Il metronomo

Pietro Genovesi (1902-1980)

Al Bologna dal 1919 al 1933; 250 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 12-10-1919, Bologna-Gruppo Sportivo Bolognese 8-0

Il capitano del secondo scudetto. Il secondo rossoblù dopo Emilio Badini a essere chiamato in Nazionale. L’uomo che non usava perifrasi nemmeno con i capi del partito e che non esitò a mordere il portiere genoano De Prà in una mischia in area. Il soprannome che l’ha accompagnato per tutta la carriera, l’affettuoso diminutivo “Piréin”, tradisce la statura di quest’uomo, uno dei perni dello squadrone “che tremare il mondo fa” e che dal primo pallone giocato con il Bologna nel 1919 fino all’ultima panchina da allenatore pro tempore ha trascorso in rossoblù più di ventisette anni non consecutivi. Difficile inquadrarlo tatticamente: ambidestro, disinvolto in tutti i quadranti del campo, abile nel contrasto come nell’impostazione, Genovesi era il metronomo delle ripartenze offensive. Se avanzava, tutti sapevano che occorreva puntare la porta avversaria. Un punto di riferimento, insomma, sia tattico sia morale. La sua schiettezza avrebbe potuto procurargli qualche grosso guaio, come durante l’episodio che lo vide protagonista con Leandro Arpinati, numero uno del fascismo bolognese e massimo dirigente del calcio italiano. Fu Genovesi a chiedergli esplicitamente di esonerare il compagno di squadra Giuseppe Della Valle dal suo incarico di ingegnere presso l’Istituto Case Popolari di Fornovo. Il continuo andirivieni dalla provincia di Parma a Bologna, infatti, aveva cominciato a influire sul rendimento sportivo del bomber rossoblù durante il campionato 1927-28. «Ci rimandi indietro Della Valle se vuole che torniamo su in classifica», disse Piréin al gerarca. E questi lo esaudì. L’anno successivo il Bologna avrebbe vinto il suo secondo scudetto. Perché Genovesi si sentì autorizzato a rivolgere quella irrituale richiesta? Nell’estate 1927 il Bologna s’era vista negata la vittoria a tavolino del titolo nazionale dopo la revoca dello scudetto al Torino. Erano gli strascichi del cosiddetto “Caso Allemandi”, dal nome del terzino della Juventus coinvolto in un episodio di corruzione smascherato da un giornale romano. Da regolamento, la seconda squadra classificata (ovvero il Bologna) avrebbe avuto pieno diritto all’assegnazione del titolo. Ma il presidente della Federazione, che era proprio Leandro Arpinati, non se la sentì di procedere, temendo di attirarsi accuse di favoritismo nei confronti della squadra della sua città. A Genovesi questo atteggiamento salomonico non era andato giù. E glielo aveva fatto sapere senza reticenze. Da quel momento, Arpinati si considerò sempre in debito con Genovesi e forse anche con il Bologna («So bene», diceva il gerarca, «che il nostro Piréin va dicendo che sono nemico del Bologna…»). Il ritorno nei ranghi rossoblù di Giuseppe Della Valle fu dunque una sorta di risarcimento morale. Genovesi, quasi un allenatore in campo, s’era accorto che senza di lui le cose non funzionavano più. Lo ammise a sé stesso, prima che in pubblico, perché in realtà con Della Valle i rapporti erano bruciati da tempo. Uno screzio insanabile – nessuno scoprì le cause – aveva portato i due giocatori a non parlarsi più. In campo però queste ruggini non dovevano entrare. Questo fu uno dei segreti delle vittorie rossoblù nella seconda metà degli anni Venti. La carriera del Genovesi calciatore s’interruppe nel 1933, dopo 250 partite in campionato e 35 reti. Fu però richiamato prestissimo agli ordini, dopo che il preoccupante avvio di campionato 1933-34 (4 k.o. in 11 gare) aveva convinto il presidente Gianni Bonaveri a esonerare Achille Gama, ex calciatore ed ex arbitro. A tamponare la falla fu chiamato un insolito triumvirato costituito da Angelo Schiavio, leader del gruppo, Bernardo Perin (ex mezzala rossoblù) e appunto Pietro Genovesi, ancora fresco dell’esperienza del campo. I tre ressero le sorti dalla dodicesima alla diciottesima giornata, con tre pareggi, due vittorie e una sconfitta. Non abbastanza, insomma, per giustificare il rinnovo dell’esperimento. A Genovesi, che restò sempre in orbita Bologna come consigliere di Renato Dall’Ara, toccò poi riprendere le redini rossoblù nel gennaio 1946 assieme all’eterno Angelo Schiavio, subentrando ad Alexander Popovic. Anche quella fu una soluzione tampone, prima dell’arrivo di József Viola. L’ultima apparizione negli organigrammi rossoblù risale invece al 1949, questa volta nei panni di direttore tecnico nel Bologna guidato dall’inglese Edmund Crawford, un bizzarro allenatore che amava esercitare il tocco dei suoi giocatori con le palline da tennis. È sepolto alla Certosa a Bologna, dove morì nel 1980. La sua lapide è nel Campo Nuovo, sul muro esterno affacciato a est, al loculo 447.