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Gloria non aveva accennato al fatto che fosse una festa al chiaro di luna, e Belle rimase stupita quando notò che il manifesto sul cancello d’entrata dichiarava anche che poteva accedervi solo chi aveva un invito ufficiale. Riusciva a sentire il brusio smorzato delle conversazioni portate dal vento, probabilmente dall’altro lato della struttura. Mentre apriva il cancello, una donna cinese uscì da un ufficetto tetro e alzò una mano.
«Non ho un invito», disse Belle. «Ma sono stata invitata».
La donna scosse la testa. «Entra solo chi ha l’invito», disse in un inglese con un accento marcato.
Belle non sapeva cosa fare. «Sono stata invitata dalla signora de Clemente. Non potrebbe andarla a cercare?».
La donna si strinse nelle spalle, ma non si mosse.
Era stata una giornata incredibilmente lunga e Belle era stanca. Si era alzata presto e, anche se aveva invitato Rebecca a prendere un caffè insieme, la ragazza non si era presentata. Poi c’erano state le lunghe prove con i musicisti e le ballerine. In genere le ballerine si esibivano insieme all’orchestra ma, quando c’erano gli spettacoli, portavano in scena delle coreografie con cui accompagnare i brani cantati da Belle. Anche lei aveva dovuto ballare con loro e le prove erano state impegnative. Si erano mostrate professionali ma distaccate, e c’erano stati un paio di momenti di panico quando aveva pensato che l’avrebbero messa in difficoltà di proposito, ma alla fine lo spettacolo era andato bene e, lieta che fosse finita, ora si sentiva sollevata.
Però aveva consumato un sacco di energie a causa della tensione e, visto che la cinese le aveva voltato le spalle, decise di abbandonare l’impresa, tornare in camera sua e andare difilato a letto. Non aveva importanza.
Quando si girò per tornare indietro, chiedendosi se ci fosse un risciò nei paraggi, vide avvicinarsi un uomo abbastanza alto. Alla luce azzurrognola della luna era difficile distinguere il colore della sua pelle, ma riuscì a scorgere i lineamenti marcati e un grande sorriso.
«Salve», disse. «Non entra?».
Gli spiegò cos’era successo.
«Nessun problema. Posso farla passare come mia accompagnatrice».
«Ne è sicuro?».
L’uomo le rivolse un sorrisetto sbilenco. «Ma certo. Comunque, io sono Oliver. Oliver Donohue». E le tese la mano.
«Be’, la ringrazio. Io sono…».
Non la lasciò finire. «Lo so, signorina Hatton. L’ho vista cantare stasera. E anche improvvisare uno scat, a un certo punto. Davvero impressionante».
«Ah».
«Allora, andiamo?». Mostrò l’invito, poi tese il braccio, come per guidarla oltre il cancello.
«Lei è americano», osservò Belle mentre camminavano attorno all’edificio verso i rumori della festa, che si facevano via via più forti.
Non sentì la sua risposta perché, quando girarono l’angolo, si fermò stupefatta a esaminare l’ambiente. Era molto più bello e festoso di quanto si fosse aspettata. La piscina scintillava di riflessi colorati per le lanterne di carta appese agli alberi attorno all’acqua. Sulla terrazza, le lampade a olio rischiaravano i volti accalorati delle persone radunate in piccoli capannelli, e c’erano lucine colorate anche all’entrata del club. Mentre cercava di distinguere la musica in sottofondo, notò un paio di coppie che ballavano guancia a guancia.
«Non mi aspettavo una festa così riuscita», disse.
«I britannici non lesinano mai su nulla».
Lo guardò, chiedendosi se ci fosse un velo di biasimo nel suo tono di voce, ma Oliver stava sorridendo di gusto. Ora che c’era più luce, riusciva a vederne gli intensi occhi azzurri, incorniciati da ciglia scure e incredibilmente lunghe. Si impose di non fissarli. Aveva il naso dritto e ben definito, capelli castano chiaro arruffati e piuttosto ribelli, e un’abbronzatura marcata. “È diverso”, pensò, notando il divertimento che l’uomo celava a malapena, come se la vita gli offrisse un’infinità di svaghi.
Oliver andò al bar a ordinare da bere e, rimasta sola, Belle si guardò attorno, individuando Gloria ed Edward che ridevano dall’altra parte della piscina. Quando Gloria agitò una mano e si mosse per andarle incontro, Belle, che aveva sperato di passare un po’ più di tempo a tu per tu con l’americano, avvertì una punta di delusione.
«Ce l’hai fatta. Mi fa piacere», disse la donna. «Com’è andato lo spettacolo?»
«Bene, grazie».
Oliver tornò con un calice di champagne per lei e una birra per sé. Belle esitò, soppesando i pro e i contro, ma alla fine allungò una mano e accettò il bicchiere.
«Oh», fece Gloria, «vedo che hai conosciuto il nostro giornalista americano».
Oliver si inchinò, simulando una grande cerimoniosità. «Corrispondente estero per il “Washington Post”, al vostro servizio».
«E non solo», aggiunse Gloria con un pizzico di sarcasmo.
Oliver fece spallucce e, ignorandola, si rivolse a Belle. «La signora de Clemente si riferisce alle mie rubriche sulla “Rangoon Gazette”».
«Che sono sempre piuttosto critiche nei nostri confronti, dovrei aggiungere», puntualizzò Gloria.
«Nei nostri confronti?», domandò Belle.
«Di noi britannici, mia cara. Tu e io». Allungò un braccio per indicare la folla di invitati. «Tutti noi. Crede che la Birmania dovrebbe essere dei birmani. Comunque, devo andare a salutare alcune persone». Si voltò verso Oliver. «Non monopolizzare il nostro nuovo angelo. Anche lei deve andare a salutare delle persone».
Diede un bacio sulla guancia a Belle, rivolse uno sbrigativo cenno del capo a Oliver e si allontanò.
«Mi sorprende che non ti abbia trascinata via con sé», disse con un sorriso sardonico, passando a darle del tu.
«Non è la tua più grande ammiratrice, si direbbe, ma ha ragione?».
Lui continuò a sorridere. «Certo. Non nascondo di non essere un sostenitore dell’orgoglio che provano i britannici per il loro Impero, né che non approvo la loro cecità di fronte ai problemi morali legati al colonialismo».
«Ah», fece lei. «In questo caso, se mi è concesso, perché sei venuto qui?»
«Già, bella domanda. Un vero rompicapo, non trovi?».
Socchiuse gli occhi e lo osservò con attenzione, poi scosse la testa. «Non è una risposta».
Oliver sorrise e, quando lo fece, gli si illuminarono gli occhi. «Forse voglio assistere all’incendio che brucerà Roma».
«Davvero?».
Scrollò le spalle. «La Birmania mi affascina. È da qui che vengono i migliori rubini del mondo, più quantità infinite di tek, olio e riso, con cui, dovrei aggiungere, i britannici hanno fatto fortune colossali. Ma i tempi stanno cambiando e io voglio essere presente».
«Cosa intendi dire?»
«Che i britannici hanno i giorni contati».
«A me non sembra», replicò lei, osservando i volti spensierati dei presenti.
«Hanno i paraocchi, tutti loro. Ma aspetta e vedrai. La rivolta studentesca di sedici anni fa ha già tracciato la strada».
«Una rivolta?»
«I membri del consiglio e dell’amministrazione erano tutti britannici e nominati dal governo. Agli studenti non andava giù».
Belle fece spallucce. «Non che si possano biasimare».
Oliver annuì. «Esatto. Così, a dispetto delle minacce del governo, la rivolta ha preso piede ed è stata parzialmente sedata solo quando sono stati fatti dei cambiamenti».
Quando la guardò, ci fu un lungo attimo di silenzio e Belle, sentendosi arrossire, si toccò le guance. Quell’uomo aveva uno sguardo così diretto. Forse era una qualità utile per un giornalista.
«E poi?»
«I birmani che lavorano al segretariato vengono pagati molto meno delle loro controparti britanniche e anche quello è motivo di malcontento».
«Posso immaginare».
«Davvero?», disse lui.
«Ovviamente».
«Saresti una delle poche. Molti britannici sono ancora convinti che l’unico modo per mantenere l’autorità sia trattarli da inferiori. E alcuni britannici che hanno vissuto qui per la maggior parte della loro vita non parlano neanche una parola di birmano».
Belle scosse la testa. «È inconcepibile».
«Proprio così», disse lui. «Essere accusati di essere pro-birmani è considerato un insulto».
«E tu sei pro-birmani?»
«Direi di sì. Le cose stanno cambiando, ma non riesco a digerire il modo in cui alcuni britannici continuano a trattare la Birmania, come se fosse una piccola Inghilterra». Fece una pausa, come per valutare se aggiungere altro.
«In che senso?»
«Be’, se proprio lo vuoi sapere…».
«Sì».
«Ci sono le repressioni brutali, lo sfruttamento, i lavori forzati, le sofferenze di chi è stato espropriato di tutto. È sbagliato. È tutto sbagliato». Si interruppe di nuovo. «Ma non farmi neanche cominciare. Dimmi, piuttosto, qual è la tua storia?».
Belle provò un senso di inquietudine. Quell’uomo lavorava per un giornale, dopotutto, e suo padre aveva sempre diffidato dei giornalisti. «Per te tutto è “una storia”?», chiese alla fine.
Oliver rise. «Chiedo scusa, riformulerò la domanda. Perché non mi parli un po’ di te?».
Belle mise a tacere i dubbi e, più parlavano della loro vita passata, più si sentiva attratta da lui. Veniva da New York, ma non aveva voluto lavorare nella società di import-export di famiglia e si era invece messo in testa di girare il mondo e descrivere le sue esperienze, accettando di volta in volta dei lavori da freelance per diversi giornali. Era stato fortunato, disse, e una piccola eredità gli era bastata a sovvenzionare i primi due anni nel corso dei quali si era fatto strada.
Lei gli parlò di Cheltenham e della sua carriera, poi, senza volere, si ritrovò a parlare dei suoi genitori e della sorella che non aveva mai conosciuto. Oliver la ascoltava con attenzione, come se fossero completamente da soli, e in quell’atteggiamento c’era qualcosa che la spingeva ad aprirsi ancora di più. Sembrava tirarle fuori le parole senza alcuno sforzo, e lei era felice di aver trovato una persona che le piaceva davvero e che sembrava ricambiare. Gli disse persino che un tempo i suoi genitori avevano vissuto nella Valle Dorata.
Tra loro calò il silenzio. Lui parve riflettere e Belle sperò di non aver parlato troppo.
«Se ti va, potremmo fare un giro nella zona in cui vivevano. Per vedere se qualcuno ricorda qualcosa. Ti piacerà. La Valle Dorata è il giardino di Rangoon e da alcuni punti si riesce persino a vedere la pagoda Shwedagon».
Lei annuì, colpita dalla sua gentilezza. «Mi piacerebbe molto. Ma c’è un’altra cosa. Non ti ho ancora detto tutto».
«Non ce n’è bisogno».
«Invece sì. Il fatto è che mia madre è stata arrestata in seguito alla scomparsa di mia sorella. Ho i ritagli di giornale».
Oliver si accigliò. «I tuoi genitori devono aver fatto un torto a qualcuno se la notizia è stata fatta trapelare. I britannici tendono a serrare le fila, e lo facevano soprattutto all’epoca. C’è qualcosa che non quadra. Potrei verificare con la polizia. Avranno i rapporti ufficiali, e potrei metterti in contatto con uno dei miei agganci».
«Davvero?». Fece una pausa. «A essere sincera, non so se voglio veramente sapere com’è andata, ma mi piacerebbe vedere dove hanno vissuto».
«Ti lascerò un biglietto in albergo con il nome del mio contatto. Quand’è il tuo giorno di riposo?»
«Mercoledì».
«Allora cosa ne dici di fare un giro nella Valle Dorata?».
Belle gli sorrise, ma si accorse che stava guardando un punto alle sue spalle.
«Di buon’ora?», domandò.
«Certo. Guarda, sta arrivando il fratello di Gloria. Lui e io… be’, diciamo che tra noi non corre buon sangue». Le sfiorò la mano per un secondo e gli brillarono gli occhi. «Ci vediamo mercoledì mattina. Alle otto va bene? Prima che inizi a fare troppo caldo».
Belle annuì, compiaciuta.
«E, tra parentesi, non so se ti hanno già avvisata, ma io starei alla larga dai cani. Alcuni hanno la rabbia. E fai attenzione ai locali vicino ai moli. La maggior parte è solo una copertura per le fumerie d’oppio e i bordelli».
«Buon Dio, non me l’avevano detto».
«Avrebbero dovuto. In origine la città è stata costruita su una palude, perciò le epidemie di colera sono state eventi ricorrenti. Non è da me consigliare di limitarsi a esplorare le zone britanniche e il centro città, ma se sei da sola dovresti».
Quando Oliver se ne andò, le si avvicinò Edward, elegante e con un’aria rilassata. Le rivolse il solito sorriso seducente, ma Belle aveva scorto l’ombra di una strana espressione che lui si era affrettato a dissimulare. C’era qualcosa di più di una semplice antipatia tra lui e Oliver?
«Be’», esordì lui, «sono felice che tu sia venuta. Volevo dirti che il posto migliore dove incontrare chi potrebbe essersi trovato qui ai tempi dei tuoi genitori probabilmente è il club Pegu. È la roccaforte dei dirigenti del servizio civile. Facciamo domenica prossima all’ora di pranzo?»
«Sei molto gentile».
«Non c’è di che. Dunque, so che mia sorella vorrebbe scambiare due parole con te. Vuole portarti al Gossip Point».
Belle rise. «Sembra orribile».
«In realtà è un posticino delizioso, domina il lago Reale. Dove si ritrovano le donne». Le strinse il braccio e parlò con cordialità, gli occhi fissi nei suoi. «Senti, so che dev’essere difficile scendere a patti con quanto è successo, ma non ti conviene vivere nel passato».
Lei aggrottò la fronte. «Non è così… davvero. Ero semplicemente curiosa, niente di più».
«Be’, bene».
Belle abbassò lo sguardo e non aggiunse altro.
«Bene», ripeté lui dandole una pacca sulla spalla. «Ti auguro una splendida settimana. Divertiti».
«Lo farò».
«Passo a prenderti domenica prossima a mezzogiorno. E non dimenticare, se hai bisogno di qualcosa, puoi sempre farmi un colpo di telefono. L’albergo ti darà il mio numero».
Lo ringraziò, ma ad aver realmente stuzzicato la sua curiosità era stato il giornalista americano con la sua offerta di accompagnarla alla Valle Dorata.