Tackle e pistole

Dino Ballacci (1924-2013)

Al Bologna dal 1945 al 1957; 309 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 10-03-1946, Venezia-Bologna 1-2

«Avevo l’abitudine che quando volevo la palla tiravo via tutto quello che c’era intorno». Dino Ballacci non amava le sfumature. Non per caso s’era scelto la posizione di difesa più adatta ai combattenti come lui, proprio davanti al portiere, ultimo baluardo prima della capitolazione. Più tardi, invece, si sarebbe assestato definitivamente nel ruolo di terzino. Bolognese purosangue, figlio di un maresciallo dei carabinieri, era nato il 24 maggio 1924 – non per caso il “giorno del coraggio” – nel quartiere popolare di San Donato e i primi calci, quando non era impegnato con la boxe, li aveva tirati sul campetto dell’oratorio di Sant’Egidio. All’epoca anche quei minuscoli palcoscenici della prima periferia potevano diventare l’occasione per farsi notare. E così fu. Biavati e Sansone rimasero colpiti dalla virulenza con cui Ballacci mordeva le caviglie all’avversario e lo portarono nelle giovanili del Bologna. Poi arrivò la guerra e il ragazzo dovette dimenticare il calcio. In Friuli fu catturato dai tedeschi e portato in un luogo segreto in attesa dell’esecuzione. Sembrava spacciato ma nell’ora più buia riuscì a liberarsi, uccise la sua guardia – tal tenente Krauss – e s’unì alle brigate partigiane nelle foreste sull’Altipiano del Cansiglio. Come nome di battaglia si autoproclamò “Krauss”, per non dimenticarsi mai del momento in cui si trovava più vicino alla morte che alla vita. Tutto il 1944 lo passò a schivare i rastrellamenti tedeschi e a contrattaccare. Krauss, quello vero, non fu l’unico a finire sotto i suoi colpi. Con la Brigata “Osoppo” trascorse un inverno interminabile, nel quale si ritrovò anche vicecomandante di battaglione quando il comandante “Maso” cadde sotto il fuoco tedesco. Non c’è da stupirsi se dopo quella vita errabonda, che non gli consentiva mai di dormire due volte nello stesso posto, Ballacci non si facesse problemi a usare maniere forti sugli avversari. «Io miro al pallone», sosteneva, «se poi prendo le gambe, pazienza». Quando nel 1945 si riaffacciò al calcio non era più giovanissimo: prima della Liberazione aveva giocato una manciata di partite nell’Elettronica Roma, poi quando bussò alle porte del Bologna, Dall’Ara lo riaccolse con qualche titubanza. Il vecchio contratto non c’era più. Occorreva scriverne uno nuovo di zecca e il presidente voleva prima sincerarsi delle condizioni fisiche del suo ex terzino. A ventuno anni Ballacci poté finalmente debuttare con una squadra vera. Cominciarono allora dodici stagioni in trincea, a tallonare gli avversari, e stenderli brutalmente, si capisce. Solo nel 1950-51 riuscì a giocare tutte le partite. E non perché lo perseguitassero gli infortuni. Su tutto, a parte i fascisti, Ballacci aveva in odio due cose: le simulazioni e la maglia bianconera. Con Giampiero Boniperti, in particolare, nacque un duello che fece epoca. Il rude mastino contro l’elegante portabandiera della squadra padronale. Ballacci non sopportava che ad ogni lamentela dello juventino seguisse immediata la sanzione dell’arbitro. «Faccia così, la smetta di fischiare e dia il fischietto a Boniperti». Fu cacciato. Nella sua unica partita in Nazionale gli fornì addirittura un assist. Ma Boniperti, memore delle botte subite in campionato, non corse a ringraziarlo. Dall’Ara invece lo volle festeggiare con un orologio d’oro, ma poi se ne pentì, quando scoprì che Ballacci era andato a ritirare il modello più costoso. Tra le interminabili trattative con il presidente per il rinnovo del contratto una volta finì persino con una pistola: Dall’Ara era convinto che esibendola sulla sua scrivania avrebbe ammorbidito le pretese di Ballacci, ma questi appoggiò la sua accanto all’altra. «Ora siamo pari e possiamo cominciare a parlare», disse l’ex partigiano. Finì la sua carriera nel 1957, superando le 300 presenze in rossoblù e senza risparmiarsi altri gustosi fuoriprogramma, come quando abbassò i pantaloni verso il pubblico che stava contestando il suo compagno di squadra Glauco Vanz. Negli anni Sessanta si reinventò allenatore, sempre fedele alla linea dura: la verità a tutti i costi. Non tutti seppero tenere il suo passo. Col Catanzaro si tolse la soddisfazione di battere l’odiata Juventus di Helenio Herrera in una semifinale di Coppa Italia, persa in finale con la Fiorentina solo ai tempi supplementari. Si rese utile anche al Bologna, segnalando i talenti di Furlanis, uno dei pilastri dello scudetto del 1964, e di Cimpiel, secondo portiere di William Negri. Il 6 agosto 2013, poco prima di arrivare al traguardo dei novant’anni, ha dovuto arrendersi alla vecchiaia, l’unico tackle da cui è uscito sconfitto.