Guarda come dondolo
Harald Nielsen (1941-2015)
Al Bologna dal 1961 al 1967; 182 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 27-8-1961, Bologna-Palermo 1-0
Nel 1958 arrivò sulla scrivania di Dall’Ara la prima segnalazione di Axel Pilmark, l’ex mediano rossoblù eletto a vedetta dell’area nordica: su un foglietto c’era il nome di Harald Nielsen, diciassette anni danese, sicura promessa. Ma ci vollero altri due anni per convincere il presidente a rischiare. L’occasione arrivò con le Olimpiadi di Roma del 1960. I sette gol segnati dal (non ancora) diciannovenne Harald fecero tornare in mente a Dall’Ara la lungimiranza di quel consiglio. E prima che diventasse troppo tardi, si decise a comprarlo per una manciata di corone danesi. Nel 1961 Nielsen sbarcò quindi a Bologna da perfetto sconosciuto, e nel farlo abbandonò il suo status di calciatore non professionista al Frederikshavn, la squadra della sua città natale. Per le regole dal calcio danese di allora, espatriare equivaleva a dire addio alla Nazionale. Il primo contatto con il calcio italiano però non fu un’esperienza esaltante: il ragazzone danese non ne voleva sapere di parlare italiano, faticava a trovarsi coi compagni e dal punto di vista tecnico mostrava ancora evidenti limiti nel palleggio. Che cosa ci aveva visto Pilmark e che cosa aveva convinto Aldo Campatelli a sostenere quella candidatura? Nel calcio di oggi uno come Nielsen sarebbe bocciato dopo il primo semestre. Ma Fulvio Bernardini, anche lui appena sbarcato a Bologna, era un allenatore che sapeva mettere gli uomini davanti agli schemi. Era così che nel 1956 aveva costruito le basi del primo storico scudetto della Fiorentina. Dopo aver preferito l’esperto Luis Vinicio, fornì un’opportunità anche al nuovo arrivato. Come se fino a quel momento Nielsen avesse forzatamente recitato la parte del disadattato, all’improvviso esplose letteralmente tra le mani di Bernardini. Otto gol nelle prime sedici partite del 1961-62. Poi 19 l’anno successivo (con annesso titolo di capocannoniere condiviso con il romanista Manfredini), addirittura 21 nell’anno dello scudetto (più il gol nello spareggio con l’Inter). Per il ciondolante Harald, che per la sua andatura sbilenca era stato soprannominato “Dondolo”, era diventato quasi più facile segnare che fallire. Quando partiva, non aveva nemmeno bisogno di dribblare gli avversari (specialità in cui non eccelleva). Semplicemente se li lasciava indietro. E anche l’italiano, a forza di gol, cominciò a prender forma sulla sua bocca e su quella della moglie Rudi. Uno che invece non volle capire mai la sua lingua, a parte quella del campo, fu Helmut Haller. Se è vero che in ogni grande gruppo esiste sempre una crepa, o un nodo irrisolto, così anche nel Bologna di Bernardini i due stranieri non avevano mai trovato un motivo per fare amicizia. Era una rivalità più istintiva che razionale. Un gioco di ossimori: Haller il poeta del pallone, Nielsen il rude finalizzatore che si prendeva i meriti dei gol; il tedesco un gaudente, il danese silenzioso e riservato custode delle proprie faccende domestiche. E più Haller punzecchiava pubblicamente il centravanti, più l’altro si defilava in un silenzio che contribuiva inevitabilmente ad alzare il tono delle provocazioni, spesso abilmente riecheggiate dalla stampa locale che non vedeva l’ora di raccontare l’ultima lite di spogliatoio, anche grazie alle soffiate della moglie-agente di Haller. Solo dopo che Nielsen fu ceduto all’Inter nel 1967, e quando Haller fu lasciato andare alla Juventus l’anno seguente, ci si accorse di quanto mancassero quei litigi, e non solo al folklore dei pettegolezzi. Ai rivali nerazzurri, che aveva sconfitto nello spareggio Nielsen non portò quasi nulla: solo 2 gol in otto partite. Altrettanti ne fece a Napoli l’anno successivo, in un tramonto di carriera tanto repentino quanto inspiegabile, visto che l’età era ancora dalla sua parte. Dopo l’ultimo vano tentativo di rinascita alla Sampdoria, terminato con quattro misere presenze, a ventinove anni Nielsen diede l’addio al calcio. Senza rimpianti, però, tranne forse quello di vedersi abolito l’embargo dalla Nazionale, a partire dal 1971. Se fisico e volontà l’avessero sorretto ancora un po’, avrebbe potuto di nuovo servire il calcio del suo paese, ripensando ai tempi in cui, meno che diciannovenne, aveva già contato più gol che partite giocate (15 reti in 14 gare, fino al 1960). Tornato in Danimarca, ma non per allenare, si preoccupò di mettere a frutto i suoi guadagni italiani, altra differenza marcata con il compagno-nemico Haller, che invece preferiva vivere dalla parte delle cicale. In patria diventerà industriale di successo e persino presidente-proprietario del Copenaghen. Non dimenticherà mai l’italiano. Anzi: memore della sua giovanile renitenza a impararlo, lo insegnò pure al primogenito. Nell’ottobre 2014 tornò al Dall’Ara, dove la curva “Bulgarelli” gli tributò un saluto. E siccome il Bologna, di quei tempi, stentava a segnare pure in serie B, gli venne intonato il coro “Fatelo giocare – fatelo giocare”. Sicuro che ci avrebbe provato, se gli fosse stato consentito. Ma la vita gli stava già scivolando via. Fece appena in tempo ad abbracciare gli amici di sempre, Franco Janich, Romano Fogli (Bulgarelli lo aveva già salutato sul letto d’ospedale). L’11 agosto 2015 se ne andò per sempre, a 74 anni non compiuti. Se non era il centravanti più forte di sempre ad aver vestito rossoblù, poco ci mancava.