L’incompreso
Giuseppe Gazzoni Frascara (1935-2020)
Presidente e proprietario dal 1993 al 2005
Nelle aule di un tribunale fallimentare ha salvato il Bologna dall’irrilevanza sportiva e meno di sei anni dopo, nel 1999, lo ha portato a un passo dalla vittoria della Coppa Uefa. Ha vestito di rossoblù tre vicecampioni del mondo come Roberto Baggio, Giuseppe Signori e Gianluca Pagliuca. Senza contare tutti gli altri, da Kennet Andersson a Julio Ricardo Cruz. Eppure persino a un presidente che somigliava a un filantropo, il tifo organizzato riuscì a riservare agguati, contestazioni, volgari imprecazioni, scritte sui muri, persino un lancio di frutta in un memorabile quanto vergognoso blitz al Ristorante Diana. Tutto ricomposto, con l’amnistia che il tempo assicura anche ai gesti più meschini. Uno striscione di scuse apparso in curva quando Gazzoni tornò per la prima volta al Dall’Ara al fianco di Joe Tacopina, nel 2014, dieci anni dopo l’ultima volta, mise una pietra sopra quegli insulti. Gazzoni accettò il pentimento, ma chi lo conosceva sapeva bene che la ferita era rimasta aperta. E sanguinava ancora. Dietro il movimento impercettibile delle sue labbra, che muoveva appena celando discretamente ogni emozione, dietro l’apparente distacco delle parole, c’era un’antica nobiltà che si sentiva tradita. Gazzoni, del resto, apparteneva all’ultima generazione calcistica dei presidenti-padroni, aristocratico di modi e di amicizie: gli anni della gioventù li aveva passati con la famiglia Agnelli, amici di famiglia e poi colleghi nel calcio. Ma a differenza dei capitani d’industria della sua epoca, lui aveva rilevato il Bologna per senso civico, e c’era da credergli, perché in quell’avventura era riuscito a coinvolgere sotto un unico cartello mondi finanziari assai lontani, ovvero l’imprenditoria locale e le cooperative rosse, prima di restare solo al comando. «Lo feci perché il Bologna in serie C condizionava l’umore di tutta la città», spiegò una volta. Il suo civismo, come a voler completare l’opera iniziata con il calcio, si spinse anche in politica, azzardando una candidatura a sindaco contro Walter Vitali e Filippo Berselli. Ma quel centrismo educato, stretto tra le sinistre e le destre post-ideologiche, era troppo di buone maniere per piantare radici nell’elettorato. Non ha potuto rivedere il Bologna in Europa, là dove lo aveva condotto, sfiorando pure la finale di Coppa Uefa, apice della sua parabola da proprietario del Bologna dal 1993 al 2005. Nipote d’arte, perché suo nonno Arturo, del 1859, figlio di una guardia pontificia, aveva guidato i rossoblù durante l’interruzione dei campionati causata dalla Grande Guerra. Gazzoni ricalcò quei passi smarcandosi dalla diceria che dipinge l’industria bolognese prudente e chiusa in sé stessa. Ricordando quegli anni ruggenti disse: «Ho perso tutto ma ora sono più sereno». Non era una bugia.