Due miliardi

Beppe Savoldi (1947-)

Al Bologna dal 1968 al 1980; 317 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 6-10-1968, Lanerossi Vicenza-Bologna 1-0

La pallacanestro nella Alpe Bergamo, vecchia passione di gioventù, gli aveva lasciato in dote un’elevazione straordinaria, che sarebbe diventata la sua cifra tecnica più spiccata, nonostante la sua statura superasse il metro e settantacinque solo grazie ai capelli ricci. Il bergamasco Giuseppe Savoldi era nato a Gorlago in una famiglia di sportivi: la mamma, Gloria Guerini, nel 1946 aveva vinto il primo campionato di pallavolo femminile con la Amatori Bergamo; il fratello minore Gianluigi, scomparso nel 2008, era una discreta mezzala che arrivò a guadagnarsi trenta presenze nella Juventus di Bettega e Causio, con i quali, seppure da prima riserva, vinse pure due scudetti. Giuseppe e Gianluigi, separati da due anni, avevano iniziato la trafila calcistica nelle giovanili dell’Atalanta. Fu l’ex attaccante del Bologna Hector Puricelli, tecnico dei bergamaschi nella stagione 1965-66, a concedere a Savoldi la prima opportunità tra i grandi. Il 1968 fu l’anno della consacrazione, con 12 gol in 27 partite. Il Bologna puntò tutto su di lui: 175 milioni di lire all’Atalanta e il cartellino del tramontante ma ancor affidabile Sergio Clerici. Fu un affare strepitoso. Savoldi, infatti, non era solo un attaccante imprendibile, forte di testa e opportunista nelle deviazioni rapinose, ma aveva anche un fisico d’acciaio: nelle otto stagioni che mise assieme a Bologna, tolta la parentesi di quattro anni al Napoli, saltò complessivamente solo dieci partite. Nel 1973 vinse la classifica cannonieri a pari merito con Rivera e Pulici, dopo aver contribuito a riportare qualche trofeo nella bacheca rossoblù: due Coppe Italia (1969-70 e 1973-74) e la Coppa di Lega Italo-inglese (1970-71). Furono sette stagioni esaltanti sul piano personale, sebbene viziate dai primi palpabili segni di decadenza del Bologna, ormai tagliato fuori dalla lotta per lo scudetto. L’impossibilità di stare al passo delle grandi e la necessità di far quadrare i bilanci furono i motivi che spinsero il presidente Luciano Conti, un self-made man che da semplice elettricista arrivò a fondare un impero nell’elettroilluminazione e nell’editoria, a compiere un passo fatale: vendere Savoldi al Napoli. La trattativa, secondo le cronache dell’epoca, nacque da una boutade del presidente Ferlaino: «Quanto costa Savoldi?». «Due miliardi», rispose Conti sparando volutamente alto per vedere la reazione del collega, che inaspettatamente accettò senza batter ciglio. L’affare fu chiuso a queste condizioni: 1 miliardo e 400 milioni di lire in contanti più i cartellini di Rampanti, Nanni e del cavallo di ritorno Clerici. Vista dalle due angolazioni, la cessione di Savoldi fece indignare tanto i bolognesi quanto i napoletani. I primi, oltre a perdere il loro idolo, avevano già visto in anticipo i chiari di luna di una proprietà economicamente sempre più debole; gli altri contestarono quello spreco di denaro senza precedenti. «Con la metà dei soldi», protestò l’ispettore capo dei netturbini di Napoli, «si pagavano i nostri arretrati e si ripuliva da cima a fondo la città». Savoldi, in tutto questo, aveva scelto la casa sugli Appennini di Gianni Morandi per isolarsi dalle polemiche. A sorpresa, il Bologna seppe farsi forza anche senza il suo goleador (riuscendo persino a battere il Napoli nel girone di ritorno). Savoldi, invece, inaugurò un quadriennio degno delle sue medie gol, pur non portando mai gli azzurri nemmeno ad avvicinarsi al sogno scudetto. L’ultimo campionato all’ombra del Vesuvio, il primo chiuso sotto i dieci gol dopo otto stagioni consecutive in doppia cifra, fu giudicato l’inizio del declino. Ma non era così. Savoldi aveva ancora energie da spendere e lo dimostrò a Bologna, con 11 reti nel campionato 1979-80, quello viziato dalle indagini sul calcioscommesse. L’attaccante bergamasco finì schiacciato dal pugno duro della giustizia sportiva: due anni di squalifica, scontati fino all’ultimo giorno. Rientrò a trentacinque anni compiuti con la maglia dell’Atalanta, ma il fiuto del gol era ormai appannato. A Bologna è ricordato come la definizione moderna di goleador: lo testimoniano i suoi 140 gol, che ne fanno il quarto marcatore assoluto della storia rossoblù, dietro a Schiavio, Reguzzoni e Pascutti. Non contribuisce a questo conteggio il gol non convalidato dall’arbitro Enzo Barbaresco, che in un Ascoli-Bologna del 12 gennaio 1975 non vide la respinta sulla linea del raccattapalle Domenico Citeroni.