L’ala del turbine intelligente

Amedeo Biavati (1915-1979)

Al Bologna dal 1932 al 1948; 277 presenze ufficiali.

Esordio in campionato: 21-5-1933, Bologna-Casale 7-0

Garrincha, Maradona, Ronaldo, Ronaldinho e Cristiano Ronaldo hanno un antenato comune, ed è il bolognese Amedeo Biavati. A lui si deve l’invenzione del “doppio passo”, quell’infallibile tecnica illusionistica che lasciava sul posto l’avversario mentre il pallone gli saettava via sotto il naso. Paternità certificata dal commissario tecnico della Nazionale Vittorio Pozzo, che nel 1938 riconosceva come, nonostante Mumo Orsi accennasse già il «finto passo, seppur abbozzandolo appena», Biavati è stato senza dubbio «l’attaccante che ha portato il passo doppio alla perfezione». Le cose andavano sempre così: «Non c’era niente da fare», annotava Pozzo, «a tutta velocità Medeo eseguiva una specie di saltino per aria, sembrava che volesse passare la palla indietro di tacco. Il difensore rallentava un attimo, Biavati lo saltava toccando la palla con il secondo piede e se ne andava». Trucchi del genere erano all’ordine del giorno nei dodici anni che videro Biavati in rossoblù. Ma la sua abilità stava nel replicarli anche sui grandi palcoscenici internazionali, come accadde ad esempio il 13 maggio 1939, quando durante l’incontro amichevole tra Italia e Inghilterra superò in dribbling il difensore Hapgood e il portiere Woodley infilando in rete a porta vuota. Hapgood, che non era certo famoso per il suo buon carattere, gli fece i complimenti a scena aperta. L’eco del doppio passo ha attraversato le generazioni e scatenato emulatori in ogni serie, tutti alla ricerca della «finta di iniziare il dribbling con il destro, teso e poi trattenuto e richiamato con armoniosa sornioneria quando l’avversario ha pensato ormai al sinistro», come scrisse Gianni Brera, che non si illudeva di saper descrivere alla perfezione questa tecnica, tanto veloce, repentina e naturale era la sua messa in pratica. Ci provarono pure i cinematografi degli anni Trenta, scomponendo e rallentando l’azione per carpire il segreto che aveva contribuito a far vincere l’Italia ai Mondiali del 1938. Biavati era nato il 4 aprile 1915, in una Bologna che da lì a poche settimane cominciò a foderare i suoi monumenti e a oscurare i lampioni dell’illuminazione pubblica per timore di mai avvenuti attacchi aerei. Esordì appena diciottenne il 21 maggio 1933, schierato mezzala contro il Casale. Finì 7-0 e lui ne segnò due, facendo poi il bis la settimana successiva contro il Milan. Quell’esordio dirompente, però, non bastò a garantirgli subito un posto tra gli inamovibili. Il ritorno di Sansone nel 1934 lo obbligò ad accettare un posto al Catania, tirocinio da cui uscì ancor più temprato all’arte del gol (9 reti in 30 partite). Rientrato alla base nel 1936 faticò ancora a ritagliarsi uno spazio, finché la graduale fuoriuscita della concorrenza non gli spianò la strada definitiva nel ruolo di ala destra. Nulla gli fu regalato, ma in compenso Biavati donò al Bologna 60 reti in 245 presenze in campionato fino al 1948, vincendo quattro scudetti. Con la Nazionale, invece, sommò 8 gol in 18 partite, l’ultima delle quali fu l’amichevole giocata a Vienna nel 1947 contro l’Austria, l’unica sua sconfitta in maglia azzurra. Continuò a giocare nelle serie minori fino a 40 anni, in un saliscendi tra Molfetta e Belluno nei doppi panni di allenatore e giocatore. Dall’Ara lo chiamò anche a guidare i giovani del vivaio, ma l’esperienza durò meno del previsto. Gran lavoratore, sempre. Le conseguenze della guerra lo avevano obbligato a non rifiutare mai le occasioni che la gloria passata gli concedeva. Arrivò persino ad allenare in Libia, e quando chiuse definitivamente con il calcio trovò impiego come dipendente comunale con l’incarico di supervisore degli impianti sportivi. Nel 1979, a 64 anni appena compiuti, una malattia di tre mesi se lo portò via. Fu l’unico avversario che non riuscì mai a dribblare.