Il sopravvissuto
Mario (Rino) Pagotto (1911-1992)
Al Bologna dal 1936 al 1946; 245 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 1-11-1936, Genoa-Bologna 0-1
Aveva imparato sin da giovane a fare a pugni con la vita. Nato a Fontanafredda, in provincia di Pordenone, Rino Pagotto, per tutti Mario, era uno di quei friulani di proverbiale saldezza caratteriale, sempre duri da abbattere, anche nelle circostanze più crudeli. Se in campo fu un terzino roccioso, dalla forza fisica straordinaria, fondamentale nella conquista di tre scudetti in cinque anni dal 1936 al 1941, nella vita extra calcistica si guadagnò una fama ancor più splendente. La sua storia di sopravvivenza si mischia alle migliaia avventure di reduci della Seconda guerra mondiale. Ma pochi, a differenza sua, possono raccontare altrettante peregrinazioni da un campo di prigionia all’altro, prima tedesco e poi russo. Tutto cominciò il 16 ottobre 1942, quando a 31 anni fu arruolato negli alpini. Gli fu consentito di giocare il campionato successivo, l’ultimo prima della sospensione. L’8 settembre 1943 la notizia dell’armistizio lo sorprese a Vipiteno. Da alleato dei tedeschi, Pagotto si ritrovò loro nemico. Per questo fu condotto prigioniero a tappe forzate per sessanta chilometri fino a Innsbruck e da lì, buttato su un vagone merci, in treno fino a Hohenstein. Sarà stata la notizia della nascita del figlio Piero, la robustezza fisica dell’atleta o semplicemente la forza di volontà a non piegare Pagotto nella tappa successiva, la più lunga e faticosa, 1.300 chilometri a est fino al campo di Białystok in Polonia. Qui il terzino del Bologna fu salvato da un colono tedesco che lo prese a lavorare nella sua fattoria vicino al campo di concentramento, in cambio di un po’ di cibo. Nemmeno l’arrivo dei russi servì a far finire quell’incubo. Pagotto e compagni furono di nuovo catturati e ricondotti a Białystok: il campo di concentramento aveva semplicemente cambiato bandiera. La nuova destinazione portava ora a Odessa, 1.200 chilometri più a sud, sul Mar Nero. Come in una moderna Odissea, ogni nuova tappa riservava pericoli inediti. Il problema non era più la prigionia, ma la via di fuga. Liberi di tornarsene a casa, i soldati italiani non potevano però affrontare il mare, pieno di insidie e di navi da guerra. Scelsero la strada più lunga, attraverso i territori ucraini appena liberati dal fuoco tedesco. Il loro pellegrinaggio, tra innumerevoli privazioni, strade dissestate e convogli ferroviari singhiozzanti, li portò a Cernăuti, a pochi chilometri dal confine con la Romania. Un vicolo cieco, perché da lì non esisteva un modo sicuro per attraversare l’Europa centrale puntando a sud. Ingannarono così l’attesa ripristinando le antiche passioni. Belgi, greci, olandesi e italiani si davano appuntamento allo stadio Maccabi e improvvisavano partite con i pochi mezzi a disposizione. La leggenda dei Cernăuti, imbattibili contro ogni squadra che s’arrischiava a sfidarli, travalicò i confini della regione e riportò per qualche settimana un raggio di speranza in un territorio che tra il 1939 e il 1941 era stato teatro di enormi massacri da parte dell’esercito russo, impegnato ad occupare brutalmente quella porzione tra Romania e Ucraina a seguito del patto Molotov-Ribbentrop. Impossibilitati a proseguire a sud-est, virarono allora a nord, fino in Bielorussia, dove si tolsero nuove soddisfazioni sportive (arrivando a battere 6-2 la formazione dell’Armata Rossa) che compensavano apparentemente le privazioni materiali. Dopo oltre 4.000 chilometri percorsi a piedi, in treno o a bordo di scalcagnati convogli, “quelli di Cernăuti” salirono sul vagone giusto, che li riportò a casa dopo oltre due anni. Il 18 ottobre 1945, cinque mesi dopo la fine della Guerra, Pagotto bussava alla porta di casa. Era arrivato a pesare trenta chili in meno rispetto alla partenza. Il figlio Piero, al momento del suo ritorno, era ancora uno sconosciuto. Un mese dopo, il 18 novembre, Pagotto era già in campo con Biavati e molti dei suoi ex compagni, dimagrito e per certi versi irriconoscibile, ma finalmente al suo posto. Trovò la forza di completare il campionato Alta Italia del 1945-46, così chiamato perché in quell’Italia dissestata era impossibile garantire i collegamenti tra Nord e Sud, e di giocare anche l’inizio del torneo successivo, arrivando a vincere la Coppa Alta Italia, il torneo di consolazione per chi non era riuscito a qualificarsi alle fasi finali del campionato vero e proprio. Morì nel 1992, accettando di raccontare la sua storia ai due figli, Piero e Patrizia, che l’hanno poi donata al giornalista Giuliano Musi per farne il libro Pagotto, un calcio anche alla morte.