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Capitano e sindaco
Il capitano Han Pritcher, pur non abituato al lusso che lo circondava, non era impressionato. Per principio evitava ogni analisi del proprio animo e di tutti i pensieri filosofici che non erano direttamente connessi con il suo lavoro.
Questo lavoro consisteva essenzialmente in ciò che il ministero della Guerra definisce “servizio segreto”, i salotti mondani “spionaggio” e i romantici “roba da spia”. Ma in realtà non era altro che un’attività sordida fatta di tradimenti e subdoli raggiri. La società era pronta a giustificarla perché si svolgeva nell’interesse dello stato, ma poiché la filosofia pareva condurre il capitano Pritcher ad altre conclusioni, lui scoraggiava ogni suo pensiero filosofico.
Ora, però, comodamente seduto nell’anticamera del sindaco, questi pensieri sembravano tormentarlo, malgrado tutte le sue teorie.
Uomini che gli erano inferiori per intelligenza venivano sempre promossi di grado, e questo riusciva ancora ad accettarlo. Aveva sopportato una serie di rimproveri dei suoi superiori ed era riuscito a sopravvivere. Eppure, testardo, rimaneva fermo nella sua idea che un atto di insubordinazione, compiuto per quello stesso sacro interesse dello stato, avrebbe dovuto essere riconosciuto per il valore del risultato.
Per questo si trovava nell’anticamera del sindaco con cinque guardie che lo tenevano d’occhio, e forse una corte marziale lo stava aspettando.
Le pesanti porte di marmo scivolarono di lato, silenziosamente, aprendosi su un salotto dalle mura tappezzate di seta e con un tappeto di plastica rossa. In fondo alla stanza c’erano altre due porte di marmo rinforzate in metallo. Due ufficiali, che indossavano una divisa elegantissima di tre secoli prima, entrarono in anticamera e gridarono ad alta voce: «Udienza per il capitano Han Pritcher del servizio informazioni».
Fecero un passo indietro inchinandosi rispettosamente e il capitano avanzò. La scorta si arrestò davanti alla seconda porta ed egli entrò da solo.
Al di là della porta, in un enorme salone, stranamente semplice, dietro una colossale scrivania tutta spigoli, sedeva un uomo piccolo, quasi sperduto in quella immensità.
Il sindaco Indbur – il terzo a chiamarsi con quel nome – era nipote del primo Indbur, che era stato un uomo brutale e capace e aveva dato dimostrazione della prima qualità in modo piuttosto spettacolare quando aveva assunto il governo. Più tardi aveva dimostrato la sua abilità nel porre fine alla farsa delle libere elezioni riuscendo a mantenere un certo ordine e una certa pace, e in questo caso la sua abilità era stata ancora più notevole.
Il sindaco Indbur era figlio del secondo Indbur, primo sindaco della Fondazione ad assumere quella carica per diritto ereditario, e possedeva soltanto una delle qualità di suo padre: la brutalità.
Indbur Terzo possedeva caratteristiche tutte personali.
Un geometrico amore per l’ordine significava per lui possedere un sistema; un infaticabile e febbrile interesse per le faccende meno importanti della piccola burocrazia voleva dire essere attivo; l’indecisione, anche quando era nel giusto, equivaleva a oculatezza e la cieca testardaggine nell’errore era una prova di carattere.
Malgrado ciò non sprecava denaro, non uccideva nessuno inutilmente ed era sempre guidato da ottime intenzioni.
Il capitano Pritcher era tormentato da tetri pensieri, ma il suo volto era impassibile e non tradiva alcuna emozione. Rimaneva in attesa rispettosa che il sindaco gli prestasse attenzione. Non tossì, non si dondolò sulle gambe, non si mosse dalla sua posizione finché il viso magro del sindaco non si sollevò dal foglio sul quale prendeva accurate annotazioni. Prese il foglio dalla scrivania e lo depose su una pila ordinata di altri fogli uguali.
Il sindaco Indbur batté le mani di fronte a sé, evitando accuratamente di alterare l’ordinata disposizione degli oggetti sulla scrivania.
«Capitano Pritcher del servizio informazioni» disse il sindaco riconoscendolo.
Il capitano Pritcher, con osservanza scrupolosa del protocollo, si piegò su un ginocchio fin quasi a toccar terra, chinò la testa e non l’alzò fin quando non sentì le parole: «Capitano Pritcher, si alzi!».
Il sindaco gli si rivolse con tono amichevole. «Si trova qui, capitano Pritcher, a causa di certi procedimenti disciplinari presi contro di lei dal suo ufficiale superiore. La pratica concernente il suo caso è arrivata, dopo aver seguito la normale prassi burocratica, fino a me, e poiché nulla accade nella Fondazione senza che io me ne occupi di persona, mi sono preso la briga di chiedere ulteriori informazioni sul suo conto. Non ne sarà sorpreso, spero.»
Il capitano Pritcher rispose con voce priva d’emozioni. «No, eccellenza. La sua giustizia è proverbiale.»
«Davvero?» Aveva un tono compiaciuto e le lenti a contatto colorate riflessero la luce in modo che i suoi occhi sembrarono lampeggiare. Cercò nello schedario con meticolosità e ne tolse un fascicolo che lisciò con dita lunghe e magre.
«Ho qui il suo curriculum completo, capitano. Lei ha quarantatré anni e da diciassette è ufficiale delle forze armate. È nato a Locris, da genitori di Anacreon, non ha avuto serie malattie infantili: un attacco di mio... Cose di poca importanza... Ha studiato all’Accademia delle scienze e ottenuto la laurea in Ingegneria con ottimi voti... molto bene, mi congratulo con lei. È entrato nell’esercito in qualità di ufficiale il centoduesimo giorno dell’anno duecentonovantatré, Era della Fondazione.»
Alzò gli occhi dal primo fascicolo e ne aprì un altro.
«Come vede» continuò «nella mia amministrazione nulla è lasciato al caso. Ordine. Metodo.»
Portò alle labbra una piccola pastiglia aromatica. Questo era l’unico vizio che si concedesse. Il fatto che la scrivania del sindaco mancasse di inceneritore per i mozziconi di sigarette era la prova che non fumava.
Naturalmente, non potevano fumare nemmeno gli ospiti.
Il sindaco lesse il secondo fascicolo con estrema attenzione, borbottando e commentando, sempre a bassa voce, alcuni brani.
«Ebbene, capitano, il suo curriculum è di sicuro insolito. La sua abilità è notevole e i servigi profferti sono senza dubbio importanti. Ho letto che è stato ferito in servizio per ben due volte e che è stato insignito di una medaglia al merito per coraggio e abnegazione superiori al dovuto. Sono fatti questi che non possono essere minimizzati.» Lentamente rimise il fascicolo al suo posto.
Il volto privo d’espressione del capitano Pritcher non s’addolcì. Il protocollo imponeva che il suddito onorato da un’udienza del sindaco non si dovesse sedere: era abbastanza facile ricordarsene visto che nella stanza non esistevano altre sedie all’infuori di quella sulla quale era seduto il sindaco stesso. Il protocollo stabiliva inoltre che la persona ricevuta non doveva parlare se non quando veniva interpellata direttamente.
Il sindaco fissò il capitano negli occhi e la sua voce si fece severa. «Tuttavia da dieci anni a questa parte non ha ottenuto promozioni, e i suoi superiori riferiscono regolarmente che possiede un pessimo carattere. Dicono che è affetto da insubordinazione cronica, che è incapace di assumere un corretto atteggiamento nei confronti dei suoi superiori, che sembra non le interessi affatto stabilire buoni rapporti con i colleghi, insomma che è un inguaribile piantagrane. Come spiega tutto questo, capitano?»
«Faccio quello che credo sia giusto, eccellenza. Cerco di comportarmi secondo il bene dello stato, e le mie ferite dimostrano che ciò che io ritengo giusto è giusto anche per lo stato.»
«Un atteggiamento da soldato, capitano, ma una dottrina pericolosa. Ne discuteremo più tardi. Lei è accusato specificamente di aver rifiutato per ben due volte di eseguire ordini firmati dai miei delegati. Come risponde a questa accusa?»
«La missione che mi era stata affidata, eccellenza, era assolutamente inutile in un periodo critico come questo, quando problemi di fondamentale importanza vengono ignorati.»
«E chi le dice che ciò di cui parla sia di fondamentale importanza e, anche se lo fosse, chi le dice che questo venga ignorato?»
«Certe situazioni mi paiono evidenti, eccellenza. La mia esperienza e la mia conoscenza dei fatti, delle quali nessuno dei miei superiori dubita, mi permettono di giudicare la situazione.»
«Mio caro capitano, non si accorge che, arrogandosi il diritto di determinare la politica del servizio informazioni, usurpa le funzioni dei suoi superiori?»
«Il mio primo dovere, eccellenza, è quello di servire lo stato, non i miei superiori.»
«Sbaglia. I suoi superiori hanno a loro volta altri superiori, e il capo supremo sono io: io sono lo stato. Ma non voglio che abbia modo di lamentarsi della mia proverbiale giustizia. Mi esponga le ragioni che hanno dato luogo a questo procedimento disciplinare contro di lei.»
«Il mio primo dovere, eccellenza, è quello di servire lo stato e non di vivere come un mercante in pensione sul pianeta Kalgan. Mi era stato ordinato di dirigere le attività della Fondazione sul pianeta, creare un’organizzazione che controllasse le azioni del governatore di Kalgan, in particolare la sua politica estera.»
«Conosco tutto questo.»
«I miei rapporti, eccellenza, hanno di continuo fatto presente l’importante posizione strategica del pianeta Kalgan e del sistema che esso controlla. Ho riferito le ambizioni del governatore di Kalgan, delle sue risorse, della determinazione a estendere i suoi domini e dell’importanza della sua amicizia, o meglio, della sua neutralità, nei nostri confronti.»
«Ho letto attentamente i suoi rapporti. Prosegua.»
«Sono tornato due mesi fa, eccellenza. Pochi giorni prima che partissi, non c’erano segni di guerra imminente, né segni d’incapacità da parte del governatore di Kalgan di respingere un qualsiasi attacco. Un mese fa uno sconosciuto soldato di ventura ha conquistato Kalgan senza colpo ferire. L’uomo che un tempo era governatore del pianeta, a quanto pare, è morto. Gli uomini non parlano di tradimento, parlano solo della potenza e della genialità straordinaria del loro condottiero, il cosiddetto Mulo.»
«Chi?» Il sindaco si chinò verso il capitano. Sembrava molto irritato.
«È conosciuto come il Mulo, eccellenza. Le voci che corrono sul suo conto sono poche e per la maggior parte scarsamente attendibili, ma sono riuscito a raccogliere informazioni frammentarie e a farmene una vaga idea. Sembra che si tratti di un uomo di modeste origini. Il padre è sconosciuto, la madre morì dandolo alla luce. È cresciuto come un vagabondo. Si è educato vagando per i mondi, mescolato alla malavita. Non ha altro nome che quello di Mulo, che a quanto pare si è dato da sé, e significativamente: si dice che quel nome sia dovuto alla sua forza fisica e testardaggine.»
«Qual è la sua forza militare? Non mi interessa quella fisica.»
«La gente parla di flotte potenti, eccellenza, ma è probabile che questa diceria si sia diffusa in seguito alla straordinaria facilità con la quale ha conquistato Kalgan. Il territorio sotto il suo controllo non è esteso, anche se non sono riuscito a ottenere informazioni precise a tal riguardo. Non di meno, bisogna svolgere accurate indagini su quest’uomo.»
«Capisco.» Il sindaco s’immerse in profonde riflessioni. Lentamente tracciò sei quadrati disposti a esagono con ventiquattro precisi tratti di penna sul foglio pulito che aveva sulla scrivania. Poi strappò la carta in tre parti e quindi la gettò nella fessura della scrivania alla sua destra. Il disintegratore atomico distrusse la carta con un lieve ronzio.
«Ora mi dica, capitano, dove sta l’alternativa? Ha appena parlato di quello su cui, secondo lei, bisogna indagare. Adesso mi dica quello che le è stato ordinato di investigare.»
«C’è un pianetucolo sperduto nello spazio, eccellenza, che a quanto pare non paga le tasse.»
«E questo sarebbe tutto? Non sa, non le hanno detto chi sono costoro che non pagano le tasse? Sono i discendenti dei selvaggi mercanti di parecchi anni fa: anarchici, ribelli, maniaci sociali che pretendono di essere gli eredi della Fondazione e che deridono la nostra cultura. Lei non sa, non le hanno detto che questo mondo sperduto non è composto da un solo pianeta, ma da molti: il loro numero è più grande di quanto crediamo. Costoro cospirano uniti fra loro e insieme con gli elementi criminali si aggirano tuttora nei territori della Fondazione. Persino qui su Terminus, capitano. Persino qui!» Il sindaco riprese fiato. «Non lo sa, capitano?»
«Mi hanno riferito tutto questo, eccellenza. Ma come suddito dello stato, devo servirlo fedelmente e serve fedelmente colui che serve la verità. Quali che siano le finalità politiche di questi poveri discendenti degli antichi mercanti, gli unici a essere pericolosi sono i governatori che hanno ereditato i rimasugli dell’impero. I mercanti non hanno né armi né risorse, non sono nemmeno uniti. E io non sono un agente delle tasse, per essere mandato a compiere missioni del genere.»
«Capitano Pritcher, lei è un soldato. È stato un errore concederle una libertà tale da permetterle di disobbedirmi. Sia più cauto. La mia giustizia non è debolezza. Capitano, è stato già provato che i generali dell’età imperiale e i governatori dei vari pianeti sono ugualmente impotenti contro di noi. La scienza di Seldon che predice i corsi degli eventi della nostra Fondazione, non è basata sull’eroismo individuale, come lei sembra credere, ma sugli aspetti sociali ed economici della storia. Abbiamo superato con successo ben quattro crisi, non lo sa?»
«È vero, eccellenza. Eppure solo Seldon conosce la sua scienza. Noi abbiamo soltanto una cieca fiducia. Nelle prime tre crisi, come ho studiato accuratamente, la Fondazione fu guidata da leader che previdero la natura delle crisi e presero misure di conseguenza. Altrimenti... chi può dirlo?»
«Sì, capitano, ma si è dimenticato della quarta crisi. Suvvia, capitano, a quel tempo non possedevamo leader degni di quel nome, ciò nonostante siamo riusciti a battere il più intelligente dei nostri nemici, la più forte delle flotte, la più tenace delle armate. Abbiamo vinto per necessità storica.»
«È vero, eccellenza. Ma la necessità storica di cui parla si è manifestata solo dopo che avevamo combattuto disperatamente per più di un anno. L’inevitabile vittoria c’è costata cinquecento astronavi e mezzo milione di uomini. Il Piano Seldon, eccellenza, aiuta coloro che si aiutano da soli.»
Il sindaco Indbur s’accigliò. Era stanco di spiegare tutto pazientemente e pensò che sbagliava nel comportarsi in maniera tanto condiscendente. Il capitano avrebbe potuto credere che gli avrebbe permesso di discutere in eterno; stava diventando presuntuoso e metteva in mostra troppa dialettica.
«Tuttavia Seldon» ribatté secco «garantisce la vittoria contro questi governatori. In momenti così difficili non posso concedermi il lusso di disperdere le mie forze. I mercanti, che lei non considera pericolosi, sono all’interno della Fondazione: una guerra contro di loro sarebbe una guerra civile. Il Piano Seldon non ci offre garanzie in tal senso, perché sia noi sia loro siamo la Fondazione. Per questo devono essere sottomessi. Esegua gli ordini.»
«Eccellenza...»
«Non le ho fatto delle domande, capitano. Lei ha ricevuto degli ordini e obbedirà. Ulteriori discussioni con me o con coloro che mi rappresentano verranno considerate tradimento. Per ora è scusato.»
Il capitano Pritcher piegò nuovamente il ginocchio e uscì a passo lento, indietreggiando.
Il sindaco Indbur, il terzo che portasse quel nome e il secondo sindaco della Fondazione che occupasse la carica per diritto di nascita, ritrovò l’equilibrio perduto e prese un altro foglio dalla pila alla sua sinistra. Era un rapporto sul risparmio causato dalla riduzione del metallo sulle mostrine dei soldati. Il sindaco cancellò una virgola superflua, corresse un errore di ortografia, scrisse tre note marginali e mise il foglio sulla pila alla sua destra. Prese un altro foglio dalla pila a sinistra...
Il capitano Han Pritcher del servizio informazioni trovò una capsula personale per lui non appena tornò in caserma. Conteneva ordini precisi e sottolineati in rosso: la parola “Urgente” era stampata di traverso lungo tutto il foglio. Il messaggio era firmato con una “I” maiuscola.
Al capitano Pritcher veniva ordinato di “andare sul pianeta ribelle di nome Haven”.
Il capitano Pritcher, da solo, con un’astronave veloce, fece rotta, senza comunicarlo a nessuno, per Kalgan. Quella notte dormì il sonno dell’uomo testardo che è convinto di essere nel giusto.