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Diana, Minster Lovell, 1922

 

Non siamo mai stati gente di campagna. Lo dico perché mi sto adattando talmente bene alla vita agreste e questo mi stupisce. I genitori di mia madre un tempo erano contadini, quindi magari ce l’ho nel sangue.

Non è passato molto tempo, ma Minster Lovell è il posto perfetto per me. Annabelle mi manca tantissimo; e, a essere sincera, avrei anche il desiderio di rivedere Douglas, ma non così tanto da sentirmi profondamente infelice. La nostalgia è compensata dal fatto che sono libera di fare ciò che mi pare e piace, senza avere il timore di turbare qualcuno. Ho Simone e la signora Jones, che è una brava donna, e ovviamente ho anche il dottor Gilbert Stokes, che arriverà per la nostra seduta da un momento all’altro.

Anche se non sono ancora andata a sedermi su una panchina in giardino, mi piace lasciare la porta d’ingresso aperta e starmene sul portico. Se passa qualcuno mi lascio prendere un po’ dal panico, ma ho imparato a salutare con la mano e a stamparmi un sorriso in faccia. Oggi, sebbene splenda il sole, nell’aria c’è odore di pioggia… è così carezzevole quest’arietta fresca, è una delle cose per cui vale la pena vivere. La pioggia farà bene al prato, visto che abbiamo avuto un lungo periodo di siccità. Mentre il profumo dell’erba appena tagliata e dei magnifici fiori di inizio estate si diffonde nell’aria, aspetto il dottore.

Quando intravedo la folta capigliatura bianca, sta risalendo la collina tenendo il corpo in avanti e il capo chino. Arrivato in cima, alza la testa, mi vede e mi saluta. Ricambio il gesto. Non posso dire di non essere nervosa, ma è un uomo gentile e io sono speranzosa.

Dopo esserci dati una stretta di mano, ci accomodiamo nel piccolo salotto di casa mia, dove la signora Jones ci ha lasciato un vassoio con il tè e i biscotti. Ora è andata al mercato, in modo da non disturbarci.

Non riesco a esprimere quanto mi rassicuri quando mi comunica che dovrò farglielo notare se una delle sue domande dovesse mettermi in imbarazzo. Era una cosa che mi preoccupava.

Così, per un po’, parliamo della mia infanzia. Non so di preciso cosa voglia sentirsi dire, ma mi assicura che non ci sono risposte giuste o sbagliate e che è una semplice questione di iniziare da qualche parte. Quando mi suggerisce di descrivergli com’era mio padre, inspiro a fondo ed espiro lentamente per prendermi qualche secondo per riflettere. Ripenso a quando mio padre mi incoraggiava a «essere me stessa».

Il problema è sempre stato lo stesso, ovvero che non ho mai capito come fare. Do voce ai miei pensieri e, quando il dottore mi rivolge un sorriso gentile e incoraggiante, noto una luce nei suoi occhi azzurri. «La preoccupa non sapere come fare?», mi domanda.

Mi mordo l’interno della guancia, non sapendo quanto sia saggio esporsi, ma poi mi ricordo che quest’uomo non ha alcun interesse a mandarmi al Grange o in qualche altro istituto simile. È da questo che traggo coraggio e gli dico che mi fa sentire triste.

«E anche un po’ sola, magari?», aggiunge lui.

Mi sento a disagio, mi sta salendo un groppo in gola, così mi fisso i piedi e non riesco a fornirgli una risposta. Mi spiega che molte persone cominciano a capire chi sono avvicinandosi alla fine delle loro esistenze, o meglio, più realisticamente, chi sono state o avrebbero potuto essere.

Ricaccio indietro il nodo che ho in gola. Per troppo tempo mi hanno portata a credere di essere irrecuperabile, che qualunque cosa non vada in me non potrà mai essere curata. Questo medico mi offre una piccola speranza e io lo ripago con un sorriso generoso.

Gli dico che penso che parleremo di quanto accaduto in Birmania, ma, quando mi chiede se mi va di raccontarglielo, io scuoto la testa.