Il presidente eterno
Renato Dall’Ara (1892-1964)
Commissario straordinario, presidente e proprietario dal 1934 al 1964
Trent’anni di presidenza, ventuno allenatori a libro paga, quattro scudetti, due Coppa dell’Europa Centrale, il Trofeo dell’Esposizione di Parigi. Ammesso e non concesso che un presidente possa raggiungere i suoi anni di regno, è da escludere che riesca a vincere altrettanto. Renato Dall’Ara è e resterà “il” presidente del Bologna, non a caso eponimo dello stadio Comunale a partire dal 1984, un anno che tenne insieme, sotto un’unica ricorrenza, i cinquant’anni della sua investitura, i venti della morte e i venti dell’ultimo scudetto rossoblù. Alla guida del Bologna arrivò quasi per caso: nel 1934 il demiurgo del calcio bolognese, Leandro Arpinati, era caduto in disgrazia agli occhi del regime, e siccome il Bologna e soprattutto lo stadio erano considerate sue creature, si ritenne opportuno ribaltare anche le gerarchie societarie. Sciolta la cassaforte del club e allontanato il presidente filo-Arpinati Gianni Bonaveri, la macchina fascista cercò un commissario straordinario in attesa di sistemare questo importante capitolo di vita pubblica cittadina. La scelta cadde su sul quarantaduenne reggiano Renato Dall’Ara, facoltoso industriale della maglieria, con interessi anche nel campo dell’industria alberghiera, nella cosmetica e nell’immobiliare. La succinta biografia che l’accompagna dice che si fece tutto da solo. Poco più che ventenne decise di investire i risparmi della vita militare trascorsa a Bologna in un piccolo commercio di tessuti. L’affare funzionò e poco a poco diventò il volano di un grande impero. Il calcio però non era mai entrato nei suoi interessi economici, nemmeno a titolo personale. Per non indispettire il regime, Dall’Ara accettò l’incarico a condizione che fosse temporaneo e non vincolante per i suoi affari. Destino volle però che al primo affaccio in quest’impresa, potenzialmente piena di insidie, il Bologna vincesse subito un trofeo, la Coppa dell’Europa Centrale del 1934. Il successo immediato dovette far breccia sull’animo di Dall’Ara, che in breve s’appassionò alla nuova creatura, sentendola sempre più sua man mano che crescevano le difficoltà. Quasi senz’accorgersene entrò nella gloriosa epoca dello “squadrone che tremare il mondo fa”, quei sei anni meravigliosi in cui al Bologna riusciva più facile vincere che arrivare secondo. Merito soprattutto di alcune brillanti intuizioni di Dall’Ara, come quella di rivolgere i radar del calciomercato al Sudamerica, terra di conquista per talentuosi oriundi come Andreolo, Fedullo e Sansone, tutti accomunati da rapporti di odio-amore con il loro presidente, tiranno durante le trattative contrattuali, munifico quando c’era da premiare qualcuno o qualcosa. Era il fiuto a guidarlo sempre nelle sue avventure. Capì subito, per esempio, che dopo il 25 aprile non poteva più restare in sella alla società a causa del “peccato originale” della sua investitura in odor di regime. Convocò quindi un’assemblea dei soci al Cinema Modernissimo, rassegnando le dimissioni. Non si sa quanto in cuor sperasse di vedersele respinte. Fatto sta che accadde proprio questo. I soci della rifondazione rossoblù gli affidarono di nuovo piene deleghe e così, nel momento peggiore della storia del club, senza nemmeno una sede in cui sistemare i libri contabili (ci pensò Angelo Schiavio a fornire un ricovero temporaneo negli spazi della sua bottega), Renato Dall’Ara inaugurò la seconda fase della sua presidenza eterna. Furono anni difficili, segnati dallo strapotere del Torino, il Grande Torino di Gabetto e Mazzola, e dal crollo delle quotazioni del Bologna. In una frenetica e bulimica alternanza di allenatori (cinque dal 1945 al 1947, addirittura quattro nella sola stagione 1951-52) trascorsero stagioni perlopiù grigiastre, spesso segnate dall’incubo retrocessione. Dall’Ara conobbe suo malgrado il significato della parola contestazione, che ai suoi occhi faceva rima con irriconoscenza. Cominciò a esser tacciato di tirchieria (leggendarie erano le anticamere cui costringeva i giocatori prima della firma del contratto) ma chi lo frequentava sapeva bene che il suo spirito era animato solo dall’ossessione di non sprecare denaro. Non si spiegherebbero altrimenti certi slanci in sede di calciomercato, quando s’inaugurò la grande stagione delle trattative milanesi nei salotti buoni della finanza italiana, e certi clamorosi niet di fronte a offerte irrinunciabili per i gioielli di famiglia. Già negli anni Trenta diventò famoso per aver falsificato il contratto di vendita di Andreolo al Milan, aggiungendo una postilla che impegnava i rossoneri a cedere il forte mediano uruguaiano dopo appena un anno, un diritto di recompra inesistente, e mai sottoscritto dalle parti, che tuttavia provocò l’annullamento dell’accordo e persino una multa di 5.000 lire all’incolpevole Andreolo. L’altro lato della medaglia, forse la pagina più discutibile della sua lunga carriera, fu il trattamento riservato ad Árpád Weisz nel 1938 dopo la promulgazione delle leggi razziali che di fatto avrebbero impedito al tecnico ebreo-ungherese di allenare ancora a Bologna. Quando questi si presentò in sede per riscuotere la buonuscita, Dall’Ara gli strappò uno sconto di 1.500 lire sull’ultima busta paga, poiché il rapporto di lavoro s’era interrotto a metà ottobre, non certo per colpa dell’allenatore. Tolta questa evidente caduta di stile, che persino il mite Árpád Weisz non perdonò mai («lo sconto di 1.500 da uno che va incontro con la famiglia alle incognite!»), Dall’Ara profuse sempre il massimo impegno per cercare di riformare la squadra dei suoi sogni. Dal 1941, data dell’ultimo scudetto, fino al 1961, anno in cui fu ingaggiato Fulvio Bernardini, passarono esattamente vent’anni di purgatorio. Al tecnico romano servirono solo due stagioni per prendere le misure del gruppo e aggiungervi il tassello mancante, il portiere William Negri, che andò a colmare le palesi lacune difensive della squadra. Il tocco di genio l’aveva invece avuto Dall’Ara, caldeggiando l’acquisto di Helmut Haller, giovane fantasista tedesco avvistato in televisione durante un’amichevole tra Germania Ovest e Cile. Il presidentissimo, già settantenne e malato di cuore, si prese lo scrupolo di andare personalmente ad Augusta per fargli firmare il contratto. Nel viaggio di ritorno, la Mercedes su cui viaggiava uscì di strada, ma Dall’Ara quasi non se ne accorse, tanto era sovreccitato dalla firma di Haller, che già sapeva di scudetto. Arrivarci, però, fu più dura del previsto. L’anno cominciò in sordina, con due pareggi deludenti che fecero mugugnare la tifoseria. Poi nove vittorie consecutive da novembre a febbraio issarono il Bologna al primo posto con l’Inter, inaugurando un testa a testa che si protrasse fino all’ultima giornata, passando per i mesi infernali di primavera, quando giocatori, allenatore e società furono accusati di doping sportivo e penalizzati in classifica con effetto immediato. C’è chi giura che il cuore di Dall’Ara si sia arreso in quel momento, e che abbia continuato a battere per inerzia ancora per qualche settimana. Il resto della storia è trascolorato nella leggenda. Quando il verdetto del campo, annullata la penalità per l’evidente infondatezza di quelle accuse, stabilì che fosse necessario lo spareggio con l’Inter, Dall’Ara si recò a Milano per concordare i premi partita con il collega nerazzurro Angelo Moratti. Il medico del presidente rossoblù gli aveva sconsigliato quell’inutile stress: «Mandi su qualcun altro al posto suo». Ma Dall’Ara, in fatto di soldi, non voleva delegare nessuno. La lite furibonda sull’importo dei premi stroncò le ultime resistenze del suo cuore. Era il 3 giugno 1964, quattro giorni prima della partita della vita all’Olimpico di Roma. Alla notizia della morte del loro presidente, i giocatori si trovavano in ritiro a Fregene, sul litorale romano, una scelta controcorrente di quello stratega di Bernardini, che voleva abituare la squadra al caldo dell’Olimpico. Così, ai funerali di Dall’Ara, in rappresentanza dei rossoblù andò il solo Ezio Pascutti, che era rimasto a Bologna per un infortunio. In campo, il 7 giugno 1964, non ci fu partita. Il 2-0 sull’Inter diventò la dedica al presidente che per una vita aveva inseguito il sogno di tornare a vincere e che era quasi riuscito ad avverarlo. Da quel momento, come se fosse stato raggiunto il crinale di una montagna che separava a sinistra il versante glorioso del passato, e a destra l’incerto avvenire, cominciò il lento declino di una squadra orfana del suo padre-creatore. Anche la società seguì inesorabilmente la stessa inerzia, passando prima nelle mani dell’industriale farmaceutico Goldoni e poi in quelle di Venturi, che quasi stava per cedere la bandiera Bulgarelli al Milan, se non fosse intervenuto Edmondo Fabbri a dissuaderlo. Un altro mondo, rispetto a quello di Dall’Ara. Se ne ebbe conferma pochi anni dopo, nel 1975, l’anno in cui Beppe Savoldi fu ceduto al Napoli per lo spropositato controvalore di due miliardi di lire. «Sarebbe stato da folli dire di no», si giustificò il presidente Luciano Conti. Chissà cosa ne avrebbe detto Dall’Ara.