24
Diana, Cheltenham, 1922
Proprio quando mi sto abbandonando a un ricordo di Rangoon, Douglas entra di nuovo in camera mia. Sbatto rapidamente le palpebre e mi sforzo di tornare al presente.
«Come stai oggi?», mi domanda.
Scruto il suo viso impenetrabile. È talmente calmo e padrone di sé che prendo spunto da lui. «Sto bene, grazie».
«Vogliamo metterci comodi?», chiede, indicando una sedia. Poi va dritto al sodo. «Hai pensato all’offerta di Simone?».
Annuisco, ma non gli confesso quanto è stato impegnativo prendere questa decisione, né che non ne sono ancora del tutto convinta. Fatico a prendere fiato.
«Allora?», incalza.
«Be’… tutto sommato, penso che potrebbe essere la soluzione migliore».
«Ne sono felice».
“Ci scommetto”, penso, ma non lo dico. Provo a parlare, a spiegarmi, ma perdo il filo, mi interrompo a metà frase.
«Non ti ci avrei mai mandata se non avessi accettato, ma adorerai quel cottage», continua, come se non avesse sentito le parole che ho farfugliato.
«Quindi l’hai visto?»
«Proprio così. È in pietra delle Cotswolds, a pochi passi da casa di Simone, e ha un bellissimo giardino che lo circonda su tre lati».
Sorrido, rasserenata dal pensiero. Amo davvero i miei fiori.
«Anche il paesino è perfetto. Minster Lovell. Tranquillo. Con un fiumiciattolo che ci scorre accanto. Simone conosce un bravo medico che verrà a visitarti a casa. Ci sono un pub, un mulino, un piccolo negozio di alimentari e una meravigliosa panetteria che fa consegne a domicilio».
Annuisco.
China il capo per un momento e, prima che risollevi lo sguardo, noto quanto gli si sono diradati i capelli. Il mio amore in cima alla testa è completamente calvo.
«Ma adesso dobbiamo parlare delle condizioni», aggiunge.
Ha un’aria solenne, e nei suoi occhi scorgo un velo d’agitazione. Queste condizioni devono preoccuparlo sul serio.
Fuori ci sono più rumori rispetto a prima. Mi alzo dalla sedia e mi avvicino alla finestra aperta. Il vento ha cominciato a sferzare gli alberi, come se stesse per arrivare un temporale. Intravedo le luci che stanno già diffondendo i loro bagliori dorati nei salotti delle case dall’altro lato del parco, anche se è solo metà pomeriggio.
«Diana?».
Mi volto verso di lui. «Sì?»
«Puoi tornare a sederti, per cortesia?».
Faccio come mi ha chiesto e lo guardo in faccia. Perché sembra tanto ansioso?
«Allora, il punto è questo. Sento che stiamo prendendo la decisione migliore nell’interesse di Annabelle. Spero che tu lo capisca».
«Certamente». Mi sforzo di adottare un tono ragionevole.
«Potrà sembrare un po’ estremo».
Sbatto rapidamente le palpebre, ora sono preoccupata.
«Ma non credo che avere contatti con te possa giovare a nostra figlia».
«Elvira», mi sento mormorare.
«Diana, sto parlando di Annabelle, lo sai».
Stupido, stupido errore. Provo un attimo di confusione e vorrei coprirmi la faccia con le mani. Ma tutti noi commettiamo degli errori, no? Mi rendo conto che sta aspettando una mia risposta.
«Certo. Certo. È di lei che…». La mia voce si affievolisce, incapace di concludere la frase.
Il suo sguardo si addolcisce solo per un istante. «È meglio se la cresco da solo. L’instabilità, lo sai, scombussola i bambini. Non capisce perché non tieni a lei».
Sento un bruciore che mi fa pizzicare le palpebre. «Io tengo a lei».
«Ne sono certo, ma non è sufficiente, e abbiamo già stabilito che non si può andare avanti così. Propongo di istituire un fondo fiduciario che verrà amministrato da Simone. Credo davvero che sia la soluzione migliore, non solo per Annabelle, ma anche per te».
Mi mordo il labbro, fisso il pavimento; so che mi vuole lontana da qui.
«Andartene via da qui ti aiuterà», dice, facendo eco alle parole che ho in testa. «Dirò ad Annabelle che te ne sei andata, ma che non so dove. Che hai lasciato un biglietto dicendo che sarebbe stato meglio per tutti noi. Poi, a tempo debito, quando ti avrà quasi dimenticata, le dirò che sua madre è morta».
Rimango a bocca aperta. «È questa la condizione?».
Lui annuisce. «Dobbiamo dare un taglio netto e deciso. Voglio che cresca libera, be’, libera da…».
Lo interrompo. «Da me».
La sua voce assume una nota di dolente rassegnazione. «Non volevo dirlo in modo tanto esplicito, ma sì, il succo è questo, credo. Non dovrai fare ogni giorno i conti con il tuo fallimento come madre, e nemmeno lei. Davvero, è meglio che ti dimentichi. E naturalmente tornerai a usare il tuo cognome da nubile».
È un’affermazione, non una richiesta.
Penso al fatto di dover lasciare la casa in cui sono cresciuta. Casa mia. Solo che adesso è sua. Nei pochi mesi in cui abbiamo vissuto qui prima di andare in Birmania, avevamo ancora tutto il futuro davanti ed eravamo così felici. Vorrei dirgli come mi sento. Come mi sono sentita per anni. Vorrei dare voce alla sofferenza che mi ha causato e al male che mi sono fatta da sola, invece resto in silenzio. Ma poi, all’improvviso, come se non avessi scelta, la domanda che voglio fargli mi sfugge dalle labbra.
«Quando hai smesso di amarmi?».
Ha uno sguardo talmente triste che quasi non riesco a sopportarne la vista.
«Non si tratta di questo», risponde, e poi mi osserva per un istante lunghissimo. «Non ho mai smesso di amarti».
«Ma?»
«No, mia cara. Sei tu che hai smesso di amarti».
«È questo che pensi?».
Mi fissa come se sapesse che mi sto riferendo al suo tradimento, perché in fin dei conti, se mi ama ancora, come ha potuto? Dopo un secondo o due, apre la bocca e io aspetto. Non dice niente, ma gli occhi lo tradiscono e ciò che vedo è vergogna. Vergogna che compete con l’orgoglio.
Quando se ne va, passeggio per la stanza e ascolto il ritmo della pioggia che comincia a tamburellare sul tetto, risuonando come il battito del mio cuore. Quella di Douglas sembra una decisione spietata, ma non posso negare la realtà dei fatti. Non sono stata una madre per nostra figlia, ma voglio davvero fare in modo che abbia una vita migliore. Accadrà se me ne andrò?
Un’ora dopo, la signora Wilkes mi porta un vassoio con uova sode e striscioline di pane tostato, e mi tratta come se fossi una bambina. Mi guarda con aria compassionevole, e mi chiedo se non sia già stata messa al corrente del fatto che verrò cacciata via da questa casa. Almeno non dovrò andare al Grange, penso, almeno questo. Ma non poter più vedere mia figlia? Non mangio né le uova né il pane. Piuttosto, mi raggomitolo sul letto, mi tiro la coperta fin sopra la testa e, racchiusa in un bozzolo d’oscurità, piango fino ad addormentarmi.