Fino all’ultima partita
Mario Montesanto (1909-1987)
Al Bologna dal 1930 al 1942; 310 presenze ufficiali.
Esordio in campionato: 28-9-1930, Bologna-Triestina 6-1
Mario Montesanto, sì. Ma pure Andreolo e Corsi. Uno e trino. Uno per tutti. La linea mediana del Bologna “che tremare il mondo fa” era nei fatti un nome unico, da scandire filato: “Montesantoandreolocorsi”. Ma Montesanto fu anche il più longevo dei tre: coprì tutti gli anni Trenta e arrivò a vedere il 1942: dodici anni filati e 280 presenze, con 10 gol, per uno dei mediani più completi che si siano mai visti in rossoblù. Se per Giordano Corsi Renato Dall’Ara aveva fatto follie, arrivando a spendere 80.000 lire, per l’altra metà della coppia aveva scrupolosamente rispettato la sua regola aurea di spendere poco, per poi rivendere a molto. Solo che nel caso di Mario Montesanto non riuscì a mettere in pratica la seconda parte del teorema: s’innamorò così tanto di quel giocatore da lasciarlo al suo posto fino agli sgoccioli della carriera. Fisico possente, senso innato della posizione, personalità, visione di gioco, all’occorrenza tiro implacabile: vederlo in campo galvanizzava tutti, spettatori e compagni. Il classico giocatore che infondeva sicurezza solo con uno sguardo o con un passaggio. Era nato a Venezia l’11 agosto 1909 e in neroverde aveva giocato due anni fino al 1930. Dall’Ara lo acquistò servendosi delle astuzie di mercato di Hermann Felsner, un allenatore così moderno da essere anche direttore sportivo ante litteram. Un’intuizione esatta, quella dell’austriaco, perché Montesanto andò a formare uno snodo fondamentale della squadra che da lì a qualche anno avrebbe dominato la seconda metà degli anni Trenta e i primi anni degli anni Quaranta. Quattro scudetti, il Torneo dell’Esposizione di Parigi e due Coppe dell’Europa Centrale, il bottino di quell’epopea, che Montesanto avrebbe potuto allungare da allenatore, se solo l’avesse sorretto un carattere diverso, più incline al compromesso. E invece, pur amando fare da chioccia ai giovani, non aveva nessuna intenzione di contaminarsi come molti suoi altri colleghi, che per vivacchiare, specie nel dopoguerra, accettavano mansioni da consulenti coi compiti più disparati. Restò tuttavia un fedele spettatore in sordina. Di lui non si parlò più fino al 1953, quando il suo nome riapparve sulle colonne della cronaca per essere stato il testimone di una rapina a mano armata a una filiale della Cassa di Risparmio in via Saragozza, quella in cui lavorava. Parlava poco volentieri del calcio moderno. Ma quando lo fece, le sue parole più che una diagnosi sembrarono una profezia: «Come me la pensano tanti altri ex calciatori che hanno smesso di frequentare gli stadi. Oggi c’è solo la caccia al risultato, con qualsiasi mezzo. E allora le partite sono diventate delle corride inguardabili. Fra l’altro ai tempi miei si giocava e ci si divertiva a giocare. Oggi questo calcio è diventato una sofferenza per tutti. E dunque tanto varrebbe non sprecare più il proprio tempo per vedere squadre che rinunciano al gioco d’attacco. E poi dico: quale attacco? Due punte, tre punte e magari isolate? E non mi si venga a dire che oggi i giocatori sono atleticamente più preparati. Una volta noi si giocava novanta minuti a tutta birra e avevamo fiato per due partite di seguito. Oggi di vero calcio di movimento se ne gioca per non più di cinquanta minuti». Erano ancora gli anni Sessanta, ma l’ombra di quel giudizio sembra allungarsi, profetica, anche sul calcio di oggi.