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L’università era stata trasformata e Hari Seldon non poteva fare a meno di sentirsi compiaciuto.
Le stanze centrali del complesso di edifici dedicato al progetto avevano all’improvviso dato vita a colori e luci, mentre l’aria era piena di ologrammi che cambiavano continuamente, rappresentando Seldon in vari luoghi e in differenti età. C’era anche Dors Venabili, sorridente e con un aspetto più giovane. C’era Raych da ragazzo, ancora un po’ grossolano. Per un istante si videro Seldon e Amaryl, incredibilmente giovani, piegati sopra i loro computer. Ci fu anche una fuggevole visione di Demerzel, che riempì il cuore di Seldon di rimpianto per il suo vecchio amico e per il senso di sicurezza che provava prima della sua partenza.
L’imperatore Cleon non compariva in alcun ologramma. Questa mancanza non era dovuta al fatto che non esistevano sue immagini, ma non era una buona idea, sotto il governo della Giunta, ricordare alla gente l’impero appena passato.
Gli ologrammi continuavano a sgorgare, debordanti, riempiendo stanza dopo stanza, edificio dopo edificio. In qualche modo era stato trovato il tempo per convertire l’intera università in una mostra che non assomigliava a nulla che Seldon avesse mai visto o immaginato. Anche le luci della cupola erano state oscurate per produrre una notte artificiale sullo sfondo della quale l’università sarebbe rimasta illuminata per tre giorni.
«Tre giorni!» esclamò Seldon a metà fra l’impressionato e l’impaurito.
«Tre giorni» ripeté Dors Venabili annuendo col capo. «L’università non ha voluto saperne di un periodo più breve.»
«Ma i costi! Tutto questo lavoro!» disse Seldon aggrottando la fronte.
«Le spese non sono un problema» disse Dors. «Ciò che hai fatto per l’università vale molto più di quanto potrebbe costare questa piccola dimostrazione. E tutto il lavoro è stato svolto da volontari. Gli studenti si sono fatti avanti e si sono presi cura di ogni cosa.»
Ora comparve una vista aerea dell’università, in panoramica, e Seldon la fissò, mentre un sorriso si faceva strada sul suo volto.
«Sei contento. Quest’ultimo mese non hai fatto altro che lamentarti su come non volevi che si festeggiasse la tua vecchiaia, e ora guardati.»
«Be’, è lusinghiero. Non avevo idea che avrebbero organizzato una cosa di questo genere.»
«Perché no? Sei un simbolo, Hari. Tutto il mondo, tutto l’impero ti conosce.»
«Non è vero» disse Seldon scuotendo vigorosamente il capo. «Nemmeno una persona su un miliardo sa qualcosa di me o della psicostoria. Nessuno al di fuori del progetto ha la più vaga idea di come funzioni la psicostoria, e nemmeno i suoi stessi membri.»
«Questo non importa, Hari. La gente conosce te. Anche i miliardi di esseri umani che non sanno niente di te o del tuo lavoro sanno che sei il più grande matematico dell’impero.»
«Be’,» disse Seldon guardandosi intorno «non c’è dubbio che vogliano darmi questa sensazione. Ma tre giorni e tre notti! Andrà in pezzi tutto.»
«Non è vero, tutti i dati sono stati messi al sicuro. I computer e gli altri strumenti sono stati imballati. Gli studenti hanno istituito un vero e proprio corpo di polizia che impedirà che qualsiasi cosa venga danneggiata.»
«Te ne sei occupata tu, vero, Dors?» domandò Seldon sorridendole teneramente.
«Alcuni di noi, non è tutto merito mio. Il tuo collega Tamwile Elar ha lavorato con incredibile alacrità.»
Seldon fece una smorfia.
«Perché? Cosa c’è che non va in Elar?» chiese Dors.
«Continua a chiamarmi “maestro”.»
Dors scosse il capo. «Ecco un grave crimine.»
Seldon la ignorò e continuò: «E poi è giovane».
«Di male in peggio. Insomma, Hari, dovrai imparare a invecchiare con eleganza e per cominciare dovrai mostrare che ti stai divertendo. Farà piacere agli altri e aumenterà la loro fiducia, senza contare il fatto che anche tu vorrai divertirti. Forza. Vai in giro. Non stare qui nascosto con me. Saluta tutti. Sorridi. Informati sulla loro salute. E ricordati che, dopo il banchetto, dovrai tenere un discorso.»
«Odio i banchetti e odio doppiamente i discorsi.»
«Dovrai farlo comunque. Adesso vai!»
Seldon sospirò con aria melodrammatica ed eseguì quello che gli era stato consigliato. Era una figura piuttosto imponente mentre stava sotto l’arcata che conduceva nel salone principale. Le voluminose toghe da primo ministro degli anni passati avevano fatto ormai il loro tempo, così come i vestiti heliconiani che aveva preferito nella sua giovinezza. Adesso Seldon indossava un completo che si addiceva al suo status elevato: pantaloni lunghi, fittamente pieghettati, e una tunica lavorata. Sopra il cuore, ricamato con filo d’argento, c’era lo stemma con la scritta PROGETTO PSICOSTORIA SELDON DELL’UNIVERSITÀ DI STREELING. Risaltava come un faro sul colore grigio-titanio dei suoi vestiti. Gli occhi di Seldon luccicavano in un volto ora segnato dall’età e i suoi sessant’anni venivano traditi sia dalle rughe sia dai capelli bianchi.
Entrò nella stanza dove i bambini stavano festeggiando. Il locale era stato completamente liberato eccetto qualche tavolino su cui era stato posato del cibo. I bambini gli corsero incontro non appena lo videro – sapevano che era lui il festeggiato – e Seldon cercò di evitare le manine che volevano afferrarlo.
«Aspettate, aspettate, bambini» disse Seldon. «Ora state indietro.»
Tirò fuori da una tasca un piccolo robot computerizzato e lo mise sul pavimento. In un impero senza robot, sapeva che ai bambini quell’oggetto sarebbe apparso una vera e propria meraviglia. Aveva l’aspetto di un piccolo animale peloso, ma anche la capacità di cambiare forma senza preavviso (provocando ogni volta scoppi di risatine) e, quando lo faceva, cambiavano pure i suoni e i movimenti.
«Guardatelo» disse Seldon «e giocateci, e cercate di non romperlo. Più tardi, ce ne sarà uno per ciascuno di voi.»
Scivolò fuori e, mentre sgattaiolava via, si accorse che Wanda lo stava seguendo.
«Nonno» disse la bimba.
Be’, naturalmente per Wanda era diverso. Si chinò verso di lei e la sollevò in alto, la fece girare e la rimise a terra.
«Ti stai divertendo, Wanda?»
«Sì, ma non entrare in quella stanza.»
«Perché no, Wanda? È la mia stanza. È l’ufficio dove lavoro.»
«È dove ho avuto il brutto sogno.»
«Lo so, Wanda, ma è tutto finito, non è vero?» Esitò, poi condusse Wanda a una delle sedie allineate lungo il corridoio. Sedette e se la mise sulle ginocchia.
«Wanda, sei sicura che fosse un sogno?»
«Credo che lo fosse.»
«Eri veramente addormentata?»
«Credo di sì.»
Sembrava a disagio mentre ne parlava e Seldon dovette lasciar perdere. Non c’era motivo per forzarla oltre.
«Be’, sogno o no, c’erano due uomini e parlavano di morte alla limonata, vero?» le chiese Seldon.
Wanda annuì con riluttanza.
«Sei sicura che abbiano detto limonata?»
Wanda annuì ancora.
«Non potrebbero aver detto qualcos’altro e tu hai creduto di sentire limonata?»
«Hanno detto limonata.»
Seldon dovette accontentarsi di questa risposta. «D’accordo, adesso corri a divertirti, Wanda. Dimentica il sogno.»
«Va bene, nonno.» La bambina si rallegrò non appena l’argomento del sogno fu accantonato. Scese dalle sue ginocchia e se ne andò.
Seldon andò a cercare Manella. Ci volle molto tempo per trovarla perché, a ogni passo, veniva fermato, salutato e bloccato con una conversazione.
Finalmente la vide in lontananza. Bofonchiando: «Scusate, scusate, c’è una persona che devo... Scusate» riuscì a farsi strada fino a lei con una certa fatica.
«Manella» chiamò, poi la tirò da parte sorridendo meccanicamente in tutte le direzioni.
«Sì, Hari? Qualcosa non va?»
«È il sogno di Wanda.»
«Non dirmi che ne sta ancora parlando.»
«Be’, senz’altro continua a preoccuparla. Abbiamo della limonata alla festa, non è vero?»
«Certo, i bambini l’adorano. Ho messo quasi trenta diversi boccioli-sapore micogenesi in piccoli bicchieri di forme differenti e i bambini li assaggiano uno dopo l’altro per sentire qual è il più buono. La bevono anche gli adulti, pure io. Perché non l’assaggi, Hari? È ottima.»
«Pensavo che se non fosse stato un sogno, se la bambina avesse sentito parlare davvero di morte alla limonata...» Fece una pausa, come se si vergognasse di continuare.
«Non starai pensando che qualcuno abbia avvelenato la limonata? È ridicolo. Altrimenti ogni bambino qui intorno sarebbe morto o agonizzante.»
«Lo so» borbottò Seldon. «Lo so.»
Cominciò a gironzolare e quasi non vide Dors mentre le passava vicino. Lei lo prese per il gomito.
«Perché quella faccia?» gli chiese. «Sembri preoccupato.»
«Stavo pensando a Wanda, alla sua morte alla limonata.»
«Anch’io, ma finora non sono riuscita a capirci niente.»
«Non posso fare a meno di pensare a un possibile avvelenamento.»
«Non preoccuparti. Ti assicuro che ogni grammo di cibo introdotto a questa festa è stato controllato a livello molecolare. Sono sicura che starai pensando al mio tipico atteggiamento da paranoica, ma il mio dovere è proteggerti ed è quello che farò.»
«E tutto è...»
«Nessun veleno, te lo assicuro.»
Seldon sorrise. «Bene, è un sollievo. Non stavo pensando davvero a...»
«Speriamo di no» troncò bruscamente Dors. «Ciò che mi preoccupa ben più di certe fantasie al veleno è che fra qualche giorno incontrerai quel mostro di Tennar.»
«Non definirlo così, Dors. Stai attenta. Siamo circondati da orecchie e bocche.»
Dors abbassò immediatamente la voce. «Suppongo che tu abbia ragione. Guardati intorno, tanti volti sorridenti e chi sa quali dei nostri “amici” faranno rapporto al capo della Giunta e ai suoi scagnozzi quando la notte sarà finita? Ah, gli esseri umani! Anche dopo tanti millenni, pensare che la propensione al tradimento sia più viva che mai... mi sembra così inutile. Tuttavia so che esiste e conosco i danni che può provocare. Ed è per questo che devo venire con te, Hari.»
«Impossibile, Dors. Servirebbe soltanto a complicarmi le cose. Andrò da solo e non ci saranno problemi.»
«Non sapresti come trattare il generale.»
Seldon parve preoccupato. «Perché tu lo sapresti? Hai appena ammesso di non comprendere la natura umana. Sembra di sentire Elar. Anche lui è convinto che io sia un sempliciotto indifeso. Anche lui vorrebbe venire con me, o addirittura andare al mio posto...» e aggiunse con evidente sarcasmo: «Mi chiedo quante persone su Trantor vorrebbero prendere il mio posto... Decine? Milioni?».