L’ala che fece volare i rossoblù
Marino Perani (1939-2017)
Al Bologna dal 1957 al 1974; 415 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 21-9-1958, Bari-Bologna 0-0
Ala destra pura, senza compromessi tattici. Il piccolo Marino non poteva che giocare sulla fascia, con quella corsa da militare a baionetta puntata e il dribbling secco. Lo sfornò l’inesauribile vivaio dell’Atalanta, da sempre specializzato nella produzione di tornanti tutto pepe. Nel 1957 Renato Dall’Ara spese per lui, non ancora diciottenne, 80 milioni, 23 in più del rosso di bilancio che aveva dovuto registrare cinque anni prima, quando inaugurò una politica di austerity di tanto in tanto interrotta in casi eccezionali, come fu appunto quello di Perani. Nessuno però ebbe fretta di accelerarne la crescita. Dopo il discreto campionato 1958-59, si decise di fargli provare un tirocinio al Padova, piazza meno ambiziosa governata però da un maestro di calcio come Nereo Rocco. Intuizione giusta, perché l’ancor giovane Marino tornò alla casa madre rafforzato nel fisico e pure nei nervi. Nel 1960-61 triplicò il numero di gol (10), l’anno dopo, con Bernardini, quadruplicò, anche se i rapporti con il dottore non furono mai disinvolti. «Diceva che io andavo bene per le partite interne, e Renna per quelle fuori casa», si lamentava Perani, mal sopportando quell’alternanza. Poi, nell’anno dello scudetto, le gerarchie si sistemarono definitivamente a favore di Marino, titolare indiscusso soprattutto con l’arrivo in panchina di Luis Carniglia, che amava i piedi buoni e li ricompensava con ampia libertà di movimenti, dentro e fuori dal campo. Perani coprì tre decadi di storia rossoblù, chiudendo nel 1974 a quota 415 partite ufficiali, quinto di sempre nella storia del Bologna dopo Bulgarelli, Roversi, Nervo e Reguzzoni. Conobbe la Nazionale grazie a Edmondo Fabbri, che stravedeva per i giocatori del Bologna, ma disgraziatamente fu convocato solo nel 1966 un mese prima dei disastrosi mondiali in Inghilterra. Dopo l’onta coreana, fu esiliato per sempre dal giro azzurro. La vittoria della Coppa Italia del 1974 gli sembrò il momento giusto per salutare la vita agonistica. Due anni dopo era già iscritto al corso di Coverciano per allenatori. Il fiuto per i talenti non gli mancava. Alla guida del settore giovanile del Bologna, fece un provino a Roberto Mancini. «Basta, basta, non lo voglio più vedere», disse dopo pochi minuti, facendo preoccupare il dirigente dello Jesi che lo aveva accompagnato. «Vestiti e vai subito a firmare il contratto in sede». Così per 700.000 lire il Bologna si garantì il futuro campione. Non altrettanto brillante fu la carriera da allenatore in prima. All’inizio del 1979 Luciano Conti lo volle in sella al posto di Pesaola, con la speranza di inaugurare un nuovo ciclo, ma i risultati disastrosi (4 sconfitte e 3 pareggi) uniti a un brusco ribaltamento delle gerarchie a scapito della vecchia guardia, portarono il presidente a tornare sui suoi passi. A sorpresa il nuovo timoniere del Bologna, Tommaso Fabbretti, decise di riprovare ancora Perani, affidandogli la squadra già dall’estate 1979. Fu l’anno nero delle scommesse e delle squalifiche. Arrivò la salvezza ma non la voglia di continuare. Ventitré anni in rossoblù tra campo e panchina potevano bastare.