Un tiro, un gol
Gino Pivatelli (1933-)
Al Bologna dal 1953 al 1960; 204 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 13-9-1953, Bologna-Atalanta 2-1
Negli anni Cinquanta il calcio italiano era invaghito di tutto ciò che parlava con accento straniero. A folate continue, assecondando gusti, mode e innamoramenti più o meno passeggeri, i presidenti della serie A si contagiavano reciprocamente puntando sui cavalli vincenti del momento. L’Italia perdeva 6-1 dalla Iugoslavia? Puntare tutto sugli iugoslavi. La Juventus setacciava il nascente mercato danese? La Danimarca diventava il nuovo Eldorado. Così, tra exploit inaspettati e clamorosi fallimenti, prendeva vita un calciomercato istintivo. Per tutti era un gaio e fiducioso salto nel buio. Gli stranieri portavano con sé una dote negata a ogni talentuoso italiano: il mistero. Perché il ragionamento di fondo, a ogni nuovo ingaggio, era sempre lo stesso: se mister “Nobody” è arrivato in Italia, una ragione ci dev’essere per forza. Il motivo poggiava sulle relazioni dirette intrattenute dai presidenti, che amavano fidarsi soprattutto dei loro ex calciatori. Mancando ancora le figure degli odierni intermediari, le traiettorie dei calciatori seguivano rotte frenetiche e imprevedibili. Nessuno approdava alle nuove destinazioni senza una potente grancassa di clamore. Tutti fenomeni, all’arrivo. Pochi, in verità, lo rimanevano al momento del congedo. È in questo scenario esterofilo che un italiano, non per colpa sua, di nome Gino Pivatelli si presenta all’attenzione del Bologna nel 1953. Ha vent’anni compiuti e la carta d’identità lo segnala nativo di Sanguinetto, quattromila anime sistemate quaranta chilometri a sud di Verona, così chiamata forse per le sanguinose battaglie che animavano la conquista del territorio, strategicamente decisivo dai tempi di Odoacre fino al generale Radetzky. Figlio unico di ortolani, non ricchi, ma nemmeno indigenti, il bolognese adottivo Pivatelli confermerà che la sua è stata un’infanzia felice: «I miei genitori vivevano per me e ho anche vissuto con degli zii che forse erano attaccati a me ancor più dei genitori. Ero il coccolo di casa». Chissà se fu proprio questo attaccamento a trasformarsi in indulgenza, e poi in piena approvazione, quando Pivatelli a fine anni Quaranta mosse i primi passi da calciatore dilettante: la prima squadra in cui trovò spazio era stato il Cerea piccola ma tenace formazione del paesino omonimo con una storia sportiva antica, risalente al 1912; Gino copriva in bicicletta i cinque chilometri che separavano casa sua dal campo di gioco, su una statale che corre virtualmente parallela a nord del Po, a due passi da tutto, dall’Emilia-Romagna e dalla Lombardia, le due regioni del destino del futuro attaccante. Scortato da tre quattro amici fidati (tutti muniti di due ruote, condizione indispensabile per arrivare a Cerea con qualche energia da spendere ancora sul campo) Pivatelli aveva preso l’abitudine a questa vita un po’ vagabonda, già colma di speranze. Qualche segugio del posto lo segnalò all’Inter, ma fu il Verona a prenderlo, per intuito e per vicinanza geografica. Non che il fatto di esser veronese fosse l’unica credenziale d’accesso: in gialloblù arrivò infatti solo dopo aver superato cinque provini. Era magro, del resto, con un fisico immaturo. Solo a diciassette anni, nel 1950, la natura si ricordò di finire il suo compito e alzò Pivatelli di dieci centimetri, tutti in un anno. Il debutto arrivò in serie B nel ruolo di mezzala. L’altra era Ugo Pozzan, il cervello di quella squadra. «Quando aveva la palla lui, io andavo e sapevo che sarebbe arrivata. Per me era un fratello», di calcio e quasi di sangue, spiegava Pivatelli, che con il suo calciatore gemello, veronese pure lui, avrebbe condiviso cinque anni a Bologna. «Un ragazzo splendido», sottolineava, e sfortunato. Pozzan morì di leucemia nel 1973, a soli 44 anni, mentre allenava il Pisa. Venticinque gol in 68 partite certificarono che per Pivatelli cinque provini furono un eccesso di scrupolo. L’età era dalla sua parte, ma il ruolo non era ancora quello giusto. Fu il Bologna a trasformarlo in un vero attaccante. Un centravanti. Fino all’arrivo in rossoblù, Pivatelli aveva visto giocare in quel ruolo Caldana, detto il “Nordahl del Garda” e Sega, il miglior marcatore del Verona di tutti i tempi. È Gipo Viani, l’allenatore del Bologna, a mandare subito in rete Pivatelli alla prima di campionato il 13 settembre 1953. Ma sarà Aldo Campatelli ad affinarne le doti di centravanti puro. Nella stagione 1955-56, già con due annate da 11 e 17 gol, Pivatelli conquista il titolo di capocannoniere. In un solo anno segna 29 reti, più delle due stagioni precedenti messe assieme. Un bottino fuori dall’ordinario, e non solo perché il Bologna in quell’anno è ancora penultimo alla fine del girone d’andata. Pivatelli infatti è l’intruso italiano in mezzo ai campioni che arrivano a frotte dal Nord Europa e dal Sudamerica: sono Nordahl, Hansen, Charles, Sivori e Angelillo. Nessun altro italiano, negli anni Cinquanta, riuscirà a vincere la classifica marcatori. Pivatelli non farà mai il bis, ma fino al 1960 – l’anno in cui, a sorpresa, passa dal Bologna al Napoli – manterrà sempre la doppia cifra. Perché Pivatelli lasciò all’improvviso la squadra e la città che l’avevano adottato per cercare fortuna a Napoli? Non fu una sua idea, ma un accordo tra imprenditori eccitati dalla possibilità di mettere alla prova i propri gioielli. Achille Lauro, l’armatore, credeva che il ventottenne Luís Vinício avesse già dato il meglio. Lo stesso pensò Renato Dall’Ara del ventisettenne Pivatelli. Lo scambio alla fine giovò solo al Bologna. Vinicio concluse due buone stagioni con 11 e 6 reti (farà ancora meglio a Vicenza: 61 gol in quattro anni); Pivatelli, con tre gol in diciotto apparizioni, sembrava invece l’ombra di sé stesso. A riscattarlo fu il Milan di Nereo Rocco, che intravide nella parabola calante del centravanti gli ultimi sprazzi di buon calcio. Con “El Paròn”, Pivatelli arretrò gradualmente la sua posizione, finendo per ricoprire occasionalmente persino il ruolo di difensore centrale. Il suo compito era soprattutto quello di far segnare i compagni di squadra, da Altafini a Barison. Da gregario di lusso, vinse i primi trofei della sua carriera: lo scudetto nel 1962 e la Coppa dei Campioni del 1963. Su questi trionfi il giornalista del “The Guardian” Jonathan Wilson ha costruito una tesi affascinante, che sposa tattica e storia. L’idea di fondo è che Gino Pivatelli, pur nel suo ruolo di riserva, abbia cambiato per sempre il destino del Milan e del calcio italiano. Tesi singolare, trattandosi del quarto bomber di sempre del Bologna (105 gol dietro Schiavio, Reguzzoni e Pascutti). Tutto partirebbe da un fallo tattico di Pivatelli nella finale di Coppa dei Campioni del 1963. Il Milan sfidava il Benfica “maledetto” da Béla Guttmann, il tecnico che l’anno prima aveva divorziato dai portoghesi annunciando che non avrebbero mai più vinto una Coppa dei Campioni. Cosa realmente accaduta. Pivatelli, com’era ormai abitudine, non fu mandato in campo per segnare, ma con lo scopo preciso di fermare il regista Coluna. Un atteggiamento catenacciaro che avrebbe fatto scuola. La sua missione fu così ben interpretata che il portoghese stramazzò al suolo lanciato a rete, rimediando persino la rottura di un osso del piede. Dopo quel fallaccio, non sanzionato, il Milan trovò il gol del 2-1 e vinse la Coppa. «Nereo Rocco», scrive Wilson, «ha giocato con il catenaccio ed è stata questa mentalità che lo ha portato a scegliere il trentenne Pivatelli anziché Paolo Barison, che aveva segnato sei gol nella sua corsa verso la finale. Il lavoro di Pivatelli è stato quello di segare il regista Mário Coluna». Battere lo squadrone di Eusebio fu l’ultima gioia della carriera di Pivatelli, additato come simbolo della fine dell’età dell’innocenza del calcio italiano, votato da lì in avanti al pragmatismo difensivo, come avrebbe insegnato l’Inter, campione d’Europa l’anno successivo. Il paradosso di certo suggestiona le menti più fantasiose. Ma un’altra coincidenza ha segnato la carriera del Pivatelli allenatore, indicandolo come responsabile inconsapevole di una seconda rivoluzione calcistica. Nel 1964-65, da tecnico del Baracca Lugo, l’ex centravanti bocciò un terzino diciottenne, ritenuto non all’altezza del ruolo. Quel terzino era Arrigo Sacchi. «È in quel momento», avrebbe raccontato il futuro commissario tecnico, «che cominciai a pensare di diventare allenatore». Pivatelli non lo sapeva, ma anche in quel caso stava scrivendo la storia del Milan e del calcio italiano.