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Diana, Cheltenham, 1928
Cheltenham non è cambiata. Ci sono ancora gli stessi edifici eleganti in stile Reggenza che ho sempre amato, gli stessi vialoni alberati, gli stessi parchi sconfinati. Sono io a essere cambiata e, quando Simone ferma la macchina nei pressi della mia vecchia casa, mi volto a guardarla.
«Grazie. Ora me la cavo da sola».
Si allunga verso di me e mi stringe la mano. «Faccio una passeggiata al parco per una mezz’ora, poi ti aspetto in auto».
Scendo, chiudo la portiera e mi incammino pian piano verso la casa con una tale fiducia in me stessa che mai avrei immaginato di poter ritrovare. Per qualche istante non faccio niente, mi limito ad assimilare il fatto di essere qui. Poi, di punto in bianco, penso alla sera in cui io e Douglas ci siamo conosciuti. Io avevo diciotto anni. Era una sera di mezz’estate, una di quelle serate miti e perfette. Di quelle che ti fanno struggere con il profumo del caprifoglio e delle rose in piena fioritura e che ti fanno desiderare che la notte non finisca mai. Mio padre aveva dato una festa con amici e vicini, com’era solito fare ogni anno quando mia madre era viva.
Avevo intravisto Douglas ancor prima che lui si accorgesse di me e, per qualche inspiegabile motivo, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Era alto e aveva un’aria da accademico, e di certo non era il tipo da fare battere forte il cuore di una giovane fanciulla. Poi, quando mi sedetti su una panchina in fondo al giardino, lontana dalla calca, lui venne da me e chiese se poteva farmi compagnia. Il suo sorriso era sincero e nella sua voce c’era una particolare espressività quando si presentò e mi domandò come mi chiamavo. Il cuore cominciò davvero a battermi forte, ma riuscii a rispondere e a ricambiare il sorriso. Quando il resto della festa si dissolse sullo sfondo e restammo soltanto noi due, ci trattenemmo a lungo seduti a parlare e a scherzare, e alla fine mi chiese se mi poteva chiamare il giorno successivo. Andai a dormire stringendomi in un abbraccio e sapendo che sarebbe successo qualcosa di speciale. Qualunque cosa avessimo provato entrambi con la medesima intensità quella prima sera, si tramutò ben presto in amore, e io capii che volevo passare il resto della mia vita con quell’uomo dagli occhi ballerini, dietro gli occhiali dall’aria seriosa, che parlavano di una passione segreta.
Il suono delle risate nel parco mi riporta al presente. Busso e attendo. Dopo un lasso di tempo che a me sembra interminabile, sento dei passi e la signora Wilkes apre la porta. Con le sopracciglia inarcate, mormora parole di benvenuto ben poco convinte e mi invita a entrare. Poi mi indica di aspettare in salotto. Mi sento più ansiosa ora che sono dentro casa, ma non posso permettermi di cedere al nervosismo, perciò, invece di sedermi, scivolo davanti alla finestra. Avevo dimenticato quanto fosse diversa la vista da quaggiù. Non riesco a vedere granché rispetto al panorama che ero abituata a contemplare dal piano di sopra, e da quella che un tempo era la mia finestra sul mondo.
Quando entra Douglas, noto che non sta sorridendo, e sembra invecchiato molto.
«Non vuoi sederti, Diana? Tra un attimo la signora Wilkes ci porterà il tè. Dunque…». E adesso mi rivolge un rapido sorriso. «Come stai?».
Sorrido anch’io. «Come ti dicevo nella mia lettera, ho fatto enormi progressi, mi sono ripresa e ho tanta voglia di vedere Annabelle. Il dottor Gilbert è un genio».
Lui annuisce. «Sono estremamente lieto di sentirtelo dire».
«Come sta nostra figlia?», domando con brio.
«Sta bene, ma è piuttosto rischioso, Diana. Ricordi il nostro accordo?». Si è espresso con una flemma oltremodo evidente, e mi chiedo cosa significhi.
«Ma certo, che dovevo restarle lontana», rispondo con la stessa vivacità.
«Esatto».
Sfodero un gran sorriso e continuo ad adottare un tono quasi scanzonato. «Ma ora sto meglio e questo cambia tutto».
Lui socchiude gli occhi e mi sembra a disagio. «No, Diana. Mi dispiace, ma questo non cambia niente».
Sbatto rapidamente le palpebre e cerco di ignorare il primo accenno al fatto che non andrà a finire bene. Non può dire sul serio, giusto? Aspetto, ma non aggiunge altro, così mi sporgo in avanti, come a incoraggiarlo. Alla fine, sono io a parlare.
«Non dire sciocchezze, Douglas. Sono una persona diversa adesso, e naturalmente ho tutto il diritto di vedere la mia bambina». Mi guardo attorno, emozionata. «È qui? Nella lettera te l’avevo detto che avrei voluto vederla».
«Durante la settimana frequenta il college femminile qui a Cheltenham, quindi no, non è qui».
«Ma, Douglas…».
Solleva una mano, e intuisco che sta cercando di nascondere una certa esitazione. «Davvero, è quasi impossibile che tu possa rivedere Annabelle».
La sensazione è quella di aver ricevuto un pugno nello stomaco. «Perché?».
Piega la testa come se mi stesse scrutando, poi riprende a parlare con cautela, scandendo ogni parola. «Lasciami finire. Se ben ricordi, avevamo concordato che una volta passato un certo lasso di tempo le avrei detto che eri morta».
«Non parlarmi così, come se fossi una stupida».
«Diana, pensa che tu sia morta. Gliel’ho detto quattro anni fa. Si è abituata all’idea. L’ha superata». Ora è deciso, risoluto, inflessibile, più simile al Douglas degli ultimi tempi del nostro matrimonio.
Mi palpita il cuore, inorridito e allarmato. Buon Dio, non può parlare sul serio. Non può. Vacillo di fronte alle mostruosità che mi sta dicendo, ma non gli consento di intimidirmi. «Per l’amor del cielo, ero malata quando lo decidemmo».
«Mi spiace, mia cara, ma adesso sta crescendo sana e forte, e temo che se tu tornassi, improvvisamente viva e vegeta, rovineremmo tutto l’ottimo lavoro che abbiamo fatto per lei. La scombussolerebbe troppo dopo tutto questo tempo». La sua voce è dura, non ammette repliche. Ma io voglio ribattere. Eccome. E stringo i pugni.
«Ma Douglas, questa è una pazzia! Sono sua madre. Possiamo farci venire in mente qualcosa da dirle. Che ti sei sbagliato riguardo la mia morte. Che hai ricevuto informazioni errate, o qualcosa del genere. Dev’esserci un modo».
Scuote la testa e parla a bassa voce, come se volesse attenuare la mia rabbia. «Devo davvero insistere perché ci atteniamo ai termini del nostro accordo».
Quando la signora Wilkes ci porta il vassoio con il tè, le sue parole centrano il bersaglio. Sento che sto cominciando a chiudermi in me stessa, così, per evitarlo, mi alzo, raddrizzo la schiena e mi allontano di qualche passo per andare di nuovo a guardare fuori dalla finestra e tenere a bada il respiro. Dopo un momento, mi guardo indietro e vedo che la signora Wilkes versa a entrambi una tazza di tè e poi lascia la stanza.
«Biscotti?», chiede lui mentre solleva il piattino. «Torna a sederti. Questa è la migliore ricetta della signora Wilkes».
«Non me ne frega un accidenti di niente dei suoi stramaledetti biscotti!», esclamo, furiosa, e resto dove sono. «Voglio vedere Annabelle».
Rimette giù il piatto, si alza e mi viene incontro, ma io gli volto le spalle. «Devi capire che adesso Annabelle ha quindici anni e ha trovato la sua dimensione. Non posso stravolgerle la vita. Questo riuscirai sicuramente a capirlo, no?».
Mi giro di scatto. «No, non capisco. Non puoi impedirle di vedere sua madre. Io non mi muovo da qui e, se mi costringi ad andare via, ti trascinerò in tribunale».
«Non stai ragionando con lucidità».
Non posso fare a meno di sbuffare. «Che è esattamente quello che dicevi anche un tempo quando eravamo in disaccordo su qualcosa. Su qualsiasi cosa. Tu non sei cambiato, ma io sì. E per la prima volta dopo anni e anni riesco a ragionare con lucidità. Sei tu quello che non ragiona».
Scuote la testa, e capisco che sta diventando sempre più irremovibile. Quanto è testardo. L’avevo quasi dimenticato.
«Sei stata via per sei anni. Perderesti in tribunale e, in ogni caso, pensa alle ripercussioni che avrebbe su Annabelle».
Lo guardo in cagnesco e alzo la voce, anche se so per esperienza che urlando peggiorerò soltanto le cose. «Non lascerò che tu mi metta i piedi in testa. Se non vuoi permettermi di vederla, le scriverò a scuola! Questo non puoi impedirmelo».
Quasi si mette a ridere. «Seriamente, Diana, pensa a come si sentirebbe. E potrei tranquillamente chiedere alla scuola di intercettare le tue lettere, se pensassi che è nel suo interesse. Perché lo è. Devi ammettere che è così».
«No, non posso ammetterlo. È mia figlia, Douglas. Ne ho già persa una».
«Entrambi abbiamo perso Elvira», mormora a voce ancora più bassa, ma non reagirò.
«Come hai potuto chiedermi di accettare di non vedere mai più la mia bambina quando stavo così male? È stato di un’insensibilità assoluta».
Ora inizia a parlare più in fretta, con tono più concitato, si sta arrabbiando e odia perdere le staffe. «Stammi a sentire. Non c’era l’intenzione di essere crudeli. Credevo fosse la soluzione migliore e lo penso ancora. Non riesci a immaginare l’angoscia se dicessimo ad Annabelle che la madre defunta all’improvviso non è più così morta? Le ci è voluto tantissimo tempo per trovare la stabilità a cui è arrivata adesso».
Sento bruciare gli occhi, ma poi raddrizzo la schiena. Non piangerò davanti a lui, assolutamente no. «E questa è la tua ultima parola?».
Annuisce. «Sono contentissimo che tu sia migliorata così tanto, credimi, ma temo che debba andare così, almeno fintantoché è ancora una ragazzina. Mi dispiace, Diana».
Avverto la sua tensione mentre tira dritto per la sua strada, come ha sempre fatto, ma le parole che vorrei dire mi muoiono in bocca. Rifletto a lungo e attentamente prima di parlare, ricordando cos’avevo provato negli ultimi anni trascorsi in questa casa. Ripensando a come mi ero sentita in trappola, a impazzire tutta sola nella mia stanza. A quanto era stato traumatico per nostra figlia. All’orribile caos in cui ci trovavamo tutti. Alla fine, arrivo alla conclusione che Douglas potrebbe avere ragione. Fa così male. Sento un macigno piantato nel petto, che si rigira, si capovolge e mi strappa il respiro. Mi mordo l’interno della guancia nell’improbabile speranza che quel piccolo fastidio possa sottrarmi all’angoscia schiacciante che sono certa arriverà a momenti. Non so come potrò mai sopportarlo, ma non posso causare altra sofferenza a mia figlia. Ne ha già passate abbastanza, vale per tutti noi, e per quanto sia un pensiero atroce, davvero atroce, forse devo davvero rinunciare al mio ruolo di madre.
«Diana?», dice Douglas.
«Be’, non sono più la donna di un tempo», è ciò con cui riesco a uscirmene alla fine. Non riesce neanche lontanamente a esprimere tutti i pensieri che mi sono venuti in mente, ma è vero. Vorrei dire che cambiamo tutti, dico bene, che diventiamo diversi da ciò che eravamo, forse persino di giorno in giorno. Io sono diversa e ne sono felice, ma Douglas non riesce a vederlo. Lui vuole che tutto resti invariato.
Invece di dirlo, annuisco, sul punto di scoppiare in lacrime. «Accetterò la tua decisione… almeno per il momento. Ma c’è una cosa che devo ancora chiederti».
Mi posa una mano sul braccio e il contatto fisico scatena una tempesta di ricordi.
«Douglas, perché hai avuto un’altra donna mentre ero incinta di Elvira? Non l’ho mai capito. Ci amavamo, sbaglio?».
Sembra imbarazzato, come se l’avessi preso alla sprovvista, impallidisce e le sue labbra si tendono per lo sbigottimento. Trema mentre risponde. «Tu… tu stavi aspettando la nostra bambina. Io non volevo… be’, lo sai».
«Non volevi toccarmi? È questo che stai cercando di dire?»
«Non volevo farti del male… a te o alla bambina».
«Eppure l’hai fatto, e in modo peggiore. Avresti dovuto parlare con me di come ti sentivi. Non mi hai mai detto cosa stavi provando».
«Non sapevo come fare», sussurra.
Ma io non ho ancora finito. «Ho sempre creduto che fosse colpa mia. Che avessi fatto qualcosa di sbagliato. È un peso che ho portato per anni».
Non risponde, ma curva le spalle e non incrocia il mio sguardo.
«Ma non era colpa mia, vero?».
Scuote la testa, poi mi guarda con una tale angoscia negli occhi. «Mi dispiace. Non sarebbe dovuto accadere. Dico sul serio. Ero così arrogante da credere che se… se avessi dato sfogo ai miei bisogni altrove, per te sarebbe stato meglio».
«E così facendo mi hai spezzato il cuore. Perché pensi che fossi tanto demoralizzata?».
Una breve pausa mentre lo vedo in difficoltà.
«E continui a dare la colpa a me se mi sono ammalata?», domando, improvvisamente intontita dal dolore.
Quando mi risponde, parla a bassa voce. «Nessuna colpa, Diana, non per quello. Compassione. Ecco cosa provavo… cosa provo tuttora».
«Compassione?»
«E un costante senso di smarrimento».
Ci rifletto un istante. «Siamo entrambi perduti, vero?».
Annuisce lentamente e, mentre nei suoi occhi vedo il peso immenso della tristezza, parte della mia rabbia si dissolve.
«Mi ritieni ancora responsabile per Elvira? Credi ancora che abbia qualcosa a che fare con quanto accaduto?»
Scuote la testa. «No, questo non l’ho mai pensato».
«Non ricordi niente di com’eravamo un tempo?», chiedo. «Ti ricordi di noi?».
Il suo sguardo si addolcisce ancora di più e intravedo qualcosa dell’uomo che ho amato, ma so che non cambierà idea in merito ad Annabelle.
«Certo, non devi neanche domandarlo», risponde. «Ma adesso sono certo che darai la precedenza alle necessità di nostra figlia, come devo fare anch’io».
Mi sfiora la guancia in modo così delicato, e vedo che ha gli occhi lucidi. Decido che devo attendere il momento opportuno. Forse un giorno, quando sarà più grande, rivedrò la mia bambina.
«Hai una sua fotografia recente?».
Si incammina verso lo scrittoio e tira fuori un raccoglitore, poi ne estrae una singola fotografia e me la porge. Ora fatico davvero a trattenere le lacrime perché mi struggo per mia figlia. È diventata tale e quale a me alla sua età. Traccio il contorno del suo viso con i polpastrelli. «Ti prego, posso tenerla?».
Lui tentenna per un secondo, dopodiché acconsente.
Mi volto per andarmene, ma poi mi trattengo e sollevo una mano. «Arrivederci, Douglas», saluto, e non so perché, ma il cocente rammarico che trapela dai suoi occhi mi dice che non rivedrò mai più mio marito.