarti non era così idiota da non accorgersi di essere un autentico scocciatore, ma non poteva farne a meno. «Me l’hai già raccontata molte volte» disse Andorin. Lasciò il resto della domanda a galleggiare nell’aria, senza risposta. Una risposta che, in fin dei conti, era affermativa. Non era necessario pronunciarla.
Un leggero rossore avviluppò il viso smunto di Namarti. «Ma avrei potuto continuare in eterno a costruire, a scalfire, senza mai giungere a qualche risultato decisivo, se non avessi avuto lo strumento adatto nelle mie mani. E senza alcuno sforzo da parte mia, lo strumento è arrivato.»
«Gli dèi ti hanno portato Planchet» disse Andorin in tono neutro.
«Hai ragione. Presto un gruppo di giardinieri entrerà nell’area del palazzo imperiale.» Fece una pausa e sembrò assaporare quel pensiero. «Uomini e donne. Sufficienti a servire come copertura per il gruppo di nostri agenti che li accompagnerà. Fra loro ci sarai anche tu, naturalmente, e Planchet. E ciò che renderà insoliti te e Planchet sarà il fatto che entrambi sarete armati di fulminatori.»
«Certo,» disse Andorin con tono volutamente sarcastico nonostante l’espressione impassibile «così saremo fermati ai cancelli e trattenuti per un interrogatorio. Introdurre illegalmente un fulminatore dentro i confini del palazzo...»
«Non sarete fermati» disse Namarti non raccogliendo il sarcasmo. «Non sarete perquisiti. È già stato predisposto. Naturalmente verrete tutti accolti da qualche funzionario di palazzo. Non so a chi spetterebbe solitamente occuparsi della cosa... magari al Terzo Sostituto Ciambellano addetto all’Erba e alle Foglie... ma in questo caso sarà lo stesso Seldon. Il grande matematico arriverà di corsa per accogliere i nuovi giardinieri e dare loro il benvenuto a palazzo.»
«Di questo sei assolutamente sicuro, immagino.»
«Certamente. È stato tutto già predisposto. In qualche modo, più o meno all’ultimo momento, scoprirà che suo figlio è incluso nell’elenco dei nuovi giardinieri e non saprà resistere all’impulso di corrergli incontro. All’apparire di Seldon, Planchet solleverà il suo fulminatore. I nostri uomini cominceranno a gridare al tradimento; nella confusione e nel parapiglia che seguiranno, Planchet ucciderà Seldon e tu ucciderai Planchet. Poi lascerai cadere l’arma e scomparirai. Alcuni nostri uomini ti aiuteranno a fuggire. È stato tutto già predisposto.»
«È assolutamente necessario uccidere Planchet?»
Namarti si accigliò. «Perché? Hai qualcosa da obiettare contro un’uccisione e non contro l’altra? Se Planchet dovesse uscirne vivo, vuoi che racconti alle autorità tutto quello che sa sul nostro conto? E poi, noi stiamo inscenando una faida familiare. Non dimenticare che Planchet, in realtà, è Raych Seldon. Sembrerà che entrambi abbiano sparato simultaneamente, o che Seldon avesse dato ordine di abbattere il figlio nel caso di qualche suo gesto ostile. Faremo in modo che il lato familiare riceva la dovuta pubblicità. Qualcosa che ricordi i brutti tempi di Manowell, l’imperatore sanguinario. Il popolo di Trantor proverà repulsione per l’orribile malvagità della situazione. Quest’ultima goccia, unita a tutte le inefficienze e i guasti sofferti negli ultimi tempi, lo spingerà a invocare a gran voce un nuovo governo e nessuno sarà in grado di rifiutarglielo, meno fra tutti l’imperatore. E a questo punto noi ci faremo avanti.»
«Così, di punto in bianco?»
«No, niente del genere. Non vivo sulle nuvole. Probabilmente ci sarà un governo temporaneo, ma fallirà. Penseremo noi a farlo crollare, dopo di che usciremo allo scoperto e ravviveremo le vecchie idee di Joranum, che i trantoriani non hanno mai dimenticato. E col tempo, non troppo, diventerò primo ministro.»
«E io?»
«Alla fine diventerai imperatore.»
«Le probabilità che il tuo piano funzioni sono esigue. Questo è stato già predisposto, quello è stato già predisposto. Tutto sembra essere stato predisposto, ma se ogni singola azione non combacia perfettamente con le altre, falliremo. Da qualche parte lungo questa catena, qualcuno commetterà un errore. È un rischio inaccettabile.»
«Inaccettabile per chi? Per te?»
«Certo. Ti aspetti che io mi assicuri che Planchet uccida suo padre e poi ti aspetti che io uccida Planchet. Perché io? Non hai altre persone meno importanti di me la cui vita possa essere messa a repentaglio più facilmente?»
«Sì, ma scegliere un altro renderebbe quasi certo il fallimento. Chi altri, all’infuori di te, attribuisce tanta importanza a questa missione da non correre il rischio di cambiare idea all’ultimo momento?»
«Il rischio è enorme.»
«Ma non ne vale la pena? C’è in gioco il trono imperiale.»
«E tu cosa stai rischiando, capo? Te ne resterai qui, al sicuro, in attesa di ricevere la notizia.»
Le labbra di Namarti si arricciarono in una smorfia di disgusto. «Quanto sei idiota, Andorin! Che squallido imperatore sarai! Credi che non correrò rischi restando qui? Se il nostro piano fallisce, se il complotto viene sventato, se alcuni dei nostri uomini vengono catturati, credi che non riveleranno tutto quello che sanno? Se per qualche motivo tu venissi catturato, pensi di poter resistere al delicato trattamento della guardia imperiale senza parlare di me? E dinanzi a un attentato fallito, immagini che non passeranno al setaccio tutto Trantor per scovarmi? Credi che alla fine non riusciranno a trovarmi? E quando mi avranno trovato, a quale sorte pensi che andrei incontro in mano loro? Io corro un rischio maggiore del tuo, restando qui senza fare nulla. Tutto si riduce a una semplice scelta, Andorin. Vuoi o non vuoi essere imperatore?»
Andorin rispose a bassa voce: «Lo voglio».
E così l’azione ebbe inizio.