Monocolo d’oro

Hermann Felsner (1889-1977)

Allenatore dal 1920 al 1931 e dal 1938 al 1942; direttore tecnico nel 1947-48

Un infortunio gli aveva spezzato la carriera agonistica al Wiener Sportklub. Ma Hermann Felsner non sarebbe comunque mai diventato un grande calciatore. Gli indizi della sua futura carriera portavano altrove: alla laurea in giurisprudenza, ai corsi frequentati in Inghilterra per aggiornarsi sulle ultime tendenze del calcio, all’attività di istruttore sportivo nel morente impero austroungarico. A soli trentuno anni il viennese Felsner sembrava già un giovane vecchio, un po’ per quell’aura di maturità dovuta a un carattere oltremisura sicuro di sé, un po’ per il suo modo di vestire austero, con l’orologio da tasca, la sigaretta fumata con il bocchino e gli occhiali a monocolo. Fu questa l’impressione che diede ad Arrigo Gradi, l’ex capitano del Bologna divenuto poi consigliere della società, durante il colloquio preliminare sui dettagli dell’offerta rossoblù. Era il 1920: Italia e Austria erano appena uscite dalla guerra; il calcio italiano si stava rialzando velocemente guardando ai modelli danubiani e inglesi, due scuole di cui Felsner era profondo conoscitore. Al Bologna serviva una guida autorevole, dopo anni di autogestione e incertezze. Se si voleva competere con le grandi squadre dell’epoca, a cominciare dal temibile Genoa dell’inglese William Garbutt, occorreva dotarsi di un vero trainer. Possibilmente straniero. La trattativa con Felsner era nata a distanza. Il presidente Cesare Medica aveva fatto pubblicare su un quotidiano economico ceco di lingua tedesca la manifestazione d’interesse per un posto da allenatore. Felsner fu tra i primi a rispondere. All’incontro preliminare si decise di inviare a Vienna Arrigo Gradi, che oltre a conoscere il tedesco per i suoi trascorsi da collegiale in Svizzera, sapeva bene come condurre una trattativa. A conti fatti, però, la spuntò Felsner, che oltre a farsi assumere con effetto immediato, strappò uno stipendio faraonico, 6.927 lire a trimestre. Il suo sbarco a Bologna sembrò quello di un marziano: per un fraintendimento sugli orari, nessuno della società lo andò a prendere in stazione. Felsner s’incamminò da solo per via Indipendenza e raggiunse il bar di via Ugo Bassi dove abitualmente si davano appuntamento i vertici del club. Cominciò così la sua prima avventura rossoblù, undici anni ininterrotti con due scudetti in bacheca. Il metodo dell’austriaco era a dir poco innovativo: per la prima volta in vita loro, i calciatori del Bologna conobbero gli allenamenti sui fondamentali (la palla contro il muro, il dai-e-vai, i palleggi per esercitare la sensibilità del piede) e intense sedute di corsa. Da istruttore di educazione fisica, Felsner capiva l’importanza della preparazione atletica e istituì una figura sconosciuta fino ad allora: quella del massaggiatore. La società fu abbastanza lungimirante da assecondare le sue richieste e i giocatori sufficientemente disponibili a trasformarsi a poco a poco in atleti professionisti nonostante molti di loro avessero già un lavoro principale. La preoccupazione principale di Felsner, infatti, fu quella di rendere il calcio il lavoro di tutti, con gli obblighi e le responsabilità che questo comportava. Ad Angelo Schiavio chiese insistentemente di sottoscrivere un contratto, non per altruismo, ma per avere la certezza di vederlo ai campi di allenamento. Su questo punto, però, Felsner non riuscì mai a far breccia sul goleador rossoblù, uno dei pochi a permettersi il lusso di allenarsi solo una volta alla settimana, anteponendo al calcio il lavoro in bottega. L’effetto Felsner si fece sentire già sul primo campionato, che al Bologna diede diritto di disputare la finale di Lega Nord contro la corazzata Pro Vercelli, persa poi dopo infiniti tempi supplementari e un episodio dubbio sul golden gol decisivo. Si capì subito che l’aria era cambiata, come le ambizioni. Fu Felsner a volere e ottenere che il Bologna cominciasse a giocare regolarmente amichevoli internazionali, non solo per accrescere il prestigio della squadra, ma anche per misurarne il valore in rapporto agli sviluppi calcistici europei. Il 27 marzo 1921 l’allenatore austriaco si fece mediatore e garante per l’arrivo a Bologna del Rapid Vienna, uno dei primi incontri sportivi tra squadre di paesi che avevano combattuto la guerra fino a 15 mesi prima. Fu un successo diplomatico e sportivo. Gli austriaci entrarono a Bologna camminando su una via Indipendenza pavesata di striscioni, vincendo poi 4-1 l’amichevole. Ma il risultato contava poco, rispetto all’inedita esperienza umana e sportiva maturata in quei giorni dai giocatori rossoblù. Felsner sfruttò il precedente per compiere anche il percorso inverso: inserire il Bologna in un quadro di tournées internazionali, da intendersi anche come vacanze-studio, una sorta di Erasmus ante litteram, applicato alla scienza del pallone. Della selezione dei calciatori si occupava personalmente. Come un moderno allenatore-manager, era lui a convincere i giocatori a sposare il progetto rossoblù, operazione semplice quando si trattava di grandi campioni affermati, ben più complessa, paradossalmente, quando c’era da smuovere la volontà di genitori o datori di lavoro poco inclini ad affrancare il garzone di turno (si veda il caso di Bruno Maini). Con Carlo Reguzzoni, in procinto di firmare con il Milan, Felsner non esitò a salire sul primo treno per Milano, intercettando il suo obiettivo sui binari. Questo era il carattere di un uomo che non ammetteva varianti sulla tabella di marcia, ma che ricorreva, quando necessario, anche a piccole astuzie, come quando nell’agosto del 1925 si fece aprire in gran segreto il campo milanese dove si sarebbe giocata la sfida decisiva della Lega Nord contro il Genoa per misurare in anticipo tutti i dettagli utili, dagli spogliatoi alle porte, dalle caratteristiche del terreno al tipo di palloni impiegati (all’epoca si disse che fu proprio lui a fornirli al custode del campo). Per i giocatori, il primo scudetto del 1924-25 fu la ricompensa ai quattro anni di tirocinio con il nuovo allenatore, un apprendistato decisivo anche per tutto l’ambiente cittadino, che s’abituò a familiarizzare con l’immagine di una squadra vincente, ben lontana dal dilettantismo, spesso orgogliosamente rivendicato, dei primordi. Il Bologna “politico” degli anni Venti, quello attentamente sorvegliato dal futuro podestà e capo del calcio italiano Leandro Arpinati, era la squadra ben organizzata e dalla tempra di ferro forgiata da Felsner con l’aiuto dell’infaticabile Enrico Sabattini, una figura di direttore generale-factotum che aiutò il disbrigo di infinite faccende pratiche, compresa la prestigiosa tournée del 1929 in Sudamerica, che vide il Bologna impegnato in Brasile, Argentina e Uruguay per quasi due mesi subito dopo aver vinto il secondo titolo nel campionato 1928-29. Il matrimonio tra Felsner e il Bologna attraversò l’intera decade degli anni Venti sotto l’egida di sette diversi presidenti, nessuno dei quali osò mettere in discussione il mago del calcio danubiano. Il 1931 portò venti di novità. Il 12 gennaio di quell’anno, a sorpresa, Hermann Felsner comunicò la sua intenzione di rescindere il contratto, certo di non incontrare ostacoli dopo così lunga militanza. Ad attenderlo c’era la Fiorentina, impegnata in una faticosa risalita dalla serie B. Di quell’esperienza in viola, Felsner non parlò mai volentieri. La fece terminare precocemente una lite con l’asso uruguaiano Petrone, lo stesso che aveva suggerito l’acquisto del connazionale Raffaele Sansone, poi girato al Bologna ancor prima di sbarcare a Firenze. Sansone sarebbe stato un perno fondamentale del centrocampo degli anni Trenta, da considerare quasi come un regalo postumo di Hermann Felsner alla sua ex squadra. Quando le leggi razziali del settembre 1938 misero fuori gioco Árpád Weisz, consegnandolo sei anno dopo a un atroce destino nel campo di concentramento di Auschwitz, Renato Dall’Ara non ebbe un attimo di esitazione a richiamare il grande artefice dei successi della decade precedente. A leggere la notizia del clamoroso avvicendamento sui giornali dell’epoca si rimane sconcertati per la leggerezza dei toni, quasi da rotocalco scandalistico: «Il bollettino degli allenatori», scrisse «Il Calcio Illustrato» del 19 ottobre 1938, «registra la scorsa settimana ben due esoneri. Il più importante è quello di Felsner che lascia il Milan anche perché soverchiamente preoccupato dai suoi affari privati in quel di Vienna. Ora l’occhialuto dottore è stato visto a Bologna, e sembra che sostituirà Veisz [sic], il quale dovrebbe tra qualche mese lasciare l’Italia in seguito alle leggi razziali». L’indiscrezione, anche nei suoi risvolti più drammatici, era vera. Mentre il 27 ottobre il grande allenatore ungherese usciva di scena, avviando il suo lungo peregrinare per l’Europa con la moglie Elena e i figli Roberto e Clara, Dall’Ara si mise subito a cercare il sostituto. Ricevuto il no della Federazione per Gastone Baldi, che era ancora privo di patentino pur allenando già le giovanili, la candidatura più ovvia sembrò proprio quella di Felsner, che s’era appena lasciato (male) con il Milan. A differenza del 1920, al suo arrivo trovò già tutto apparecchiato per il successo: il triangolo di oriundi Andreolo-Sansone-Fedullo, le ali Reguzzoni-Biavati, l’implacabile centravanti Puricelli, l’affidabile portiere Ceresoli. Con questi uomini, fu facile avviare una rimonta sulla rivelazione Liguria e seminare il vuoto nel girone di ritorno. Vincendo sul campo della Roma, il Bologna si laureò campione d’Italia per la quinta volta con due turni d’anticipo. La firma sullo scudetto era di Felsner, ma il peso dell’ingiustizia inflitta a Weisz schiaccerà sempre il ricordo di quel trionfo, cui seguì quello del 1940-41, l’ultimo sigillo dell’austriaco, che tornerà in patria al termine del campionato 1941-42 con un totale di quattro scudetti in bacheca. Non avrà fortuna, invece, il suo fugace ritorno nel 1947-48 in veste di direttore tecnico, con Gyula Lelovics alla guida di una squadra che non arriverà oltre il settimo posto. Ma di Felsner va ricordata soprattutto l’immaginario evocato dai suoi uomini: «Vi sono delle squadre», scrisse Mario Zappa su «La Domenica Sportiva» nel 1934, «che nascono con il loro crisma in fronte. Il Bologna per esempio è la squadra d’attacco per eccellenza. Come tale si è rivelato al suo esordio nel gran mondo calcistico e come tale è sempre stata considerata. Per quanto sia mutato d’anno in anno il suo stile di attacco, l’essenza della squadra è stata pur sempre nel suo spirito offensivo, inalterabile attraverso i trapassi di uomini e le vicende delle gare. In qualsiasi evento (anche quelli sfortunati) il Bologna di un tempo aveva sempre la superiorità per numero e arte di attacchi e Baldi era la reale personificazione di questa tipica squadra d’assalto, quel Baldi che dava il tono a tutta la squadra e che d’ogni pallone faceva un boomerang lanciato per via tortuosa ma esatta verso la rete avversaria. Il gioco dei rosso-blu ha avuto dapprima il culto della manovra a otto giocatori, tipo viennese, e in proposito ha dato lezioni ed ha aperto gli occhi a moltissimi squadroni italiani. Il gioco era così bello e produttivo che si poteva fare anche a meno di una solida difesa». Questo era il Bologna nella sua versione più vicina alla perfezione di ogni tempo.