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Lo spazioporto non era grande, almeno secondo il metro della Fondazione, ma aveva l’aria efficiente. Trevize guardò la Stella lontana ormeggiata al suo posto e chiusa ermeticamente. Fu data loro una complicata contromarca in codice.

Pelorat disse a bassa voce: «La lasciamo qui così?».

Trevize annuì e posò una mano sulla spalla dell’altro, per rassicurarlo. «Non si preoccupi» disse, anche lui a bassa voce.

Salirono sulla terramobile che avevano noleggiato e Trevize attivò la mappa elettronica della città, le cui torri erano visibili all’orizzonte.

«Sayshell City,» disse «la capitale del pianeta. Città, pianeta e stella si chiamano tutti Sayshell.»

«Sono preoccupato per l’astronave» insistette Pelorat.

«Non c’è motivo di preoccuparsi. Torniamo stasera, perché ci conviene dormire sull’astronave, se restiamo più di qualche ora. Deve anche capire, Janov, che esiste un codice etico interstellare negli spazioporti, un codice che, almeno a quanto ne so, non è mai stato violato, nemmeno in tempo di guerra. Le astronavi che vengono in pace non vengono toccate. Se così non fosse, nessuno sarebbe mai al sicuro e il commercio sarebbe impossibile. Il mondo in cui tale codice fosse violato verrebbe boicottato dai piloti spaziali della galassia. Le assicuro che nessun pianeta sarà mai disposto a correre un simile rischio. Inoltre...»

«Inoltre?»

«Inoltre ho sistemato le cose col computer in modo che chiunque non abbia il nostro aspetto e la nostra voce venga ucciso, se tenta di salire a bordo. Mi sono preso la libertà di spiegare la faccenda al comandante dello spazioporto. Gli ho detto molto gentilmente che avrei tanto voluto disinserire quel meccanismo di sicurezza dato che è noto in tutta la galassia come lo spazioporto di Sayshell City offra una garanzia assoluta contro il pericolo di furto, ma che non potevo farlo in quanto l’astronave è un modello nuovo e non so come disattivarlo.»

«Di sicuro non ci avrà creduto.»

«No, naturalmente, ma ha dovuto far finta di crederci, perché in caso contrario sapeva che avrei potuto insultarlo. E poiché ai miei insulti non avrebbe potuto opporre alcuna ragione valida, avrebbe dovuto incassare l’umiliazione. E dal momento che non aveva alcuna intenzione di venire umiliato, non ha potuto fare a meno di fingere di credermi.»

«È un altro esempio di com’è la gente?»

«Sì. Ci si abituerà.»

«Come fa a sapere che non ci sono microspie in questa macchina?»

«Ho pensato che ce ne potesse essere una a bordo. Così quando mi hanno offerto una vettura ne ho preso un’altra a caso. Se poi le microspie ci sono su tutte, be’, che cosa abbiamo detto in fondo di così terribile?»

Pelorat aveva un’aria afflitta. «Non so come dirlo, Golan, mi sembra scortese protestare, ma... Non mi piace questo odore che si sente...»

«Qui in macchina?»

«Be’, l’ho sentito innanzitutto nello spazioporto. Immagino che tutti puzzino così, ma l’odore continua a sentirsi anche qui in macchina. Non possiamo magari aprire i finestrini?»

Trevize rise. «Immagino di poter trovare sul quadro comandi il bottone per aprire i finestrini, ma anche se lo facessimo non servirebbe a niente. È il pianeta che puzza. Non è però una cosa tanto grave, le pare?»

«Be’, l’odore non è molto forte, ma si sente ed è piuttosto disgustoso. Puzza così tutto quanto il pianeta?»

«Continuo a dimenticarmi che lei non è mai stato su un pianeta straniero prima d’ora. Tutti i mondi abitati hanno il loro odore caratteristico, dato per lo più dalla vegetazione, ma anche, immagino, dagli animali e dagli esseri umani. Per quanto ne so, a nessuno piace mai l’odore di un certo pianeta, la prima volta che ci atterra. Ma ci si abituerà, Janov. Fra qualche ora le assicuro che non ci baderà più.»

«Non vorrà dire che tutti i pianeti puzzano così?»

«No. Come le ho detto, ciascun mondo ha il suo puzzo, o profumo. Se prestassimo più attenzione a questi aspetti, o se il nostro odorato fosse più fino, tipo quello dei cani di Anacreon, probabilmente riusciremmo a distinguere i pianeti in base al loro odore. Nei primi tempi in cui ero in Marina non mangiavo mai il primo giorno che mi trovavo su un nuovo pianeta; poi imparai il trucco dei vecchi spaziali, i quali durante l’atterraggio annusano un fazzoletto impregnato dell’odore del pianeta, in modo che quando si trovano su di esso sono già abituati e non lo giudicano puzzolente. A ogni modo dopo un po’ di tempo si finisce per fare il callo a tutta la faccenda: si impara semplicemente a non badarci. Il peggio, anzi, diventa tornare a casa.»

«Perché?»

«Pensa che Terminus non puzzi?»

«Sta per caso dicendomi che puzza?»

«Esattamente. Una volta che uno si abitua all’odore di un altro mondo, come per esempio Sayshell, non ha idea di quanto possa giudicare fetido Terminus. Ai vecchi tempi, ogni volta che i portelli si aprivano su Terminus, dopo un periodo piuttosto lungo di soggiorno altrove, l’equipaggio gridava: “Eccoci tornati a casa, nella merda”.»

Pelorat aveva un’aria nauseata. Le torri della città adesso erano nettamente più vicine, ma lui continuava a tenere gli occhi fissi sull’ambiente intorno a loro. C’erano altre terramobili che viaggiavano in tutt’e due le direzioni e ogni tanto, in alto, passava anche qualche aeromacchina. Pelorat però studiava gli alberi.

«Le piante mi sembrano strane. Pensa che ce ne siano di native del pianeta?»

«Ne dubito» disse Trevize, distratto. Stava studiando la mappa e cercando di regolare il programma computer della terramobile. «Non c’è molta vita indigena sui pianeti abitati dall’uomo. I colonizzatori hanno sempre importato piante e animali dal pianeta d’origine o all’epoca stessa della colonizzazione, o non molto tempo dopo.»

«Mi sembra strano, però.»

«Non deve pensare che ci siano gli stessi esatti esemplari sui vari mondi, Janov. Mi è stato detto una volta che, quando gli esperti dell’Enciclopedia galattica hanno compilato un atlante delle diverse specie vegetali, hanno messo insieme ottantasette grossi dischi di computer senza riuscire a esaurire l’argomento, o in ogni caso a garantirne la completezza.»

Il veicolo continuò a procedere e ben presto fu inghiottito dalla periferia della città. Pelorat provò un lieve brivido e disse: «Non mi piace un granché la loro architettura».

«A ciascuno la sua» disse Trevize con l’indifferenza del viaggiatore esperto.

«A proposito, dove siamo diretti?»

«Sto tentando di indurre il computer a guidare questo aggeggio fino all’ufficio turistico» disse Trevize, alquanto irritato. «Spero che il computer conosca i sensi unici e le regole del traffico, perché io non li conosco proprio.»

«E là cosa facciamo, Golan?»

«Innanzitutto, dato che siamo qui come turisti, quello è il posto dove è più logico andare se non vogliamo dare nell’occhio. In secondo luogo, dove andrebbe lei a cercare informazioni su Gaia?»

«In una università, oppure presso un istituto di antropologia, o in un museo. Non certo in un ufficio turistico.»

«Be’, si sbaglia. Lì noi saremo i tipici intellettuali ansiosi di vedere un elenco delle università, dei musei e degli altri istituti culturali della città. Poi decideremo da quale posto cominciare e là potremo trovare gente esperta di storia antica, galattologia, mitologia, antropologia, che ci potrà aiutare. Ma tutta la faccenda deve cominciare all’ufficio turistico.»

Pelorat rimase in silenzio, mentre la terramobile avanzava in mezzo al traffico intenso. Svoltarono per una strada secondaria, oltrepassando cartelli che probabilmente indicavano direzioni e stabilivano regole di traffico, ma che essendo scritti in caratteri particolari erano praticamente illeggibili.

Per fortuna il veicolo procedeva come se conoscesse la strada e, quando si fermò, entrando in un parcheggio, lo fece davanti a un cartello che diceva, con i soliti caratteri: UFFICIO STRANIERI DI SAYSHELL. Sotto la scritta ce n’era un’altra perfettamente leggibile, che con i caratteri del galattico standard annunciava: UFFICIO TURISTICO DI SAYSHELL.

Entrarono nel palazzo, che non era così vasto come la facciata lasciava supporre. Dentro non fervevano particolari attività.

C’erano varie cabine di attesa, una delle quali era occupata da un uomo che leggeva le strisce-notiziario che spuntavano da un piccolo eiettore. In un’altra cabina due donne erano concentrate su un gioco complicato per il quale venivano usate carte e gettoni di varia misura. Dietro un bancone troppo grande per lui, dove brillavano comandi di computer che parevano troppo complicati per lui, c’era un funzionario sayshelliano dall’aria annoiata. Indossava un vestito che sembrava una scacchiera multicolore.

Pelorat lo fissò e sussurrò: «È certo un mondo dove l’abbigliamento è vistoso».

«Sì, l’ho notato. Ma la moda cambia da mondo a mondo e, a volte, passando da una regione all’altra, è diversa persino sullo stesso pianeta. E cambia secondo le epoche. Cinquant’anni fa su Sayshell avrebbero potuto anche vestirsi tutti di nero, per quel che ne sappiamo noi. Non si stupisca troppo, Janov.»

«Dovrò abituarmi, certo, ma in ogni caso preferisco la moda di Terminus. Se non altro, non costituisce un attacco al nervo ottico.»

«Perché tanti di noi si vestono di grigio? Alcuni criticano la cosa e lo definiscono un “vestire sporco”. D’altra parte, è forse proprio la mancanza di colori che caratterizza la moda della Fondazione a indurre gli abitanti di Sayshell a vestirsi di abiti multicolori. Così hanno l’impressione di affermare maggiormente la loro indipendenza. È tutta una questione di abitudine, a ogni modo. Su Janov, andiamo.»

I due si diressero verso il bancone e nel mentre l’uomo dentro la cabina lasciò perdere il notiziario, si alzò e andò loro incontro sorridendo. I suoi vestiti avevano una tonalità grigia.

In un primo tempo Trevize non guardò nella sua direzione, ma quando lo fece si immobilizzò di colpo.

«Per la galassia!» esclamò, traendo un respiro profondo. «Il mio amico, il traditore!»

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