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Billibotton era Billibotton: la sporca, buia, fatiscente Billibotton dai mille vicoli sinuosi, che trasudava decadenza e al tempo stesso era colma di una vitalità che secondo Raych non si poteva trovare in nessun’altra parte di Trantor. Forse in nessun’altra parte dell’impero, anche se Raych non aveva mai conosciuto di persona nessun altro mondo all’infuori di Trantor.
Aveva visto Billibotton per l’ultima volta quando era poco più che dodicenne, ma anche la gente sembrava la stessa di allora; sempre lo stesso miscuglio di avvilimento e furfanteria, gli uomini contraddistinti dai folti baffi scuri e le donne dai vestiti a sacco che ora apparivano tremendamente sciatti agli occhi più vecchi e smaliziati di Raych.
Come facevano delle donne con vestiti simili ad attirare gli uomini? Ma era una domanda stupida. Anche a dodici anni, lui aveva un’idea piuttosto chiara della facilità e della rapidità con la quale potevano essere sfilati.
Continuò a camminare, perso fra pensieri e ricordi, costeggiando lungo una strada una fila di negozi e cercando di convincersi che ricordava quell’angolo particolare o quell’altro, chiedendosi se dietro quelle mura vivevano ancora persone che lui conservava nella memoria e che adesso erano più vecchie di otto anni. Forse i suoi amici d’infanzia erano ancora vivi, ma Raych rifletté a disagio sul fatto che, pur ricordando alcuni dei soprannomi che si erano scelti fantasiosamente, non riusciva a ricordare nessun nome vero.
In realtà, le lacune nella sua memoria erano enormi. Magari otto anni non erano poi tanti, ma costituivano pur sempre due quinti dell’esistenza di un ventenne, e la sua vita dopo aver lasciato Billibotton era cambiata in modo talmente radicale da far sembrare tutto ciò che l’aveva preceduta un sogno sfocato.
Ma gli odori erano sempre quelli. Si fermò davanti a una panetteria sporca e dal tetto basso, annusando l’odore della glassa al cocco che impregnava l’aria e che non aveva mai trovato in nessun altro luogo. Anche quando si era fermato altrove a comprare biscotti con la glassa al cocco, anche quando erano definiti “alla dahlita”, non si era trattato che di povere imitazioni.
Si sentì tremendamente tentato. Be’, perché no? Aveva il denaro, e Dors non era lì ad arricciare il naso facendo commenti sulla eventuale pulizia – o, più probabilmente, sulla mancanza di pulizia – del locale. Chi badava alla pulizia ai vecchi tempi?
L’interno del negozio era in penombra e gli occhi di Raych impiegarono un po’ ad abituarsi. C’erano alcuni tavoli bassi con un paio di sedie piuttosto malconce per ognuno, dove senza dubbio i clienti potevano consumare un pasto leggero, l’equivalente di caffè e panini. A uno dei tavoli sedeva un giovanotto, con una tazza vuota davanti a sé; aveva addosso una maglietta un tempo bianca che probabilmente con un’illuminazione migliore sarebbe apparsa ancora più sporca.
Il panettiere, o in ogni caso un inserviente, uscì da una stanza sul retro e disse con tono alquanto brusco: «Cosa vuole?».
«Un glassococco» rispose Raych sfoggiando lo stesso tono (sarebbe venuto meno alle sue origini di billibottoniano mostrandosi cortese) e usando il termine popolare che ricordava benissimo dai vecchi tempi.
Il termine era ancora in uso, poiché l’inserviente gli allungò il prodotto desiderato usando le dita nude. Il ragazzino Raych avrebbe accettato la cosa come scontata, ma il Raych adulto provò un attimo di esitazione.
«Vuole un sacchetto?»
«No,» ribatté Raych «lo mangio qui.» Prese il dolce dalla mano dell’altro e affondò i denti nella ricca copertura glassata, con gli occhi semichiusi. Durante la sua infanzia era stata una squisitezza rara: solo le poche volte che era riuscito a raggranellare i soldi necessari, o quando ne aveva ricevuto un morso da un amico temporaneamente ricco; il più delle volte quando se ne era impadronito senza che nessuno lo vedesse. Adesso poteva comprarne quanti ne voleva.
«Ehi» disse una voce.
Raych riaprì gli occhi. Era l’uomo al tavolo, che lo fissava accigliato.
Raych ribatté gentilmente: «Parli con me, amico?».
«Già. Che accidenti fai?»
«Mangio un glassococco. Che ti frega?» Aveva assunto automaticamente la parlata di Billibotton. Non gli costava alcuno sforzo.
«Che accidenti ci fai a Billibotton?»
«Sono nato e cresciuto qui. In un letto. Non in una strada, come te.» L’insulto giunse spontaneo, come se Raych non si fosse mai allontanato da casa.
«Ah, sì? Vesti troppo bene per essere dei nostri. Che eleganza. Sei perfino profumato.» E sollevò un mignolo per sottintendere un aspetto effeminato.
«Preferisco non parlare di quanto puzzi tu. Ho fatto strada nel mondo.»
«Hai fatto strada nel mondo? Oh-la-la.» Altri due uomini entrarono nella panetteria. Raych corrugò leggermente la fronte, perché non era certo se fossero stati chiamati in qualche modo oppure no. L’uomo al tavolo disse ai nuovi arrivati: «Questo tipo ha fatto strada nel mondo. Dice di essere nato qui».
Uno dei nuovi venuti accennò un saluto derisorio e sogghignò con aria assai poco cordiale. Aveva i denti macchiati. «Ma che piacere. È sempre bello incontrare uno dei nostri che ha fatto strada nel mondo. Così almeno ha l’occasione di dare una mano ai suoi poveri sfortunati confratelli di settore. Magari un po’ di crediti. Puoi sempre privarti di qualche credito per i poveri, no?»
«Quanto hai in tasca, signorino?» disse l’altro mentre il suo sogghigno svaniva.
«Ehi» intervenne l’uomo dietro il bancone. «Uscite tutti dal mio negozio. Non voglio guai qui dentro.»
«Non ci saranno guai» disse Raych. «Me ne vado.»
Fece per andarsene, ma l’uomo seduto allungò una gamba a sbarrargli il passo. «Non andartene. Sentiremo la tua mancanza.»
(L’uomo dietro il bancone, chiaramente temendo il peggio, scomparve nel retrobottega.)
Raych sorrise. «Una volta, ragazzi, mentre ero ancora a Billibotton, me ne stavo con il mio vecchio e la mia vecchia, e dieci idioti ci hanno bloccati. Dieci. Li ho contati. Abbiamo dovuto liquidarli tutti.»
«Ma davvero?» disse quello che aveva parlato fino a quel momento. «Il tuo vecchio ha liquidato dieci uomini?»
«Il mio vecchio? Naa. Non avrebbe sprecato così il suo tempo. Ci ha pensato la mia vecchia. E io so farlo anche meglio di lei. Voialtri, poi, siete solo in tre. Così, se non vi dispiace, levatevi dai piedi.»
«Sicuro. Basta che ci lasci tutti i tuoi crediti. E anche qualche ricordino dei tuoi vestiti.»
L’uomo al tavolo si alzò in piedi. Aveva in mano un coltello.
«Ecco qua» disse Raych. «Adesso mi farete perdere tempo.» Aveva finito il suo dolce e si girò a metà. Poi, con la rapidità del pensiero, si ancorò al tavolo mentre la sua gamba destra schizzava verso l’alto e la punta della scarpa colpiva in pieno l’inguine dell’uomo con il coltello.
L’uomo piombò a terra con un grido acuto; il tavolo volò in aria, gettando il secondo uomo contro la parete e tenendolo inchiodato là, mentre il braccio destro di Raych guizzava come un lampo e la mano andava a colpire di taglio la laringe del terzo uomo, che tossì e cadde.
Erano passati solo due secondi e ora Raych era l’unico in piedi, con un coltello in ogni mano. «E adesso chi di voi vuole fare una mossa?»
Lo fissarono tutti in cagnesco, ma rimasero raggelati dov’erano e Raych aggiunse: «In questo caso, me ne vado».
Ma l’inserviente doveva aver chiesto aiuto, perché altri tre uomini entrarono nel negozio mentre l’inserviente strillava: «Teppisti! Non sono altro che teppisti!».
I nuovi venuti indossavano una specie di uniforme che tuttavia era del tutto sconosciuta a Raych. Portavano calzoni infilati negli stivali, larghe magliette verdi con una cintura in vita e bizzarri cappelli semisferici dall’aria vagamente comica appollaiati sui cocuzzoli delle teste. Sulla parte anteriore della spalla sinistra di ogni maglietta erano stampate le lettere JG.
Avevano tutti l’aspetto di dahliti, ma non i baffi dei dahliti. I loro erano sì neri e folti, ma al tempo stesso regolati con cura all’altezza del labbro superiore e non troppo rigogliosi. Raych si permise una smorfia di derisione. I suoi baffi incolti possedevano ben altro vigore, ma doveva riconoscere che quelli avevano un aspetto ordinato e pulito.
Il capo dei tre uomini disse: «Sono il caporale Quinber. Cosa sta succedendo qui?».
I tre teppisti si stavano rialzando, ma non erano certo in ottime condizioni. Uno era ancora piegato in due, un altro si massaggiava la gola e il terzo si muoveva come se avesse una spalla slogata.
Il caporale li osservò con calma, mentre i suoi due uomini bloccavano la porta. Si rivolse a Raych, che pareva l’unico dei presenti ancora intatto.
«Sei un abitante di Billibotton, figliolo?»
«Nato e cresciuto qui, ma da otto anni, ormai, vivo altrove.» Raych lasciò sfumare l’accento locale pur conservandolo sul fondo, almeno di quel tanto che riusciva a distinguere nella parlata dello stesso caporale. Billibotton non era l’unica zona di Dahl e in altre parti del settore era presente una maggiore propensione alla gentilezza.
«Siete forse della sicurezza?» domandò Raych. «Non mi pare di ricordare l’uniforme che...»
«Non siamo della sicurezza. A Billibotton non troverai molti agenti. Siamo i guardiani di Joranum e manteniamo l’ordine da queste parti. Conosciamo questi tre, ed erano stati avvertiti. Ce ne occuperemo noi. Il problema sei tu, amico. Nome e numero d’identità.»
Raych glieli riferì.
«E qui cos’è successo?»
Raych glielo raccontò.
«E il motivo della tua presenza qui?»
«Statemi bene a sentire. Avete il diritto di interrogarmi? Se non siete della sicurezza...»
«Ascolta» disse il caporale con voce dura. «Non tirare in ballo i diritti. Siamo l’unica forza che esiste qui a Billibotton e abbiamo il diritto perché ce lo prendiamo. Sostieni di aver pestato questi tre uomini e io ti credo. Ma non riuscirai a pestare anche noi. Non siamo autorizzati a portare fulminatori, però...» e mentre parlava senza alcuna fretta ne mostrò uno.
«Adesso dimmi perché ti trovi qui.»
Raych sospirò. Se fosse andato subito alla Sala del Consiglio, come avrebbe dovuto fare... se non si fosse fermato per annegarsi nella nostalgia di Billibotton e dei glassococchi...
«Sono venuto qui per vedere il signor Joranum a proposito di una questione importante e visto che sembrate far parte della sua organi...»
«Per vedere il capo?»
«Sì, caporale.»
«Con due coltelli addosso?»
«Per autodifesa. Non prevedevo di tenerli con me quando avrei visto il signor Joranum.»
«Questo lo dici tu. Ti arrestiamo, amico. Arriveremo in fondo a questa storia. Può volerci del tempo, ma ci riusciremo.»
«Ma non ne avete il diritto. Non siete agenti che possono legalmente...»
«Be’, trova qualcuno con cui lamentarti. Fino a quel momento, sei nostro.»
E Raych fu privato dei suoi coltelli e arrestato.