Una vita per il Bologna
Cesarino Cervellati (1930-2018)
Al Bologna dal 1948 al 1962; 320 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 21-11-1948, Lazio-Bologna 8-2
Il suo battesimo di fuoco si trasformò subito in un mezzo trauma: a diciott’anni Cesarino Cervellati esordì in una delle peggiori sconfitte della storia rossoblù (Lazio-Bologna 8-2). Chissà se quel marchio indelebile, datato 21 novembre 1948, gli suggerì di votarsi anima e corpo alla causa della sua squadra, come a voler tener fede a un voto, o espiare una colpa più grande di lui. Da quel giorno, e fino al 1983, il baricellese Cervellati non si staccò mai dal destino del Bologna, partecipando alla vita del club in tutti i ruoli possibili: ala, centravanti, allenatore, viceallenatore, tecnico delle giovanili. Trentacinque anni di servizio, sempre con un pensiero fisso: rispondere sì e difendere i colori. Un fedelissimo. Ma anche un predestinato. A tredici anni cominciò a lavorare alla Tommasini, un’azienda che vantava una discreta squadra di calcio da dopolavoro. In pochi anni Cesarino si fece un nome. Lo chiamarono persino a Siracusa, e per questo l’azienda tirò fuori 200.000 lire per trattenerlo. Con una cifra dieci volte superiore se lo aggiudicò invece il Bologna di Dall’Ara, con il patto che il ragazzo potesse continuare a lavorare in ditta. La faccia da buono, la cieca abnegazione, il gioco pulito di Cervellati non gli valsero mai l’accondiscendenza plenaria degli addetti ai lavori. Cesarino per molti era l’“aletta”, prima di diventare “Cagaro”, per la sua presunta timidezza in area di rigore (chiuderà comunque la sua carriera agonistica con 88 reti, tutte in maglia rossoblù). Uno come lui avrebbe avuto tutte le carte in regola per figurare nel Bologna dello scudetto. Non gli mancava quasi nulla: aveva dribbling, corsa, impegno, velocità, istinto per il gol. Solo l’anagrafe lo aveva relegato in quella generazione di mezzo, troppo tardi per vivere i fasti dei tardi anni Trenta, troppo presto per accodarsi agli uomini del “Paradiso” di Bernardini. In quattordici stagioni, dal 1948 al 1962, Cervellati poté togliersi solo la soddisfazione di alzare la decaduta Coppa Mitropa, che ben poco aveva del suo fascinoso passato, quando radunava il meglio del calcio mitteleuropeo. Chiusa a 32 anni e in cifra tonda (300 presenze in campionato) la carriera agonistica, Cervellati passò subito dall’altra parte del fiume. Fulvio Bernardini, che lo aveva allenato prima del congedo nel 1961-62, lo volle con sé in panchina come vicario. Fu Cervellati a prendere le redini della squadra nella primavera del 1964, quando Bernardini fu fermato, assieme ad altri cinque giocatori rossoblù, per il caso doping. Nel 1968, a vent’anni esatti dall’esordio, arrivò la prima occasione per guidare da solo. Della squadra campione d’Italia era rimasto ben poco: dopo l’addio di Furlanis, Fogli, Haller e Pascutti, solo Janich e Bulgarelli difendevano ancora le vestigia dei tempi belli. Cervellati provò a reggere l’urto di quel cambio generazionale: partì bene, vincendo con il Varese, ma già contro il Vicenza il gol dell’invelenito ex Paride Tumburus, frettolosamente liquidato dai rossoblù, fece capire che quello non era l’anno buono. Tre sconfitte consecutive contro Torino, Palermo e Inter indussero la società a prendere provvedimenti. Via Cervellati e dentro Pugliese, un sergente di ferro dai modi ruvidi, che riuscì a portare a casa una salvezza stentata. Per l’unico momento della sua vita, Cervellati si lasciò attirare da una squadra diversa dal Bologna, accettando di allenare il Cesena da subentrante. Esperienza breve, nata sotto cattiva stella. Nel 1970 era già di nuovo tra le braccia materne del Bologna, ancora una volta come tecnico delle giovanili. I tempi però erano cambiati troppo in fretta: risultati modesti, allenatori come girandole, pochi punti di riferimento in società e nello spogliatoio. Nel 1971 alla diciottesima giornata, fu richiamato alla guida della prima squadra, paradossalmente in coppia con Oronzo Pugliese. Salvo, ma di stretta misura, il Bologna riuscì comunque ad arrivare undicesimo raddrizzando una china pericolosa. Da quel momento, per Cervellati fu impossibile staccarsi di dosso l’etichetta di salvatore della patria. Un ruolo infido, in realtà, sempre legato a situazioni emergenziali, come quella del campionato 1976-77, quando si trattò di sostituire l’eccentrico Gustavo Giagnoni, l’allenatore in colbacco. Tornato in sella da titolare, non resistette sulla breccia più di una manciata di settimane: nel calcio di allora, però, esonero non significava necessariamente allontanamento. Soprattutto nel caso di Cervellati, ormai uomo di casa tout court. Bruno Pesaola fu chiamato a sostituirlo, ma con il patto che Cesarino gli rimanesse accanto come vice (sai mai che ci sia ancora bisogno…). E infatti nel febbraio 1979 arrivò un’altra chiamata alle armi, stavolta per rimediare al breve e fallimentare interludio di Marino Perani che era subentrato a Pesaola. Ancora una volta, obiettivo centrato e nuovo passo indietro tra le fila dei giovani. Poi arrivò l’ultima chiamata, una missione impossibile, alla quale Cervellati non si negò per puro senso del dovere. Si trattava infatti di salvare il Bologna dalla serie C, e per giunta in un clima surreale, tra un presidente dimissionario e inguaiato con la giustizia, la tifoseria in rivolta, lo spogliatoio sfiduciato. Vinse subito con il Perugia e pareggiò con la Lazio all’Olimpico, dando l’illusione di avere ancora il tocco magico del salvatore; ma poi le quattro sconfitte consecutive prima e dopo Pasqua rigettarono l’ambiente nello sconforto. Il presidente Fabbretti chiamò Giuseppe Brizzi, un ex capo ultras del Verona, a mediare con la curva inferocita in un ruolo a metà tra il prestanome della proprietà e il capitano di ventura. Cervellati restò a governare una nave alla deriva: sconfitto a Catania, il Bologna scivolò all’ultimo posto. Il 5 giugno 1983 arrivò la sentenza che tutti si aspettavano: travolti dai quattro gol della Cremonese, i rossoblù retrocedevano matematicamente in serie C per la prima volta nella loro storia. A metterci la firma il mite e incolpevole Cervellati. All’uomo dei miracoli non era riuscito l’ultimo, quello più difficile.