Il galantuomo

Franco Janich (1937-2019)

Al Bologna dal 1961 al 1972; 376 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 27-8-1961, Bologna-Palermo 1-0

Quando Franco Janich fu proposto alla Lazio, il presidente Costantino Tessarolo, scosse la testa: «Costa troppo poco per essere buono». Due anni dopo, ormai consacrato tra i migliori giovani di fine anni Cinquanta nelle file dell’Atalanta, fu finalmente comprato dai biancocelesti grazie all’intercessione di Fulvio Bernardini. Ma il prezzo, intanto, era salito a 47 milioni, un’enormità per il tempo. «Per me», confesserà Janich, «Tessarolo non ebbe mai un occhio di riguardo, forse perché ero costato troppo: infatti ero l’unico a cui non dava la mano, forse perché temeva gli portassi via altri soldi». Nell’estate 1961 fu proprio Fulvio Bernardini a ripetere l’operazione di convincimento su un altro presidente: stavolta toccò a Renato Dall’Ara cedere alle insistenze. Per il tecnico romano, che nel frattempo s’era trasferito a Bologna, il libero Franco Janich era il perno su cui costruire la squadra. Sapeva infatti che oltre all’affidabilità sul campo, quel ragazzo friulano dai modi eleganti e dalla battuta pronta sarebbe stato un perfetto collante nello spogliatoio rossoblù. Quasi si faticava a ricondurlo allo stereotipo del calciatore, per il suo humour innato, che Janich declinava anche sul suo record più curioso, non aver mai segnato: «Non fare mai gol? Vuol dire essere coerenti», replicava. «Se fai un gol esulti una volta e poi non te lo chiede più nessuno. E invece io sono stato ricordato per questo primato». Ne aveva un altro, che rifletteva la sua proverbiale correttezza: in 425 partite ufficiali in serie A, di cui 294 in rossoblù, non fu mai espulso, straordinario per un giocatore di movimento che tatticamente fungeva da ultimo baluardo a difesa della squadra. E dire che con la maglia della Lazio s’era ritrovato a marcare il grande Kurt Hamrin nella finale di Coppa Italia, il primo trofeo vinto nella storia biancoceleste. Retrocesso in B, e troppo forte per restare tra i cadetti, fu ceduto al Bologna dove non per caso ritrovò Fulvio Bernardini. Se William Negri diventò l’imprescindibile saracinesca, Janich fu la pietra filosofale di quel gruppo, un impareggiabile istrione, un battutista nato. Sotto la sua lente, chiunque si ritrovava incollato un soprannome fatto su misura: Bulgarelli era la “furmiga”, per il suo modo pacioso di raccogliere qualsiasi cosa; Pascutti “al zuppatt” per gli acciacchi continui di cui si lamentava; Perani “felce azzurra”, perché a fine partita profumava come all’inizio. Con Perani, Fogli, Bulgarelli e Pascutti formò il quintetto rossoblù convocato ai famigerati Mondiali d’Inghilterra del 1966. Per sua sfortuna, il dirimpettaio di Pak Doo-ik era proprio lui. E pagò la débâcle coreana con l’esilio perpetuo dalla Nazionale. Ma il calcio, nonostante la delusione, gli rimase addosso come una malattia. Chiuse con il Bologna nel 1972 (nel palmares anche una Coppa Italia e una Coppa Mitropa) e intraprese subito la carriera di dirigente, “comprando” per il Napoli di Corrado Ferlaino nientemeno che Beppe Savoldi. Da direttore tecnico per sole cinque giornate fu costretto a mettere la firma, suo malgrado, alla seconda retrocessione in C del Bologna nel 1993. Ma ai raduni delle vecchie glorie si faceva sempre vedere, sorridente, elegante, arguto. All’ultima mostra sui 110 anni del club, spiccava la sua maglia numero 6, strappata in più punti. Simbolo di un tempo che non tornerà più.