Il miracolo

Siniša Mihajlović (1969-)

Allenatore nel 2008-09 e dal 2019

La prima opportunità di allenare in proprio, staccandosi dall’amico Roberto Mancini di cui era diventato il secondo all’Inter, gliela diede il Bologna. Nell’autunno 2008 la squadra si trovava a un passo dal precipizio, dopo otto sconfitte nelle prime dieci partite. La nuova proprietà della famiglia Menarini, digiuna di calcio, si fece consigliare Mihajlović, all’epoca trentanovenne rampante, pieno di idee e di voglia di cominciare una nuova vita in panchina. Portava con sé l’esperienza degli anni d’oro della Sampdoria con Vujadin Boškov, della Lazio di Eriksson e ovviamente dell’Inter di Mancini, che non ebbe certo un ruolo secondario nel caldeggiare il suo ingaggio. Mihajlović entrò in scena da sergente di ferro, fermando subito l’emorragia di punti: cinque pareggi consecutivi tamponarono le perdite di autostima di una squadra che non sapeva più vincere; poi il 5-2 al Torino, raddrizzando lo svantaggio dopo l’intervallo, diede l’impressione che fosse davvero avvenuta una svolta. Un mercato invernale sbagliato, coronato dall’inutile quanto dispendioso acquisto di Osvaldo, riportò in auge i vecchi problemi. «Esonerare Siniša è stata una delle scelte più difficili della mia vita», dirà Francesca Menarini dopo l’umiliante 4-1 casalingo inflitto dal Siena. Mihajlović se ne andò masticando amaro, ma trovando nella fede i primi sentori di predestinazione. In quella stessa estate conobbe per la prima volta la Madonna di Medjugorje, che non era mai riuscito a visitare durante la guerra dei Balcani. Tornò in pista in quello stesso anno, sostituendo Gianluca Atzori al Catania, ultimo in classifica. A fine stagione festeggiò la salvezza al tredicesimo posto, con dieci punti di margine sulla terzultima. La strada del ritorno a Bologna era ancora lunga: in mezzo arrivarono Fiorentina, Sampdoria (penultima al suo arrivo, dodicesima al traguardo), la nazionale serba, Milan e Torino. A inizio febbraio 2019, quasi dieci anni dopo il suo primo esonero in carriera, ricevette la telefonata di Marco Di Vaio, suo ex attaccante al Bologna. «Siniša, se te la senti, tocca a te». Il Bologna era quasi al collasso. La sconfitta casalinga per 4-0 con il Frosinone sembrava un certificato di morte non solo sulla stagione di Filippo Inzaghi, ma sull’intera gestione di Joey Saputo. Penultimo, con appena 14 punti in 21 partite, Mihajlović saltò in sella su un cavallo a cui avevano spezzato le gambe posteriori. «Se sono qui è perché ritengo possibile la salvezza». La vera impresa era trovare qualcuno che ci credesse. La marcia cominciò con il botto: 0-1 sul campo dell’Inter, poi un buon pareggio con il Genoa. Tre sconfitte consecutive con Roma, Juventus e Udinese sembrarono riportare il Bologna nell’incubo. Ma era solo la rincorsa di un finale a perdifiato. A fine stagione Mihajlović si toglierà persino lo sfizio di scavalcare il recinto della parte sinistra della classifica, arrivando a un miracoloso decimo posto, il secondo miglior piazzamento degli ultimi vent’anni. Dopo un non facile accordo per il rinnovo del contratto, il destino s’è presentato senza bussare. A inizio luglio Mihajlović cominciò a lamentare febbre alta, e non accennava a scendere. Mentre la squadra iniziava ad allenarsi in ritiro senza di lui, la verità si faceva largo con feroce evidenza: i medici gli avevano diagnosticato una grave forma di leucemia. Il 13 luglio l’annuncio in una drammatica conferenza stampa. Poi, senza indugi, l’inizio delle cure. A fine agosto, provato dai segni della chemioterapia, Mihajlović era già pronto per tornare in panchina. Apparve a Verona, visibilmente smagrito. «Sembravo un morto che cammina», ammetterà mesi dopo, a trapianto di midollo avvenuto. Ma quella sua presenza, da quel momento ribadita tutte le volte che ha potuto, anche a dispetto del parere dei medici, valeva già più di ogni altra parola.