L’avventuriero
Filippo (Felipe) Pascucci (1907-1966)
Preparatore atletico e osservatore del Bologna FC.
Quando si presentò a Bologna nel 1934 era un giovane disoccupato, ma già con un passato sfolgorante alle spalle. Carriera fulminante e schizofrenica, quella del genovese Filippo Pascucci (poi diventato Felipe una volta emigrato in Argentina) adatta a rafforzare il detto secondo cui “i peruviani discendono dagli Inca, i messicani dagli Aztechi e gli argentini dalle navi”. Lui da una nave era sceso veramente, dopo aver lasciato la madre e la sorella in Italia per cercare fortuna in Sudamerica. La cercò e la trovò allenando i dilettanti dell’Estudiantil Porteño, dove si fece notare per l’ottima organizzazione tattica e un fiuto per la valorizzazione dei talenti. Passando poi allo Sportivo Barracas e al glorioso River Plate, si consacrò definitivamente. Era il 1933 e il calcio argentino stava conoscendo da poco tempo l’istituzione del professionismo. Ernesto Malbec, dirigente della federazione calcistica, lo suggerì per guidare la Nazionale in vista dei campionati del Mondo in Italia del 1934. Pascucci accettò di slancio: a 27 anni era il più giovane commissario tecnico di sempre. La Federazione però non gli aveva detto che in Italia sarebbero andati solo calciatori dilettanti e alcuni elementi di spicco dei tornei regionali, poiché i grandi club temevano che i loro migliori giocatori non sarebbero mai rientrati in Argentina, attratti dalla ben più ricca concorrenza del calcio europeo, che prometteva soldi e passaporti facili. «Se speriamo nel successo? Molto, non lo nascondiamo. La squadra argentina sarà la sorpresa del campionato» si sbilanciò coi giornali, appena sbarcato in Italia, celando in realtà ben altri pensieri. Pascucci resse il gioco della Federazione, godendo dei primi privilegi dell’esser tornato in patria: visitò la madre a Genova, passò da Parma a trovare la fidanzata e infine si sistemò all’Hotel Baglioni a Bologna in attesa della prima sfida contro la Svezia. Per i dilettanti argentini non era stato organizzato nulla, nemmeno il trasporto allo stadio. Il giorno della partita arrivarono al Littoriale in tram e non si fecero sfuggire l’occasione di salutare le famiglie via radio, come se non si preoccupassero affatto di sembrare un’armata Brancaleone in vacanza premio. Pascucci, invece, via radio dovette ammettere che effettivamente qualcosa non aveva funzionato nella macchina organizzativa. Un giornalista di “El Gráfico” ingigantì quello sfogo e lo trasformò in un’accusa plateale alla Federazione, rea di non aver assecondato le ambizioni del commissario tecnico. Come in tutte le tragedie, in campo le cose cominciarono bene e finirono malissimo: Argentina in vantaggio, pareggio della Svezia, nuovo vantaggio argentino con Galateo, alla sua prima e ultima apparizione in Nazionale, e poi rimonta svedese nella ripresa per il 3-2 finale. E siccome l’eliminazione era diretta, per l’Albiceleste l’avventura finiva lì. A Pascucci non rimaneva che scegliere tra la probabile gogna che lo avrebbe atteso in Argentina, dove s’era fatto nemici sia i dirigenti sia i tifosi, o la speranza di un nuovo lavoro in Italia. Optò per la seconda strada, a costo di ricominciare da zero. Sui giornali provò a vendersi come «istruttore in cerca di sistemazione» e ovviamente come ex commissario tecnico di una nazionale. Il curriculum c’era tutto, ma la concorrenza dei tecnici stranieri non mancava. Alla fine trovò un ingaggio proprio a Bologna, prima come allenatore degli Allievi e poi come osservatore e responsabile atletico nella squadra di Árpád Weisz, uno dei primi allenatori a considerare necessaria la figura specifica del preparatore. Da commissario tecnico di una nazionale a sovrintendente della salute dei polpacci dei calciatori: una parabola anomala, che avrebbe potuto spezzare l’ego di chiunque, ma non il suo. Pascucci era abituato alle sfide, a vincere tutto e a perderlo subito dopo. Anche per questo, tornato nella sua Liguria, riprese la carriera di allenatore, arrivando al ruolo di vice nel Genoa. Nel dopoguerra si segnalò anche per una malriuscita incursione nel campionato francese all’Olympique d’Antibes, dove nel 1947 s’era presentato, a leggere il resoconto del «Nice Matin» con “impressionante reputazione”, presto infangata da basse questioni di soldi: «Erano stati presi degli accordi», si legge dalle cronache nizzarde, «secondo i quali doveva essergli versata, al momento della firma, una somma forfettaria di 60.000 lire, più 20.000 lire ogni mese. Dopo qualche giorno Pascucci prende come scusa un viaggio in Italia… e se ne va a Marsiglia, da dove le sue pretese subiscono un sensibile aumento. Per rientrare all’ovile richiede un premio di 150.000 lire più 30.000 franchi al mese. I dirigenti dell’Antibes non hanno ceduto e Pascucci non rimetterà più piede ad Antibes». Ma lo farà a pochi chilometri di distanza, tornando per la terza volta in carriera alla Sanremese e da lì tentando l’ultima tappa della sua bizzarra carriera: istruttore atletico di pallanuoto alla Pro Recco. Chissà quanti altri progetti, i più disparati, avrebbe avuto in animo di intraprendere Pascucci. Lo fermò un infarto a 59 anni, mentre rientrava in aereo da una trasferta a Zagabria.