Il goleador
Angelo Schiavio (1905-1990)
Al Bologna dal 1922 al 1938; 364 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 28-1-1923, Bologna-Juventus 4-1
Angelo Schiavio fu molto più dei suoi 242 gol in 348 partite, più dei quattro scudetti e delle due Coppe dell’Europa Centrale, e persino più del gol decisivo nella finale del Mondiale 1934 con cui l’Italia di Vittorio Pozzo sconfisse all’ultimo respiro la temibile Cecoslovacchia. Ma citare solo i numeri da record di una carriera esaltante, appunto, non metterebbe a fuoco lo spirito di un uomo che per tutti gli anni in cui servì il Bologna non chiese mai di esser pagato né di ricevere premi materiali (tranne quando Renato Dall’Ara, senza avvisarlo, gli fece recapitare una Fiat Topolino come segno di gratitudine per tutti gli anni di militanza rossoblù). L’etica di Schiavio era semplice e rivoluzionaria: «Ho già un lavoro che mi impegna, giocare per il Bologna è solo un onore». Anche per questo finché gli fu possibile si rifiutò di firmare qualsiasi contratto. Non per sentirsi libero di ascoltare le sirene di altre squadre (Giuseppe Meazza lo corteggiò a lungo per convincerlo ad accettare la proposta dell’Inter) ma per poter tornare senza preoccupazioni al suo lavoro in bottega, la ditta di abbigliamento e tessuti Schiavio e Stoppani, ciò che considerava la sua principale occupazione. È incredibile pensare che il più grande cannoniere di ogni tempo nella storia del Bologna si allenasse solo una volta a settimana (sempre di giovedì, nel turno di riposo del negozio) e che un ritmo così apparentemente blando gli abbia consentito di arrivare a giocare fino a 33 anni. Il vero miracolo, però, gli era capitato a poche settimane d’età, quando una notte d’aprile del 1906 il piccolo Angelo rischiò di morire per una costola incrinata che gli mozzava il respiro. Fu il celebre chirurgo Bartolo Nigrisoli a salvargli la vita con un’incisione senza anestesia, praticata d’urgenza sul tavolo della cucina. Un intervento crudo, ma necessario, che anni dopo gli sarebbe valso l’esenzione dalla leva obbligatoria, uno dei motivi che vanificarono l’assalto della Juventus, pronta ad accaparrarsi il giovane campione dopo aver fatto carte false per assegnarlo di stanza proprio a Torino. La ferita sotto la scapola ci mise quattro anni a guarire definitivamente e oltre alla cicatrice lasciò un segno invisibile di predestinazione. Dopo aver giocato nei vivai della Fortitudo ed essere sbarcato ai Boys Rossoblù, il giorno della svolta capitò il 31 dicembre 1922. In quel San Silvestro il Bologna aveva interrotto le vacanze natalizie per una doppia amichevole internazionale allo stadio Sterlino. Felsner aveva preparato così le due formazioni: contro i Wiener di Vienna sarebbero andati i ragazzini, mentre i senatori sarebbero subentrati per sfidare gli ungheresi dell’Újpest di Budapest. Il diciassettenne Schiavio segnò due gol agli austriaci e poi, per nulla fiaccato dall’impegno, si rese disponibile a coprire il forfait Giuseppe Della Valle. Gol anche nella seconda partita giocata senza fermarsi. La prima stagione tra i grandi confermò le impressioni di San Silvestro: sei reti in undici gare. Preoccupato di perdere il suo nuovo prodigio, Felsner fece pressioni su Enrico Masetti per vincolarlo con un contratto di ferro. E lì, nell’ufficio del presidente, uscì la famosa frase che avrebbe accompagnato tutta la carriera di Schiavio: «Perché dovrei farmi pagare per divertirmi?», che sarebbe poi diventata, negli anni della vecchiaia, «avrei pagato di tasca mia pur di giocare». Felsner si infuriò, ma dovette farsene una ragione. Avrebbe avuto a disposizione un intero decennio per capire il carattere leale e risoluto del suo miglior giocatore, che già dal campionato 1923-24 cominciò a marciare in doppia cifra, arrivando, nel 1925-26 e nel 1928-29, a segnare più gol che a marcare presenze. Tutto il mondo, non solo l’Italia, tentò di avvicinarsi a lui. Dalla Germania scese addirittura un emissario del Duisburg per cercare di sedurre Schiavio con un’offerta faraonica, ben superiore a quella che un incaricato del Francoforte aveva recapitato personalmente in motocicletta. La risposta fu cortese (Schiavio parlava qualche parola di tedesco) ma fu ovviamente rispedita mille chilometri a nord. Lo stesso fece con l’Inter dopo la vittoria al Mondiale del 1934. Il presidente Fernando Pozzani cullava il sogno di allestire la coppia d’attacco della Nazionale. Per questo aveva mandato avanti Meazza, convinto che la richiesta di un collega, poi opportunamente irrorata di denari, avrebbe fatto breccia. Si sbagliava di grosso. Non riuscì a smuoverlo nemmeno con una telefonata in cui gli prometteva di trasferire a Milano la sua bottega: «Vai nei tuoi negozi», gli disse, «misurane la superficie e fai la somma. Domani, quando ti ritelefonerò, dammi il totale dei metri quadri: se verrai all’Inter, dal giorno dopo sarai proprietario di una superficie esattamente uguale. Però in Galleria Vittorio Emanuele». Ma nemmeno il salotto buono di Milano riuscì a scalfire il suo legame con Bologna e con via Clavature. In azienda la figura di Schiavio era una sicurezza. Per allontanarlo dal suo ufficio, doveva presentarsi un’occasione irrinunciabile, come fu per esempio la tournée del Bologna in Sudamerica, nell’estate 1929. Però in quel caso c’era una ragione precisa per allontanarsi da casa quasi due mesi: Schiavio doveva infatti riportare a Bologna la salma del fratello Ercole, morto in Argentina nel 1922 e sepolto senza il saluto dei familiari. Quando si trattò di giocare a Budapest una gara di Coppa dell’Europa Centrale il puntiglio di Schiavio non ammise compromessi: se il Bologna voleva davvero staccarlo per quattro giorni dalle sue incombenze, che si organizzasse un trasporto ad hoc il più rapido possibile. E così fu: Dall’Ara organizzò un tour de force con auto privata fino a Venezia, decollo per l’aeroporto di Vienna e infine coincidenza per Budapest. Schiavio arrivò frastornato da tutto quel peregrinare e fallì pure un rigore. Forse allora capì di avere po’ esagerato con il suo zelo. Delle sue virtù umane si parlava ovunque. «La Gazzetta dello Sport» nel 1934 gli dedicò un servizio speciale, dipingendolo come un esempio di sportivo «che non ha mai sfruttato il nome di campione; il gioco del calcio per lui è solo sano diporto. Infatti allo sport Angiolino non dedica se non il tempo che il suo lavoro d’ufficio gli lascia libero». Con un po’ di imbarazzo dovette accettare il premio di 20.000 lire concesso dalla Federazione Italiana per la vittoria ai Mondiali del 1934. Meritatissimo, nel suo caso, perché il gol decisivo con cui l’Italia piegò la Cecoslovacchia fu segnato all’imbattibile portiere František Plánička. Un’impresa nell’impresa, compiuta sotto gli occhi di Mussolini. Nel 1936, vinto il suo terzo scudetto, il campione annunciò il suo ritiro dal calcio. Non immaginava però di doversene pentire dopo poco. Fu Dall’Ara a convincerlo a rientrare, ma per non togliere luce ai compagni, che nel frattempo avevano gettato le basi del quarto titolo, si fece rivedere solo dalla penultima giornata, segnando, ovviamente, due gol in altrettante partite. Le acclamazioni dello stadio lo convinsero ad allungare di un anno la carriera: giocò altre sei partite nel 1937-38, senza segnare (non gli era mai capitato). Fu però in campo nello storico incontro con il Chelsea, che valse al Bologna la conquista del Trofeo dell’Esposizione di Parigi, una Champions ante litteram, la prima vittoria di una squadra italiana ai danni dei maestri inglesi. Come tributo alla carriera, Dall’Ara regalò la coppa a Schiavio. Fu l’ultimo atto prima che si chiudesse il sipario sulla sua vita agonistica. Quella coppa, simile a un portaombrelli di vetro, sarebbe poi spuntata fuori miracolosamente nel 2009, ritrovata in mezzo ai ricordi di una vita dai famigliari del campione. Angelo Schiavio fu dunque il più grande di sempre. Ma ancor oggi ha un conto aperto con la statistica che misura le proporzioni delle imprese calcistiche italiane. Non tutte le 242 reti segnate in rossoblù sono state infatti riconosciute dai conteggi ufficiali della Federazione, che impone convenzionalmente l’anno “zero” del calcio a partire dall’introduzione del girone unico, ovvero il 1929-30. Questo discutibile criterio – che non si applica agli scudetti, altrimenti Pro Vercelli e Genoa non ne potrebbero contare nemmeno uno – costa a Schiavio 133 gol in meno e lo fa scivolare dal quarto posto (dietro Piola, Meazza e Totti) fin giù al sessantanovesimo tra i marcatori di tutti i tempi. Da allenatore, prestò servizio in situazioni di emergenza solo un paio di volte: dal dicembre 1933 al gennaio 1934, in coabitazione con gli ex compagni Bernardo Perin e Pietro Genovesi e ancora una volta in coppia con Genovesi nel 1945-46, a coprire l’intermezzo tra gli allenatori Popovich e Viola. A Dall’Ara prestò anche gli spazi del suo ufficio di via Clavature, quando il Bologna era rimasto orfano di una sede societaria per le conseguenze della guerra. Fedele e distaccato osservatore dei fatti rossoblù, cercò di non immischiarsi mai con la vita agonistica e pratica della società. Solo in un caso non seppe trattenersi, quando al Bologna toccò l’onta della prima retrocessione in serie C nel 1983. A settantotto anni, Schiavio tuonò così sulle pagine de «il Resto del Carlino»: «Nel ricordo del mio Bologna e dei miei vecchi, cari compagni di squadra, ormai quasi tutti scomparsi, non posso trattenere il mio sdegno più profondo e la mia protesta più vibrata verso tutti coloro che, avendo operato in questi anni, hanno la responsabilità dell’attuale drammatica situazione. Mi meraviglio e mi stupisco che essi abbiano ancora l’ardire di comparire sulla stampa con dichiarazioni tese a salvaguardare la loro posizione di fronte a responsabilità che sono esclusivamente e soltanto loro. Sento la più cocente ed inesprimibile delusione nel ricordo della mia giovinezza, che ho interamente dedicato ai colori rossoblù e che mi autorizza a dire a questi signori di non osare più di apparire per tutto il fango che hanno gettato sulla gloriosa squadra bolognese». Non fu ascoltato. Ma ai Mondiali italiani del 1990 si tornò a parlare di lui, reduce di quella leggendaria comitiva che 56 anni prima conquistò la prima Coppa Rimet. Il suo gol fu celebrato appena in tempo. Il 17 settembre 1990, chiuse da poco le notti magiche, Schiavio lasciava il nostro mondo per consegnarsi a un’immortalità di cui aveva già preso un generoso acconto in vita.