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Belle non conobbe la compagna di stanza fino alla mattina seguente. La sera prima, mentre era sdraiata a letto sfinita, in attesa che la ragazza facesse la sua comparsa, era sprofondata in un sonno dal quale si ridestò solo quando udì un insistente ronzio. Ansiosa di iniziare la sua nuova vita, si alzò di scatto e osservò la finestra, dove un paio di mosche gigantesche – o almeno pensava fossero mosche – stavano sbattendo furiosamente contro il vetro. Senza pensarci due volte, scostò la coperta sottile, appoggiò i piedi a terra e si sporse per aprire la finestra.
La piccola camera all’ultimo piano era dipinta di bianco sporco e arredata con due letti singoli – uno, quello sotto la finestrella che aveva appena aperto, chiaramente era già occupato. Di conseguenza, Belle aveva dormito nell’altro. Una sola cassettiera, una piccola scrivania e l’armadio costituivano il resto della mobilia. Tuttavia, quando aprì l’anta dell’armadio per appendere un po’ delle sue cose, lo trovò pieno zeppo dei vestiti della compagna di stanza.
Alla bacinella nell’angolo, si lavò la faccia e sperò che la sua carnagione pallida non si trasformasse in un ammasso di lentiggini sotto l’inclemente sole birmano. Il suo aspetto interessante – gli occhi verde mare, il viso ovale e simmetrico, la bocca grande e il naso dritto – le permetteva di spiccare in mezzo alla folla e le aveva fatto comodo durante l’audizione per quel lavoro. Ancora in camicia da notte, si spazzolò i capelli, probabilmente il suo tratto distintivo migliore, e pensò a quelli di sua madre, un pochino più scuri dei suoi, anche se Belle non sapeva quanto fossero attendibili i suoi ricordi. Era passato così tanto tempo.
Dato che la compagna di stanza era ancora assente, riaprì l’armadio, chiedendosi se i vestiti potessero fornirle qualche indizio sulla personalità della ragazza. C’era una quantità spaventosa di seta rossa e lucente, e tirò fuori un abitino succinto per ispezionarlo meglio.
La porta si spalancò e qualcuno irruppe in camera.
Belle si voltò e vide una ragazza bionda, né troppo alta né troppo bassa, che la stava guardando in cagnesco con le mani sui fianchi, appena oltre la soglia.
«Ti piace, eh?», domandò.
«Sì, è carino», rispose Belle e, decisa a non lasciarsi scoraggiare dall’atteggiamento ostile della ragazza, le rivolse un grande sorriso.
«Carino? È incantevole, per la miseria. Ho risparmiato un mese intero per comprarlo, quindi, se non ti dispiace, preferirei che non ci mettessi le tue manacce sopra».
Belle esitò. «Scusami. Io…».
La ragazza socchiuse gli occhi. «Meglio mettere le cose in chiaro fin dall’inizio».
«Sì, naturalmente. È solo che mi stavo chiedendo dove appendere la mia roba».
La bionda adocchiò l’enorme baule di Belle. «Accidenti, ti sei portata tutta la casa là dentro?».
Belle fece spallucce. «Era di mio padre», mormorò senza un vero motivo.
«Rebecca», disse la ragazza, poi le tese la mano.
Gliela strinse. «Annabelle… ma tutti mi chiamano Belle».
«Io sono una ballerina», aggiunse Rebecca. «Siamo in quattro».
Belle annuì e studiò con attenzione l’aspetto trasandato della ragazza: il trucco sbaffato che le incorniciava i grandi occhi azzurri, il nasino all’insù, le labbra carnose dipinte di rosso e un vestito di cotone aderente che faceva ben poco per nascondere le sue forme voluttuose.
«Tu devi essere la nuova cantante. Spero vivamente che tu sappia cantare. L’ultima era proprio un’inetta, piangeva sempre, brutta come il peccato e pure di mano lesta. Ha preso e se n’è andata portandosi via i miei orecchini preferiti, e che cavolo».
«Sentiva nostalgia di casa?»
«E io che ne so? E comunque, che me ne frega? Spero che tu non sia una piagnucolona». Fece una pausa e scrutò il viso di Belle in cerca di segni di debolezza. «Prima volta lontana da casa?»
«No. Ho vissuto a Parigi e a Londra».
La ragazza annuì. «E da dove vieni?»
«West Country. Cheltenham».
«Roba da aristocratici».
Belle sospirò. Sarebbe sempre andata così? Forse avrebbe dovuto mentire e dichiarare che veniva da Birmingham. Ci aveva lavorato per un breve periodo.
«Hai famiglia?», chiese Rebecca.
Lei scosse la testa.
«Sei fortunata. Casa nostra brulica di bambini e io sono la più grande. Voglio bene a ciascuno di loro, è ovvio, ma non vedevo l’ora di andarmene».
«Magari verranno a trovarti?».
Rebecca rise. «È improbabile. Non abbiamo soldi. Siamo poveri in canna».
«Ah».
«Comunque sia, basta che non ti impicci degli affari miei. La ragazza che ti ha preceduta veniva da Solihull e si credeva superiore a tutte noi. Se c’è una cosa che non riesco a tollerare… A ogni modo, ora vorrei schiacciare un pisolino. Tu stai uscendo?»
«In realtà speravo di disfare le valigie».
«In realtà speravi, eh?», ripeté, scimmiottando l’accento di Belle. «Be’, d’accordo. Ma adesso dammi un paio d’ore per riposare gli occhi. Puoi farlo dopo».
«Va bene, ma devo lavarmi e vestirmi prima di uscire».
La ragazza si limitò a fare spallucce.
«Ti ho aspettata in piedi», disse Belle. «Mi sembrava un tantino scortese andare a dormire senza averti conosciuta. Dove sei stata ieri notte?».
Rebecca si picchiettò la narice. «Meno ne sai, meno è probabile che tu vada a dirlo in giro».
«Oh, per l’amor del cielo…».
«Quindi non sei una che fa la santarellina?».
Belle si sentì offesa. «Certo che no».
«Vedremo. Il bagno è qua di fronte. Ma devi sbrigarti se lo devi usare. È in comune tra tutte e cinque e l’acqua calda finisce in fretta».
Belle rischiò di strozzarsi per la sorpresa quando, all’improvviso, una lucertola lunga una trentina di centimetri si arrampicò su per il muro e sparì dietro l’armadio emettendo uno strano verso disumano.
Rebecca rise. «Vivono qua dentro e ti tengono sveglia la notte. Si vedono anche degli insetti, più grandi di quelli che abbiamo a casa, e qualche volta uno strano scoiattolo».
«Dentro la stanza?».
La ragazza si limitò a togliersi il vestito e, dopo averlo lasciato cadere sul pavimento, a infilarsi a letto soltanto con l’intimo. Neanche un istante dopo, proprio mentre Belle stava per aprire la porta e andare in bagno, Rebecca tirò su la testa.
«Gran bei capelli, e scommetto che è naturale quel rosso», disse, poi si voltò dall’altra parte, dandole le spalle.
Belle sorrise tra sé e sé. Forse, alla fin fine, condividere la stanza con Rebecca non sarebbe stato poi così male.
Il giorno precedente, poco dopo il suo arrivo, il signor Fowler, sprizzando presunzione da ogni poro, le aveva fatto fare un giro dell’albergo. Dall’atrio dell’entrata trionfale con le sue pareti specchiate, i divanetti di pelle scura, i pavimenti di parquet lucido e i tavolini da caffè in vetro, l’aveva condotta nelle sfarzose sale da pranzo. Lampade con i paralumi di seta rosa pastello punteggiavano la sala e raffigurazioni della Birmania abbellivano le pareti, insieme a ritratti di compassati uomini bianchi con le loro donne ingioiellate. I tavoli erano già apparecchiati con le tovaglie di damasco lavate e stirate.
Aveva mormorato la giusta quantità di parole ammirate per dargli soddisfazione e, in realtà, era rimasta davvero colpita, ed era più che felice di lavorare lì. Le aveva mostrato altri settori, dicendole che l’hotel era stato completamente ristrutturato nel 1927. «Certo, all’epoca io non c’ero».
«Da quanto lavora qui?»
«Non da molto», aveva risposto lui, accantonando la domanda e proseguendo: «Il nostro è l’albergo più comodo e moderno di Rangoon. Abbiamo persino un ufficio postale e una gioielleria I.A. Hamid & Company».
A seguire, erano entrati in una stanza arredata con gusto che, le aveva detto, fungeva da sala colazioni, mentre nel pomeriggio veniva usata come sala da tè. Belle aveva dato un’occhiata alle sedie di vimini e alla raffinatezza dell’ambiente. Era grazioso, aveva pensato, con un’atmosfera più rilassata rispetto alla sontuosa sala da pranzo. Erano famosi per il loro tè delle cinque, aveva spiegato lui con una punta d’orgoglio nella voce.
«A volte avanzano delle torte per il personale», aveva aggiunto con un sorriso magnanimo, neanche fosse lui in persona a elargire quei dolci avanzati.
Poi erano arrivati alle dispense, quindi a una grande cucina dal soffitto alto che apriva su una stanza più piccola dove il personale consumava i pasti, e alla fine avevano concluso con la sala concerti dello Strand, che era stata costruita dietro l’ampliamento, con un camerino per le ragazze e un piccolo giardino sul retro.
«Prima contavamo su orchestre, corpi di ballo e cantanti esterni. I musicisti e le artiste in loco sono un’aggiunta recente. Dobbiamo ancora vedere se può funzionare».
«Sono soltanto gli inglesi ad alloggiare qui?».
Fowler aveva annuito, per poi aggiungere: «Be’, e gli scozzesi. Un sacco di scozzesi».
«E le persone che lavorano qui? Sono tutti britannici?»
«Certo che no. Abbiamo dei ragazzi indiani in cucina e hai già visto il portiere».
«Nessun birmano?».
Lui aveva scrollato il capo. «Ai birmani, quelli di bassa estrazione sociale, intendo, non piace lavorare».
«Per nessuno?»
«Per noi».
«Oh».
«Ci sono parecchi birmani con un livello d’istruzione più alto negli uffici governativi».
Lì, nell’edificio principale, le aree comuni erano straordinariamente fastose. Non appena erano tornati nell’atrio, Belle aveva indicato la passatoia di velluto della grande scalinata che conduceva ai piani superiori, ma lui aveva scosso la testa. «Camere per gli ospiti, suite e salottini privati», aveva detto. «Non hai motivo di andare lassù». E le era subito venuta una gran voglia di andare a vedere.
Accorgendosi dell’espressione curiosa che aveva assunto, Fowler aveva aperto una porta a vento che conduceva in un corridoio buio. Una volta varcata la soglia, le aveva preso la mano destra e le aveva poggiato l’altra sulla spalla sinistra. Belle si era divincolata dalla sua stretta mentre lui cercava di spingerla indietro. «A volte capita che una ragazza fortunata abbia la possibilità di vedere una stanza libera di tanto in tanto, sai, tra l’arrivo di un ospite e l’altro, se capisci cosa intendo. Signorina Hatton, sarai una di quelle ragazze fortunate?».
Belle aveva fatto un passo indietro per allontanarsi da lui. «Ne dubito, signor Fowler».
Lui aveva inclinato la testa e socchiuso leggermente gli occhi prima di dire: «Be’, questo è da vedere, non pensi?».
Non era preoccupata. C’erano stati uomini come lui in passato.
A quel punto, con tutta la giornata libera che, a quanto pareva, le era stata data per avere la possibilità di ambientarsi e, in generale, di orientarsi prima di una prova impegnativa fissata per l’indomani, decise di esplorare la città. Quando uscì dall’albergo, rivolse un cenno del capo al portiere con il turbante e sbatté le palpebre a causa della nube di polvere che le fece bruciare gli occhi. Superò la sede di uno spedizioniere, seguita da un vistoso ufficio postale rosso, ma poi cambiò idea, si rigirò e si incamminò nella direzione opposta.
Inspirò l’aria pesante, piena di misteriose fragranze orientali. “Chissà cosa può avere un profumo così intenso”, si chiese. Poi si fermò ad ascoltare le campane del tempio che risuonavano da ogni direzione. Per strada, la moltitudine di risciò, biciclette, automobili e pedoni la costringeva a scansarsi frequentemente. A giudicare dalle tante lingue diverse che udiva – tra le quali sia l’hindustani che il birmano, e naturalmente l’inglese – la città doveva essere popolata da una grande varietà di razze. Gli indiani sembravano indaffarati ed energici, i cinesi ansiosi di vendere le loro mercanzie, ma erano i birmani ad affascinarla. Gli uomini fumavano sigari spuntati e giravano la testa al suo passaggio, mentre le donne, vestite con abiti di seta rosa immacolata, erano minute e belle come bambole. Portavano i capelli raccolti in una stretta crocchia, con un fiore appuntato da un lato, ma rimase sorpresa nel vedere che si impiastricciavano il viso con uno spesso strato di unguento giallognolo. Estasiata dalla dolcezza dei sorrisi che le rivolgevano, ricambiava a sua volta. Era affascinata dal fatto che sia gli uomini che le donne indossassero gonne e casacche corte – aveva già scoperto che la gonna era chiamata longyi – anche se la versione femminile era più drappeggiata sui fianchi. Notò anche che quasi tutti gli uomini indossavano dei turbanti rosa, mentre le donne portavano spesso uno scialle di seta trasparente attorno alle spalle.
Più avanti, un leggero odore di acque di scolo si confondeva con i caratteristici profumi speziati che provenivano dalle varie bancarelle e dai chioschi dei commercianti. Belle si fermò a un incrocio e sentì il rumore delle ruote rinforzate dei gharri trainati dai cavalli – che non erano altro che antiquati palanchini su ruote da prendere a nolo – e si meravigliò di come passato e presente coesistessero su quelle strade. Subito dopo, svoltò a sinistra in Merchant Street.
Lungo Strand Road e oltre, la presenza di edifici britannici dominava la città, ma Belle desiderava qualcosa di più entusiasmante rispetto a quei monumenti al colonialismo. Girò a destra e oltrepassò lo sfarzoso palazzo dell’Alta Corte di Giustizia, dove credeva avesse lavorato suo padre, poi girò di nuovo e, restando senza fiato, scorse ciò che cercava. Quella doveva essere la cosiddetta pagoda Sule, più piccola della pagoda Shwedagon che aveva visto dalla nave. Lieta di essersi imbattuta in quella piccola apparizione dorata e lucente nel pieno centro di Rangoon, circondata dall’andirivieni e dai rumori delle attività quotidiane, si fermò a guardare. Il portiere dell’albergo le aveva detto che aveva 2.200 anni e che era sempre stata il cuore pulsante della vita sociale della città.
Mentre la rimirava, l’oro brillava e scintillava allettante, ma, frastornata dal caldo torrido, Belle dovette distogliere lo sguardo. Non si era ricordata di prendere un cappello o un parasole e, quando le mosche presero a ronzarle attorno al viso, le scacciò e cercò un posto dove bere qualcosa. I chioschetti del tè che fiancheggiavano le strade non sembravano troppo invitanti, quindi dove poteva andare? Guardò di nuovo in giro e vide Gloria uscire da Rowe & Co., un grande magazzino rosso e crema con una torretta angolare, balconcini stondati all’ultimo piano e finestre riccamente lavorate. Belle la chiamò agitando una mano.