Il pilastro

Raffaele Sansone (1910-1994)

Al Bologna dal 1931 al 1943; 315 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 20-9-1931, Bologna-Pro Vercelli 1-0

«…Sansone, che dribblava al ritmo degli applausi e quando aveva smesso di dribblare, era gol». Angelo Schiavio, il massimo goleador rossoblù di tutti i tempi, descriveva così la più forte mezzala dei primi cinquant’anni di storia del Bologna. Non erano i gol, in realtà, il miglior repertorio di questo oriundo d’Uruguay, arrivato in Emilia per puro caso, a seguito di un malinteso di calciomercato. Erano le finte ubriacanti e il lancio preciso per gli attaccanti le armi irrinunciabili di questo calciatore sornione, non estraneo a colpi di testa improvvisi (come quando rientrò in patria in polemica con il presidente Bonaveri), ma decisivo in quel decennio che dal 1931 portò il Bologna a diventare la squadra più temuta d’Italia e tra le prime del mondo. I suoi genitori erano originari di Vallo della Lucania, provincia di Salerno. Il padre Pantaleone s’era fatto una posizione giocando alla borsa di Montevideo e il figlio Rafael, poi italianizzato in Raffaele, si guadagnava da vivere come scaricatore nei cantieri della capitale. Non esitò ad accettare quando nel 1931, segnalato dal talent scout Ivo Fiorentini, gli fu prospettato l’ingaggio della Fiorentina. Si trattava di 25.000 lire per due anni, più di quanto avrebbe mai potuto ricevere in una carriera intera al Peñarol, il quintuplo di un impiegato di buon livello. Bisognava solo vincere le resistenze paterne. E così fu. Salito sul transatlantico che l’avrebbe portato in Italia, arrivò il contrordine: «Niente Florencia, Bolonia». Bolonia? E chi conosceva quella città? Il fatto era che Hermann Felsner, ex allenatore dei rossoblù repentinamente passato alla Fiorentina, aveva appena dato il benestare all’acquisto di Pitto e Busini III. Come necessaria contropartita, al Bologna occorreva destinare proprio quel Sansone che Felsner avrebbe ritrovato pochi anni dopo nella sua seconda esperienza sulla panchina emiliana. L’uruguaiano sentì odor di fregatura, ma accettò. Quando sbarcò a “Bolonia” era una notte d’agosto, la città deserta, le vie buie e calde. Fu parcheggiato in una modesta locanda di via San Vitale, un incubo. «Presi sonno solo perché ero stanco morto», raccontò in seguito. Al mattino lo sarebbe venuto a prendere il connazionale Francisco Fedullo per un primo giro di perlustrazione del centro storico. «Pensavo di esser finito nella città delle streghe, con tutti quei portici oscuri», spiegò anni dopo. «Al mattino cominciai a passeggiare per via San Vitale e vidi che la gente vestiva benissimo e alle Due Torri fui come folgorato. Tutte persone elegantissime, mi pareva che la ricchezza colasse dai muri. Non avevo capito niente, non avevo capito che ero arrivato in paradiso. Fedullo mi portò al Pappagallo a fare una mangiata di quelle da ricordare, tortellini e gallina farcita con dolci vari. E subito feci la conoscenza del presidente Bonaveri, un autentico gentiluomo». Chissà se pensò la stessa cosa quando nel 1933, al momento del rinnovo del contratto (che ricalcava fino a quel momento quello offerto dalla Fiorentina), il presidente mise sul piatto una cifra di poco superiore (da 25.000 a 32.000 lire per quattro anni), condita da un “prendere o lasciare” che indispettì Sansone. Per qualche giorno non si seppe più niente di lui. Poi arrivò un telegramma dall’Uruguay: era partito per una pausa di riflessione. Bonaveri tenne il punto, ma cominciò a temere il peggio quando apprese che Sansone aveva ricominciato a giocare per il Peñarol. Occorreva una mediazione. La prima idea fu quella di appellarsi ai sentimenti, scrivendo un telegramma strappalacrime controfirmato da Olga, la fidanzata rimasta in Italia, nonché futura moglie da lì a due anni. Lei però aveva capito tutto e rifiutò sdegnata di unirsi a questo disegno. Passò una stagione e intanto Bonaveri aveva lasciato spazio al neopresidente Renato Dall’Ara, un industriale reggiano della magliera, digiuno di calcio ma appassionato di tutto ciò che mischiava trattative, soldi e passioni popolari. Uno dei primi gesti del neopresidente fu quello di ricucire lo strappo con Sansone. Ottenuto un generoso aumento di stipendio, l’uruguaiano riprese il mare e tornò in rossoblù. Da quel momento non avrebbe più lasciato l’Italia. Col Bologna vinse quattro scudetti. Una Coppa dell’Europa Centrale l’aveva già alzata prima della fuga transoceanica. Poi fece il bis nel 1934, in quello che diventò il primo trofeo dell’era Dall’Ara. Sua pure la decisiva partecipazione al Torneo dell’Esposizione di Parigi, dove il Bologna sconfisse in finale il Chelsea, prima squadra italiana a batterne una inglese. Di Dall’Ara Sansone fu sempre uno dei consiglieri più fidati. Li univa una simpatica epidermica reciproca. Dopo una parentesi al Napoli in qualità di giocatore-allenatore, Sansone tornò a Bologna come consulente di mercato dei rossoblù, suggerendo gli acquisti di Pascutti, Capra, Haller, Furlanis, Tumburus e Renna, in pratica metà squadra del futuro Bologna campione 1964. Nel 1967, invece, guidò le giovanili alla vittoria del torneo di Viareggio, che fino al 2019 non sarebbe più tornato nella bacheca di Casteldebole. Fuori dal campo, “Faele” come veniva chiamato confidenzialmente, era diventato un’istituzione. Il suo panama bianco e il suo farfallino comparivano sempre alla stessa ora al Mercato delle Erbe di via Ugo Bassi, dispensando pareri sul calcio ai quali di tanto in tanto s’univa l’altro oriundo adottato da Bologna: Miguel Andreolo. Un’epoca irripetibile, che dalle valigie di cartone degli anni Trenta s’è spinta fin quasi ai confini del nuovo secolo. Dal 1994 Sansone non è più con noi.