Il self-made man
Luciano Conti (1922-1995)
Presidente proprietario dal 1972 al 1979
Aveva imparato a fare l’elettricista sul campo. Sul campo di guerra, per la precisione, essendo nato nel 1922 e avendo provato in pieno la durezza di quegli anni. Luciano Conti, il futuro presidente del Bologna dal 1972 al 1979, aveva costruito la sua fortuna letteralmente con le proprie mani. Partito dalla Cirenaica, quartiere popolare di Bologna, si ritrovò a dare una mano all’esercito americano e poi, alla fine del conflitto, trovò impiego in un’azienda incaricata di ripristinare l’illuminazione pubblica in città. Ma non gli bastava. Si mise in proprio, aprì un negozietto in via Don Minzoni, cominciò a vendere una a una le lampadine che illuminavano il primo boom economico. Da lì, un fiuto istintivo per gli affari gli suggerì di espandersi e di aprire un grande emporio in via del Borgo, altro cuore popolare della vecchia Bologna. Il giro di denaro aumentò, nacquero la Sirmac (azienda che produceva macchine agricole, poi venduta a un fondo americano) e l’avventura nell’editoria, quella di Autosprint soprattutto, che da periodico semisconosciuto di Torino divenne la bibbia degli appassionati di motori come lui. A cinquant’anni era diventato tra gli imprenditori più facoltosi in città, almeno tra quelli che s’erano fatti letteralmente da soli. Fu per questo motivo che venne avvicinato da Filippo Montanari, un presidente di transizione che non vedeva l’ora di cedere il club. A Conti piacevano le sfide pericolose e il calcio senza dubbio lo era. L’anno prima, il 1971-72, il Bologna aveva rischiato seriamente di retrocedere. Per evitare di farlo davvero in panchina fu chiamato Bruno Pesaola, che tre anni prima aveva portato la Fiorentina allo storico secondo scudetto. Fu l’inizio di un ciclo che a fasi alterne segnò l’intera decade. Conti e Pesaola, poi, avevano la fortuna di starsi istintivamente simpatici: condividevano la stessa posizione di partenza dalle retrovie del mondo, con il sano autocompiacimento di chi sapeva di avercela fatta con le proprie forze. E poi amavano fumare, giocare a carte fino a tardi, esserci, vivere il mondo ad ampie boccate. Finirono anche sulla stessa panchina, l’uno accanto all’altro, in un’epoca in cui ai presidenti era consentito ancora tutto, persino allenare al fianco dei propri allenatori. Anche per questo esonerare Pesaola costò molto a Conti, e non solo in termini economici. Il 1972-73 si chiuse con un’onorevole settima posizione. Peggio andò l’anno seguente, terminato al nono posto, ma con l’inaspettata vittoria della Coppa Italia, ciò che ha reso Conti l’ultimo presidente rossoblù vittorioso in Italia, anche se la finale con il Palermo, vinta ai rigori, venne viziata da un rigore inesistente fischiato all’ultimo minuto del tempo regolamentare. Enzo Barbera, il grande presidente rosanero, quel giorno decise di riconoscere comunque il premio vittoria ai giocatori. Forse quella vittoria immeritata, o più probabilmente le evidenti difficoltà dei primi due anni di gestione, convinsero Conti a investire su acquisti di peso quale fu a tutti gli effetti Mauro Bellugi. Ma restò un nome isolato, in mezzo a tante ambizioni inappagate. L’estate 1975 cominciò l’inizio della fine: quando il patron del Napoli Corrado Ferlaino, altro grande appassionato di motori (nel 1964 aveva preso parte anche a un’edizione della Targa Florio), gli offrì due miliardi di lire per Beppe Savoldi, a sorpresa accettò subito. La piazza, incredula, attaccò una feroce contestazione, «ma solo un pazzo», commenterà Conti più avanti, «avrebbe detto no a quelle condizioni», ovvero 1.4 miliardi in contanti e i cartellini dei calciatori Clerici, Nanni e Rampanti. Per uno scherzo del destino, il sesto posto finale di quell’anno, cominciato con ben più foschi presagi, smentì i contestatori di Conti. Il quale però, nell’estate 1976, dovette assentire a congedare Pesaola, richiesto proprio dal Napoli. Sarà una separazione meno lunga del previsto, ma non per questo meno dolorosa. Il successore di Pesaola fu scelto in Gustavo Giagnoni, eccentrico profeta del calcio di provincia, appena esonerato dal Milan, riconoscibile per la buffa abitudine di indossare un colbacco, che non lo protesse da un nuovo licenziamento dopo un roboante 1-5 interno contro l’Inter. A sostituirlo fu chiamato l’eterno Cesarino Cervellati, sempre pronto a venire in soccorso al capezzale rossoblù. Quella volta ci riuscì piuttosto bene e la sua conferma, a furor di popolo, fece saltare il già organizzato ritorno di Bruno Pesaola, nel frattempo rimasto appiedato dopo la deludente esperienza napoletana. Ma quello che Conti si metteva in testa, a dispetto di tutti, si realizzava. Pesaola effettivamente tornò, provocando a sua insaputa un terremoto societario: ritenendo di non essere stati avvertiti dell’imminente ribaltone, il consigliere Filippo Montanari, l’avvocato Roffeni e l’altro consigliere, il giornalista Enzo Biagi, uscirono di scena dimettendosi dalle cariche. Sarebbe stato il male minore, ma in campo andò pure peggio, con una salvezza agguantata agli ultimi minuti del torneo, e solo grazie a un punto in più su Genoa e Foggia, retrocesse per differenza reti rispetto alla parigrado Fiorentina. Conti era allo stremo delle forze, ma non ancora arreso. Confermò Pesaola, lo sostenne fino all’ultimo, andando persino al suo fianco in una partita contro il Napoli del 17 dicembre 1978. Poi capì che nemmeno l’amico Bruno era in grado di raddrizzare quella nave incagliata, incapace persino di segnare per otto partite consecutive. Cervellati tornò e salvò miracolosamente la baracca all’ultima giornata, pareggiando contro il mai sconfitto Perugia di Ilario Castagner (11 vittorie, 19 pareggi e zero k.o. quell’anno), che comunque, tanto per far passare un brutto quarto d’ora ai rossoblù, passò in vantaggio 2-0 con una doppietta di Bagni. Quel giorno Franco Cresci, in campo per l’ultima delle sue 301 presenze in rossoblù, sistemò con le cattive l’esuberanza del mediano perugino e permise così a Mastalli e a Bordon di pareggiare. Per Conti quella salvezza umiliante, ottenuta solo grazie allo scontro diretto e alla miglior differenza reti con il Vicenza, fu l’ultimo atto. Trovò in pochi giorni un aggancio per cedere la società. La velocità della transazione doveva far presagire tempi non luminosi. Ma in quella circostanza prevalse la fretta di liberarsi di un peso. Perché il Bologna questo era ormai diventato per l’uomo che amava correre sì, ma soprattutto vincere.