Il pugno e la carezza

Gino Cappello (1920-1990)

Al Bologna dal 1945 al 1956; 260 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 14-10-1945, Bologna-Modena 2-2

«Eccolo là, il bislungo e dinoccolato giovanottone, in mezzo al campo a guardarsi attorno, distaccato dalla partita, quasi che abbia colto l’occasione della gara per cercare un quadrifoglio nell’erba del prato». Forse la descrizione che Bruno Roghi fece di Gino Cappello somigliava più al reale episodio che negli anni Ottanta avrebbe avuto per protagonista Domenico Marocchino, il quale durante un allenamento si fermò all’improvviso per raccogliere – come lo avesse notato correndo, è impossibile saperlo – un bel quadrifoglio. Gino Cappello, invece, un quadrifoglio vero non lo trovò mai. Perché se fosse successo, non sarebbe finito in quel fatale vortice di casualità e sfortuna che gli ha azzoppato una carriera potenzialmente sfolgorante. Il suo piede era infatti uno dei più raffinati del secondo dopoguerra. Il fiuto del gol, poi, infallibile. Col Padova, la squadra della sua città, conquistò la serie B segnando 29 reti in 28 partite, una vocazione mantenuta anche al Milan ed esplosa nel decennio bolognese, dal 1945 al 1956. Non erano certo questi gli anni più fulgidi della storia rossoblù. I continui cambi di allenatore, la prudenza con cui Dall’Ara si affidava al mercato, salvo poi farsi prendere da improvvise smanie di acquisto, l’imprendibile concorrenza delle torinesi e delle milanesi, erano tutti motivi di ostacolo alla crescita della squadra. In questo clima, per un carattere anarchico come Cappello fu più facile esporsi al vento degli istinti. Nel 1952, in un apparentemente innocuo torneo dei Bar bolognesi (Otello contro San Mamolo), il giocatore rossoblù spinse a terra con forza l’arbitro federale Palmieri, che denunciò tutto alla giustizia ordinaria e sportiva, lamentando una frattura al braccio rivelatasi in realtà solo una distorsione. Il guaio comunque era fatto. Il giudice sportivo comminò una clamorosa quanto inedita squalifica a vita. Cappello non poté fare altro che contro denunciare Palmieri, incassando però una pesantissima multa dal presidente Dall’Ara, che nel frattempo si era ricordato di aver negato il permesso di giocare quell’inutile partitella estiva, per quanto fosse molto sentita negli ambienti sportivi bolognesi. I tempi slentati della giustizia fecero perdere a Cappello l’intero campionato 1952-53, ma almeno partorirono la riduzione della squalifica a un anno soltanto, imponendo al calcio una radicale revisione della sua amministrazione interna: da quel momento fu introdotto il principio della “clausola compromissoria”, ovvero l’obbligo, da parte dei tesserati, di sottostare esclusivamente alla giustizia sportiva, pena la rinuncia alla carriera agonistica. Il ritorno in campo di Cappello fu una fiammata: 12 gol nel 1953-54, poi l’inevitabile logorio che lo portò a distillare sempre meno gol e a salutare definitivamente la compagnia nel 1956. Per molti, se non per tutti, era stato un genio del calcio sprecato sull’altare della vanità. Si tornò a parlare di lui nel 1960, quando, da dirigente del Genoa, fu coinvolto in un tentativo di corruzione che lo condusse, stavolta senza sconti o ripensamenti, alla radiazione eterna. A tradirlo fu l’atalantino Giovanni Cattozzo, ex terzino e suo compagno di squadra nel Bologna, al quale s’era presentato con un milione di lire per farsi assicurare che avrebbe perso la partita. Cattozzo finse di acconsentire, ma rivelò tutto alle autorità federali (l’Atalanta, tra l’altro, vinse regolarmente la partita). Le indagini che ne seguirono inchiodarono Cappello. A quarant’anni, anche la carriera da dirigente era già finita alle ortiche. Morì nel 1990, a settant’anni non compiuti, per una caduta accidentale in casa. L’ultima di una vita vissuta sempre pericolosamente.