Il fine giustifica i mezzi
Michele Andreolo (1912-1981)
Al Bologna dal 1935 al 1943; 222 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 22-9-1935, Bologna-Genoa 4-1
Per l’uruguaiano Miguel Ángel Andriolo Frodella, italianizzato in Michele Andreolo, il presidente Renato Dall’Ara fu disposto a commettere un doppio illecito: prima, schierandolo in campo senza i documenti richiesti dalla burocrazia; e poi, dopo tre anni di permanenza in rossoblù, aggiungendo in calce al contratto di cessione al Milan una clausola secondo cui l’anno seguente il Bologna avrebbe avuto diritto a riprendere il calciatore per la metà della cifra inizialmente pattuita. Solo la sfacciataggine di Dall’Ara ebbe ragione in una vicenda così surreale: il Milan desistette dal concludere l’operazione e la Federazione multò persino Andreolo con 5.000 lire per aver taciuto il dettaglio contrattuale… inesistente. Fu grazie a questa machiavellica operazione che il Bologna si garantì per otto anni consecutivi uno dei più grandi registi di tutti i tempi. Al suo arrivo in Emilia, nel 1935, Andreolo era un ventitreenne sconosciuto raccomandato dal connazionale Francisco Fedullo, rientrato alla corte del Bologna dopo una lunga fuga in Uruguay, peccatuccio di cui s’era solennemente pentito. Dall’Ara disse che lo avrebbe perdonato solo a patto che il figliol prodigo rientrasse con un talento dal sicuro avvenire. Quel talento era Andreolo. La località di nascita sul suo passaporto era Carmelo, un minuscolo paesino sul Río de la Plata frequentato da banditi e contrabbandieri, la Mecca di tutti i tipi di traffici illeciti, dove nel 1842 si accampò anche Giuseppe Garibaldi, impegnato nella difesa della repubblica uruguaiana contro gli argentini. Da quell’imbuto fluviale dimenticato da dio, la sua famiglia, che era originaria di Valle dell’Angelo, Salerno, s’era trasferita trenta chilometri più a Nord, a Dolores, un avamposto ancora più remoto. Montevideo restava una possibilità geografica solo ipotetica, raggiungibile in una settimana di viaggio. Miguel, come si firmava già nei documenti ufficiali, iniziò con la squadra locale del Libertad F.C., su un campo dissestato in cui oggi troneggia la sua statua, e lì fu notato da Carlos Riolfo, centrocampista del Peñarol, che cominciò a parlare di quel ragazzo a tutto l’ambiente sportivo della capitale, finché il Nacional non si presentò con un’offerta. I suoi colpi di testa, più che i proverbiali passaggi millimetrici, erano stati il motivo di quell’insperato avanzamento di carriera. Per questo motivo la fantasia sudamericana, sempre a caccia di soprannomi pittoreschi, l’aveva ribattezzato “El Chivo”, il capretto. Con il glorioso Nacional il futuro volante rossoblù avrebbe vinto due titoli nazionali consecutivi. Leggendario quello del 1934, conquistato in finale contro il Peñarol nella partita passata alla storia come “el clásico de los 9 contra 11”, perché il Nacional difese lo 0-0 in nove contro undici per 84 minuti su 90. Andreolo era ovviamente tra quei nove Leonida. Chissà cosa dovette pensare il ragazzo prodigio, quando Francisco Fedullo e Felipe Pascucci – ex commissario tecnico dell’Argentina riciclatosi come osservatore del Bologna per il Sudamerica – gli proposero di lasciare tutto per imbarcarsi sull’Oceania. Tempo per riflettere non ce n’era. E forse non ce n’era nemmeno bisogno. In meno di un anno, Andreolo si ritrovò da campione d’Uruguay a campione d’Italia, diventando il perno della squadra costruita da Árpád Weisz, una macchina perfetta che nella stagione successiva, quella del 1936-37, avrebbe raggiunto di nuovo l’apice sia in Italia sia in Europa, con la vittoria del Trofeo dell’Esposizione di Parigi. In tutti i successi c’era la firma di Andreolo, con i suoi lanci perfetti di 40-50 metri, lo slancio gladiatorio contro gli avversari e i tiri potentissimi a rete, anche su punizione. Solo dagli undici metri la sua “garra charrúa” cominciava a vacillare: una volta sbagliò un rigore decisivo contro la Fiorentina, sul risultato di 0-0, e usò quel precedente per non tornare più sul dischetto. Ma un giocatore così non poteva rimanere a lungo fuori dal giro azzurro. Vittorio Pozzo lo fece esordire il 17 maggio 1936 contro la temibilissima Austria del fenomeno Matthias Sindelar, il Mozart del pallone. Finì 2-2 e Andreolo, o “Micheolo” come l’avevano ribattezzato in Italia, fece la figura migliore di tutti. La maglia della Nazionale restò sua fino al 1942 e suo fu l’onore di alzare la Coppa Rimet del 1938. Fu quello l’apice assoluto della sua carriera, il momento irripetibile in cui tutti lo volevano, dal Sochaux – che arrivò ad annunciarne l’ingaggio senza carte in mano – al Milan, che un contratto invece l’aveva regolarmente stipulato: 400.000 lire per lo svincolo, i cartellini di Pisano e Gabardo, e 80.000 al giocatore. L’epilogo della vicenda è noto. Chiuse la sua lunga parabola rossoblù nel 1943. Durante la pausa bellica della serie A disputò e vinse il Campionato romano di guerra con la maglia della Lazio. Tornò ad alti livelli a Napoli, dal 1945 al 1948, prima di avviarsi in lenta discesa a Catania, e poi a Forlì in serie C, nei panni di allenatore in campo. Singolare che un calciatore con la sua visione di gioco periscopica non abbia avuto fortuna come allenatore: tolte due fugaci esperienze a Marsala e a Taranto, e poi nei nuclei di addestramento della Federazione, Andreolo condusse il resto della sua vita in forma ritirata. Si trasferì a Potenza, dove guidò un centro giovanile e trovò moglie, vicino a luoghi d’origine dei genitori. E lì rimase fino alla fine.